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Rapporto CMCC: Italia a rischio, serve agire subito

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Tra il 2021 e il 2050 – secondo il recente rapporto del CMCC – la temperatura in Italia può aumentare tra 1°C e 5°C (a seconda dello scenario di riferimento), quindi più della media globale, costandoci fino all’8% di PIL nazionale per fine secolo in caso di inazione. Senza contare gli impatti sulla salute, soprattutto nelle città (in media 5-10°C più calde del normale), l’esacerbarsi delle disuguaglianze socioeconomiche e l’erosione delle risorse naturali. Ecco una sintesi del rapporto con intervista alla curatrice Donatella Spano.

Tempo di lettura: 8 mins

Quanti campanelli d'allarme dobbiamo ancora sentire suonare? Possiamo anche far finta di niente, ma il nuovo rapporto del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) “Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia” conferma che un solo filo lega tutte le piccole grandi catastrofi che interessano il nostro territorio: il clima che cambia e la nostra impreparazione a fronteggiarne gli impatti. 

La prima cosa che salta all’occhio del rapporto presentato a metà settembre, ma tornato di attualità in questi giorni di maltempo e alluvioni,  è un eccesso di aumento di temperatura per la zona mediterranea, che si configura quindi come hot spot. Un hot spot, come ci spiega Donatella Spano, curatrice del Rapporto, è un’area in cui per variabili come temperatura e precipitazioni si registrano variazioni maggiori dei loro valori (medi ed estremi) rispetto alla norma. In particolare, la regione Mediterranea «può essere considerata un hot spot del cambiamento climatico, perché per questa area geografica, influenzata dal clima arido del Nord Africa e da quello temperato e piovoso dell'Europa centrale, è previsto un riscaldamento che supera del 20% l'incremento medio globale e una riduzione delle precipitazioni in contrasto con l'aumento generale del ciclo idrologico nelle zone temperate comprese tra i 30° N e 46° N di latitudine».

Difatti, l’Italia si è già scaldata di 1.56°C rispetto ai livelli preindustriali, a fronte della media globale di 1.1°C.

Gli scenari: modelli e impatti

Il CMCC ha declinato i famosi scenari dell’IPCC (i Representative Concentration Pathways RCP2.6, RCP4.5 e RCP8.5) su scala italiana utilizzando i Modelli Climatici Regionali (RCM) – COSMO-CLM ed EURO-CORDEX – che arrivano a una risoluzione anche di 8-12 chilometri su scala nazionale, invece dei 50-100 chilometri su scala globale. Questo è possibile, spiega Spano, grazie a tecniche di downscaling dinamico, «che si ottiene con i modelli climatici regionali opportunamente guidati dai modelli climatici globali. I modelli climatici regionali riguardano solo un'area limitata del globo e possono fornire informazioni su scale molto più piccole rispetto ai modelli globali, supportando così una valutazione e una pianificazione dell'impatto e dell'adattamento più dettagliate, che è vitale in molte regioni vulnerabili del mondo».

Confrontando i risultati dei vari modelli emerge chiaramente che, nel periodo 2021-2050 (rispetto a 1981-2010), la temperatura media nazionale italiana aumenti almeno di 1°C (scenario RCP2.6, quello migliore). Considerando gli scenari peggiori (come l’RCP8.5) si potranno raggiungere i 5°C per fine secolo, in particolare nelle zone alpine e durante la stagione estiva.

In generale, le analisi regionali servono per evidenziare differenze Nord-Sud altrimenti non visibili, da cui emergono trend di aumento delle precipitazioni d’inverno al Nord e diminuzione al Centro-Sud d’estate. Si conteranno molte più giornate con temperatura minima sopra i 20°C: le notti tropicali che mettono a repentaglio la salute dei più fragili, come gli anziani. 

Per entrambi gli scenari di emissione, si osservano gli effetti di riscaldamento soprattutto sulle zone costiere che, riferisce Donatella Spano, «forniscono una varietà di servizi ecosistemici estremamente rilevanti che vanno protetti dalle minacce che i cambiamenti climatici stanno determinando, data l'importanza strategica, ambientale, economica e sociale delle nostre coste. Tra i principali servizi ecosistemici svolti dalle zone costiere rientra ad esempio la fornitura di cibo e servizi di regolazione del clima, quali assorbimento/rilascio e redistribuzione del calore e dei gas atmosferici, sequestro e rilascio di CO2 in atmosfera». 

Aumentano i rischi, in città come in campagna

Il CMCC ha analizzato il rischio aggregato e territoriale in Italia per vari ambiti: città, rischio idrogeologico, risorse idriche, agricoltura, incendi. Tra i vari indici utilizzati uno è particolarmente interessante, l’Indice di Resilienza ai Disastri che, come illustra Spano «ha lo scopo di supportare l'implementazione delle indicazioni fornite dalle Nazioni Unite per la riduzione del rischio da disastri e per la loro prevenzione contenute nel Quadro di Riferimento di Sendai per la riduzione del rischio di disastri in Europa. L'indice comprende sette componenti che sono: l'accesso ai servizi, la coesione, le risorse economiche, le condizioni abitative, l'istruzione, lo stato ambientale e le istituzioni».

Le città, per le loro caratteristiche morfologiche, saranno sicuramente i centri abitati meno resilienti in caso di aumento delle temperature. L’ambiente urbano è caratterizzato da superfici impermeabili e pochi elementi naturali, per cui tendenzialmente registra temperature maggiori rispetto alle zone rurali circostanti fino a 5-10°C. Simili condizioni ambientali non possono che rendere le città luoghi molto più vulnerabili. Come spiega il rapporto CMCC:

Sono attesi incrementi di mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus, nefropatie e disturbi metabolici da stress termico e un incremento delle malattie respiratorie dovuto al legame tra i fenomeni legati all’innalzamento delle temperature in ambiente urbano (isole di calore) e concentrazioni di ozono (O3) e polveri sottili (PM10).

Oltre alle città, l’aumento delle temperature aggraverà il già presente rischio idrogeologico su vari fronti: da un lato l'indebolimento dei ghiacciai montani e dei bacini ad alta permeabilità a causa dell’effetto sovrapposto di fusione di neve, ghiaccio e permafrost e dell’aumento delle precipitazioni. Poi meno acqua per gli usi agricolo e zootecnici per via della riduzione della portata degli afflussi e della perdita di qualità, che si sommano alle perdite idriche delle infrastrutture, che ancora oggi possono arrivare fino al 50%. Infine, il documento del CMCC ricorda come il settore agricolo possa essere colpito dall’intensificarsi degli incendi che, a loro volta, produrranno ovvi effetti di feedback positivo rilasciando ulteriori gas serra e particolato atmosferico.

Aumentano i costi e le disuguaglianze

Anche secondo il CMCC la situazione attuale è «un’occasione da non perdere né rimandare: è il momento migliore in cui nuovi modi di fare impresa e nuove modalità per una gestione sostenibile del territorio devono entrare a far parte del bagaglio di imprese ed enti pubblici, locali e nazionali».

Quali sono quindi i costi di una mancata azione politica? Quali invece gli strumenti e le risorse per la transizione? Il rapporto CMCC stima che per aumenti inferiori ai 2°C si avrebbe una perdita limitata allo 0.5% del PIL nazionale; costi che aumenterebbero esponenzialmente per scenari peggiori: nello scenario di +5°C a fine secolo (media globale) si avrebbe una perdita del 2,5% del PIL per il 2050 e del 7-8% per fine secolo. In più, i cambiamenti climatici aumentano le disuguaglianze economiche tra stati e persone, al punto che «in uno scenario RCP8.5, gli indicatori di "uguaglianza" peggiorano del 16% nel 2050 e del 61% nel 2080».

Saranno necessarie nuove risorse

Per quanto riguarda le necessarie misure economiche suggerite, servono strumenti economici innovativi. Nel rapporto si legge che, quando i tempi di ritorno sull’investimento sono lunghi (come nel caso delle infrastrutture), «le pubbliche amministrazioni possono raccogliere capitali attraverso la creazione di partenariati pubblico-privati (PPP)». Così, il pubblico copre gran parte del rischio finanziario che sarebbe insostenibile solo dai capitali privati (la stessa cosa che è successa decenni fa per le innovazioni tecnologiche che oggi sono alla base degli smartphone).

Ancora, i Green Bonds, cioè le cosiddette “obbligazioni verdi”. Strumenti di prestito in cui, si legge, «l’emettitore si impegna a restituire il denaro raccolto sul mercato delle obbligazioni finalizzandolo a specifici progetti di valenza ambientale. I Green Bonds possono essere emessi anche da pubbliche amministrazioni […]. Il mercato delle obbligazioni verdi […] ha superato i 257 miliardi di dollari di emissioni, in costante aumento fin dalla prima emissione di un Green Bond nel 2007 da parte della Banca Europea degli Investimenti (BEI)».

Cassa Depositi e Prestiti, recentemente, ha emesso tre tipologie di obbligazioni che vanno oltre la sola sostenibilità ambientale, comprendendo anche la sostenibilità sociale: Social Bond, Green Bond e Sustainability Bond che dovrebbero servire a finanziare vari progetti, dalle infrastrutture all’istruzione, dallo sviluppo delle PMI all’edilizia sociale e, chiaramente, alla sostenibilità energetica.

Il Piano nazionale di adattamento diventa sempre più urgente anche in Italia

Mentre l'Europa sta aggiornando la strategia di adattamento a livello continentale, prevista entro il 2021, non tutti gli stati membri stanno facendo lo stesso. Di fronte a questa lacuna, i territori si sono dotati di patti e strategie di vario genere: il Patto dei Sindaci, il Patto dei Sindaci per il Clima e l’Energia (a giugno 2020 con più di 10 mila amministrazioni locali aderenti), la rete delle città C40 (Roma, Milano e Venezia ne fanno parte per l’Italia). Ad oggi, «su 6.455 comuni in Europa ben 3.291 sono italiani», che sono il 41% di tutti i Comuni italiani; di questi, come riporta il documento CMCC, attualmente 560 (1.305 totali in Europa) hanno già definito gli obiettivi di adattamento.

Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC) italiano non è stato ancora approvato, ma si presenta secondo Donatella Spano come «una solida base scientifica e informativa a disposizione delle amministrazioni regionali e locali che stanno intraprendendo il percorso di pianificazione dell'adattamento. Il PNACC fornisce infatti un'analisi climatica ad elevata risoluzione per l’Italia, identificando sei macroregioni climatiche sulla base del clima attuale e le rispettive proiezioni climatiche attese secondo due differenti scenari, un'analisi del rischio per il territorio italiano a livello provinciale nonché gli impatti e i rischi attesi per i 18 settori già precedentemente identificati dalla SNAC [Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, ndr]. [...] Viene proposto anche un sistema di monitoraggio delle azioni efficace a scala locale e l'istituzione di una cabina di regia per il monitoraggio del Piano al fine di garantire un controllo a livello centrale che garantisca la standardizzazione delle informazioni, l'omogeneità degli approcci e il supporto ai territori per l’attuazione».

Spano ci ricorda anche che il Piano serve a perseguire quattro principali obiettivi: contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti dei cambiamenti climatici; incrementare la loro capacità di adattamento; migliorare lo sfruttamento delle eventuali opportunità; favorire il coordinamento delle azioni ai diversi livelli di governance.

Intanto il clima conitnua a cambiare, la Terra a riscaldarsi, e in particolare l'hot spot mediterraneo. Per questo, conclude la ricercatrice, è urgente dare attuazione al PNACC e «avviare un processo di adattamento coordinato e condiviso a diversi livelli territoriali, e integrato con gli obiettivi di mitigazione e sviluppo sostenibile.

 

Bibliografia
Spano D. et al. (2020), Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia, CMCC: https://doi.org/10.25424/cmcc/analisi_del_rischi

 


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