fbpx È aperta la caccia ai virus (purché politically correct) | Scienza in rete

Polio, West Nile, vaiolo delle scimmie: è aperta la caccia ai virus

Primary tabs

Poliomielite, West Nile e quello chiamato (per ora, in attesa di una denominazione più idonea e politically correct) “vaiolo delle scimmie" o monkeypox: Simonetta Pagliani esamina tre virus emergenti o riemergenti, che evidenziano come sempre più dovremo confrontarci nel prossimo futuro.

Nell'immagine: poliovirus visto al microscopio elettronico. Crediti: Dr Graham Beards/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0

Tempo di lettura: 9 mins

L'interessante newsletter del New York Times di aggiornamento sulle novità scientifico-cliniche e sulle risposte sanitarie, che fino alla settimana scorsa si chiamava Coronavirus briefing, da mercoledì 16 agosto si chiama Virus briefing. Il cambio di titolo ha un significato tanto logico quanto inquietante, poiché riflette il fatto che l'umanità deve (e sempre più dovrà, nel prossimo futuro) fronteggiare oltre a quella di SARS-CoV-2, anche l'emergenza di altri virus, come quelli della polio, del West Nile o del "vaiolo delle scimmie".

Il ritorno della polio

La malattia da polio-virus (un enterovirus che si presenta in tre sottotipi e che invade rapidamente il sistema nervoso, arrivando a causare paralisi) si è manifestata per l'ultima volta negli Stati Uniti nel 1979 (in Italia, nel 1982). Così, il caso diagnosticato in luglio in un sobborgo di New York in un uomo non vaccinato, insieme alla rilevazione di tracce del virus nelle fognature della città preoccupano gli americani della costa est, su cui ancora aleggia lo spettro delle passate epidemie ricorrenti di poliomielite; quella del 1944 è stata raccontata da Philip Roth nel suo libro Nemesi. La diffusione della polio raggiunse il picco negli Stati Uniti nel 1952 con oltre 21.000 casi registrati, mentre in Italia, nel 1958, ne furono notificati oltre 8.000.

Il 24 ottobre 2019, l'OMS dichiarò eradicato, dopo il poliovirus selvaggio di tipo 2, anche il poliovirus di tipo 3, ma la malattia veicolata dal poliovirus di tipo 1 resta endemica in Afghanistan e Pakistan. Tuttavia, le tracce ritrovate nelle acque di scarico di New York (ma anche di Londra e Gerusalemme) non sembrano essere di virus selvaggi del sottotipo sopravvissuto, ma di virus vivi attenuati presenti nei vaccini orali tipo Sabin, che sono in uso nei paesi che non hanno le risorse economiche e logistiche per accedere ai vaccini iniettabili Salk. Questi poliovirus vaccino-derivati, espulsi con le feci da chi proviene da quei paesi, possono replicarsi in una forma virulenta, in grado di infettare soggetti appartenenti a comunità in cui sono precarie sia l'immunizzazione antipolio sia le condizioni igieniche.

Per fermare definitivamente la polio occorre vaccinare a tappeto e, purtroppo, non è ancora possibile rinunciare al vaccino orale; i ricercatori della Global Polio Eradication Initiative (GPEI), in cui agiscono, tra gli altri, la Gates Foundation, l’OMS e il Rotary International hanno, però, elaborato una modifica del virus vaccinale esistente, che tende a stabilizzarlo. L'OMS ha autorizzato la diffusione del nuovo vaccino orale antipolio (nOPV2) nel novembre 2020 e ne sono state somministrate in tutto il mondo già 450 milioni di dosi.

Dal West Nile al vaiolo delle scimmie

Il virus West Nile, della famiglia delle flavoviridae, trasmesso dalle zanzare, come quelli di Dengue e Chikungunya, produce una delle zoonosi cosiddette ri-emergenti, che in altre epoche climatiche flagellavano solo le zone tropicali e che adesso dilagano nelle zone temperate. L'Italia ha il primato europeo di contagi e morti: secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, da inizio giugno allo scorso 16 agosto sono stati segnalati 230 casi e 13 decessi da infezione da virus West Nile, con interessamento di quasi tutte le regioni.

E il catalogo delle zoonosi è in continuo aggiornamento: è stato appena scoperto in Cina e descritto sul New England Journal of Medicine un virus della famiglia paramyxoviridae, denominato Langya (LayV).

L'ultimo arrivato all'onore delle cronache, nonché all'assurdo disonore dello stigma è un orthopoxvirus strutturalmente correlato al virus del vaiolo: nella popolazione generale dei paesi dove non è endemico, il rischio di contrarre la malattia è basso e il 98% dei casi diagnosticati riguarda uomini adulti che hanno rapporti sessuali con altri uomini, come emerge da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine. Il virus diffonde con tre modalità principali: contatto diretto con le lesioni cutanee, contatto con oggetti e biancheria contaminati o per via aerea, tramite le goccioline di saliva o muco espulsi da tosse e starnuti. Per ora non è stato, invece, appurato se il contagio possa avvenire via fluidi seminali o vaginali o via urine o feci e neppure quanto tempo prima che i segni e i sintomi si rendano palesi possa iniziare.

Rochelle Walensky, già professoressa di medicina alla Harvard Medical School e dal 2020 direttrice dei Centers of Disease Control and Prevention (CDC), auspica che si eviti di ricadere negli stessi errori che hanno caratterizzato la risposta al nuovo coronavirus: errori di comunicazione e d'implementazione delle acquisizioni scientifiche nella pratica (che hanno contribuito a produrre l'enorme resistenza all'uso delle mascherine e l'esitazione o la riluttanza vaccinale di cui gli USA sono stati campioni), di iniqua distribuzione dei vaccini ai paesi in via di sviluppo (che ha generato nuove varianti) e, infine, di smantellamento e frammentazione delle infrastrutture di sanità pubblica (attuato anche in molti paesi europei) ha indebolito la linea di difesa dalla malattia. Per fronteggiare il rapido aumentare dei casi di vaiolo delle scimmie, è dunque il caso di allestire velocemente un piano vaccinale mirato ai soggetti a rischio di sviluppare la malattia e ai sanitari che li curano.

Probabilmente, questo nuovo piano non incontrerà, in Occidente, le stesse difficoltà di persuasione di quello contro Covid-19, a giudicare dalle foto pubblicate sui quotidiani estivi e che mostrano lunghe file di uomini in attesa della vaccinazione nelle principali città americane. Paradossalmente, lo stigma ha una sua contropartita nella determinazione a vaccinarsi da parte delle persone che si riconoscono nella categoria dei soggetti suscettibili; l'attuale parziale fallimento vaccinale è, piuttosto, da attribuirsi all'insufficiente produzione e distribuzione del vaccino. Anche l'EMA, l'agenzia regolatoria del farmaco europea, ha da poco approvato il vaccino fabbricato dalla piccola casa farmaceutica danese Bavarian Nordic, per la sua sufficiente sicurezza d'impiego. Del vaccino, conosciuto come Imvanex in Europa, Imvamune in Canada e Jynneos negli Stati Uniti, vanno somministrate due dosi a distanza di un mese una dall'altra e la Bavarian Nordic fatica a onorare la commessa ricevuta a livello mondiale.

Anche tipi diversi di vaccino contro il vaiolo umano (non più inoculati da quando, nel 1980, il vaiolo è stato dichiarato eradicato) sarebbero efficaci per il vaiolo delle scimmie, ma i rischi connessi alla potenziale capacità dei virus in essi contenuti di replicarsi nelle cellule umane non sono accettabili per prevenire una malattia che ha mostrato un decorso in grande prevalenza a prognosi fausta. Molti esperti di salute pubblica, in realtà, giudicano pericolosamente insufficiente e discriminatoria l'attuale risposta al vaiolo delle scimmie, basata sull'idea che solo poche persone (per lo più gay, trans e africani) stiano morendo in questo focolaio epidemico: si sta dando al virus un'enorme possibilità di adattarsi per dilagare. Esistono due diversi ceppi di vaiolo delle scimmie: il più letale circola nella Repubblica Democratica del Congo e nei paesi limitrofi, mentre la versione meno virulenta circola nell'Africa occidentale e, ora, nei paesi ad alto reddito. Non solo in questi, tuttavia: sono ormai più di 100 i paesi che stanno segnalando casi di vaiolo delle scimmie e, in molti di essi, l'incidenza è sottostimata, per carenza di test diagnostici PCR, con conseguente difficoltà a prendere decisioni sull'uso delle risorse. Sono quindi necessari lo sviluppo e la produzione di un test rapido che possa essere utilizzato nei paesi a basso reddito, perché solo il rilevamento precoce può interrompere la trasmissione. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il Brasile ha quasi il 10% dei casi di monkeypox nel mondo, ma, come ai paesi dell'Africa che da decenni subiscono epidemie di questo virus, gli mancano i vaccini e le cure. L'OMS, che ha dichiarato il vaiolo delle scimmie un'emergenza di salute pubblica di interesse internazionale il 23 luglio, non ha però, al contempo, garantito un equo accesso a test, trattamenti e vaccini. La distribuzione del vaccino è concentrata negli Stati Uniti e in Europa: l'azienda danese Bavarian-Nordic ne aveva circa 16 milioni di dosi, la maggior parte delle quali era prenotata dal governo degli Stati Uniti, che avevano contribuito con oltre 1 miliardo di dollari allo sviluppo del vaccino come strategia di difesa dopo l'11 settembre, quando temeva che il vaiolo potesse essere usato come arma biologica. Il restante milione di dosi è stato rapidamente acquistato da Canada, Australia e paesi europei, a partire da maggio. L'ipotesi del vaiolo come minaccia biologica ha a lungo limitato le informazioni sulle scorte dei vaccini e dei trattamenti, considerate di sicurezza nazionale, tanto che vi hanno accesso gli esperti della difesa invece che quelli di salute pubblica (NYT Virus briefing, 12 settembre 2022). Anche il farmaco antivirale tecovirimat veniva prodotto dalla Siga Technologies contro il vaiolo per le riserve di sicurezza nazionale degli Stati Uniti; la sua efficacia contro il vaiolo delle scimmie è stata testata solo nei primati non umani e la mancanza di dati sull'uomo impedisce ora all'OMS di attuare il processo di prequalifica che aiuta i paesi ad accelerarne l'autorizzazione. È facile obiettare che se il farmaco fosse stato testato nei paesi endemici, ci sarebbero stati dati a sufficienza, ma Camerun e Repubblica Centrafricana non erano evidentemente interessanti, in un'ottica di mercato.

Questione di nomi

La reale emergenza sanitaria si è complicata con una battaglia di politically correctness. Il nome monkeypox (vaiolo delle scimmie in inglese) attribuito nel 1958, perché la malattia è stata identificata nelle scimmie di un laboratorio danese (anche se i primati non sono il suo serbatoio naturale, per ora, non accertato), è provvisorio ed è in atto una campagna per sostituirlo con uno più appropriato. L'ha indetta in giugno l'OMS, sulla spinta di una mozione apparsa su un sito semi-ignoto e difficilmente raggiungibile, nella quale un gruppo internazionale di scienziati guidato da Christian Happi, direttore dell'African Centre of Excellence for Genomics of Infectious Diseases alla Redeemer's University di Ede, in Nigeria, invocava una denominazione del virus e della malattia non discriminatoria e non stigmatizzante. Era sotto accusa, in particolare, l'esibizione nelle foto sui media mondiali delle tipiche lesioni sulla pelle di bambini neri. In risposta a questo appello, l'OMS ha stabilito che i virus che verranno d'ora in poi identificati dovranno avere nomi che "evitino di essere offensivi verso qualsiasi gruppo culturale, sociale, nazionale, regionale, professionale o etnico" e minimizzino gli "impatti negativi su commercio, viaggi, turismo o benessere degli animali". L'ultima specifica è meno peregrina di quanto appaia, visto che, pochi giorni prima della delibera, nella riserva naturale di Rio do Preto, in Brasile, dieci scimmie erano state avvelenate in quanto sospette untrici.

 

Mentre la denominazione delle malattie è in capo all'OMS, quella dei virus è in capo all'International Committee on the Taxonomy of Viruses (ICTV ): nel caso del nuovo coronavirus, per esempio, l'OMS ha chiamato Covid-19 la malattia e ICTV ha chiamato SARS-CoV-2 il virus. Secondo l'ICTV, la consuetudine all'appellativo monkeypox batterà qualsiasi pretesa animalista; l'ente prevede che verrà al massimo posposto (Orthopoxvirus monkeypox). Comunque, alla data della delibera dell'OMS (12 agosto), quando erano già stati contati 31.500 casi e 4 morti nei paesi non endemici, un nuovo nome per il virus non era ancora saltato fuori, ma si era solo convenuto di togliere alle sue varianti gli appellativi Congo e Africa occidentale e di passare alla loro numerazione romana.

Per la prima volta nella storia, l'OMS ha aperto la possibilità di suggerire il nuovo nome del "vaiolo delle scimmie" anche al pubblico laico, che ha dato libero sfogo alla fantasia nell'inventare dall'emulo "POXVID-22" all'allusivo "TRUMP-22" (che il proponente assicura essere l'acronimo di Toxic Rash of Unrecognised Mysterious Provenance - 2022). L'operazione rischia di diventare "virale"(mai nome fu più calzante), qualora si avvertisse l'esigenza di rottamare Ebola o West Nile (fiumi africani), Lassa (città africana), Lyme (città del Connecticut) o febbre delle Montagne Rocciose. Il nome dovrà comunque essere scelto seguendo le precise linee guida World Health Organization Best Practices for the Naming of New Human Infectious Diseases, formulate nel 2015 e in accordo con l'United Nation’s Food and Agriculture Organization e con la World Organization for Animal Health. Non sarà una decisione veloce; nel frattempo, alcuni enti sanitari locali si rifugiano in sigle come MPV e MPX.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Addio a Giancarlo Comi, il clinico che ha rivoluzionato lo studio e la cura della sclerosi multipla

Il neurologo Giancarlo Comi, scomparso negli scorsi giorni, membro del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, ha rappresentato molto per il mondo scientifico ma anche per quello associativo per il suo straordinario contributo allo studio e il trattamento della sclerosi multipla, e il progressivo coinvolgimento delle persone colpite dalla malattia nella ricerca e nella cura. Pubblichiamo il ricordo del grande clinico da parte di Paola Zaratin, direttrice ricerca scientifica della Fondazione italiana sclerosi multipla, che con Comi ha intrapreso un lungo percorso di collaborazione.

È morto a 76 anni Giancarlo Comi, professore onorario di neurologia all'Università Vita-Saluta San Raffaele e direttore scientifico del progetto Human Brains di Fondazione Prada, scienziato di fama internazionale nel campo delle neuroscienze e delle malattie neurologiche, ed esperto di sclerosi multipla.