fbpx Vaiolo delle scimmie, attenzione allo stigma | Scienza in rete

Vaiolo delle scimmie, attenzione allo stigma

Primary tabs

Tempo di lettura: 11 mins

Crediti immagine: CDC/ Cynthia S. Goldsmith

Possono avere caratteristiche genetiche estremamente differenti tra loro, seguire diverse modalità di trasmissione, causare infezioni con sintomi eterogenei e di varia gravità, ma i microrganismi patogeni responsabili delle malattie infettive non fanno distinzione di orientamento sessuale. E se esistono comportamenti sessuali che espongono le persone a un maggior rischio di contagio, si tratta appunto di comportamenti e non di orientamenti. Una differenza importante e non stigmatizzante. Questa è una lezione che dovremmo aver imparato dallo stigma nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTIQ+ durante l’epidemia di HIV che, dall’inizio degli anni Ottanta, ha colpito e tuttora colpisce la popolazione mondiale.

Inoltre, quando emergono nuove epidemie, è importante agire in fretta, cercando di identificare e isolare i nuovi casi e i contatti, senza abbandonarsi a narrazioni affrettate e stereotipate. Questa è una lezione che abbiamo imparato non solo con HIV, ma anche con la pandemia di SARS-CoV-2. Eppure, il recente e anomalo incremento di casi di vaiolo delle scimmie, malattia infettiva simile al vaiolo umano ma meno grave, che nelle ultime settimane è stata rilevata in Europa, nel Regno Unito e in altri paesi del mondo (con, nel momento in cui si scrive, sei casi anche in Italia) fa riflettere su quanto davvero si impari dalle epidemie del passato.

Il vaiolo delle scimmie, un sorvegliato speciale

Tutto è iniziato ai primi di maggio, quando il Regno Unito ha notificato all'Organizzazione mondiale della sanità un caso confermato di vaiolo delle scimmie in una persona che aveva soggiornato in Nigeria nelle settimane precedenti allo sviluppo dei sintomi. Questo non aveva destato particolari preoccupazioni nelle istituzioni sanitarie: il vaiolo delle scimmie è endemico in alcune regioni dell’Africa centrale e occidentale, in cui sporadicamente si verificano piccole epidemie. La malattia è una zoonosi silvestre (si chiama “delle scimmie” perché è stata rilevata per la prima volta nelle scimmie da laboratorio nel 1958, ma si pensa che venga trasmessa da roditori) causata dal Monkeypox, un virus appartenente al genere degli orthopoxvirus, lo stesso del vaiolo umano (Variola virus), malattia che ha afflitto gli esseri umani per oltre 3000 anni prima di essere stata dichiarata eradicata dall’OMS nel 1980, grazie a campagne di vaccinazione di massa e strategie di contenimento dei contagi. In effetti, il vaiolo delle scimmie si manifesta con sintomi simili al vaiolo umano: dopo il periodo di incubazione, che varia da 5 a 21 giorni, si verificano febbre, dolori muscolari, cefalea, linfonodi gonfi, stanchezza e lesioni cutanee caratteristiche: vescicole e pustole che compaiono soprattutto sul viso, formano croste e poi cadono, lasciando la pelle profondamente segnata.

Esistono due cladi di Monkeypox virus, quello dell'Africa occidentale e quello dell’Africa centrale (in particolare del bacino del Congo), che danno luogo a malattie con esiti differenti tra loro: se per l’infezione del ceppo dell’Africa occidentale il tasso di mortalità è di circa l’1%, per quello dell’Africa centrale la mortalità può arrivare fino al 10%. Si tratta comunque di una malattia meno contagiosa e meno grave del vaiolo umano, che possedeva un tasso di mortalità pari al 30%. Proprio per la sua somiglianza con il corrispettivo umano e per la capacità di dare luogo a diversi focolai di infezione, il vaiolo delle scimmie è stato monitorato attentamente dalle istituzioni sanitarie, soprattutto dopo l’eradicazione del Variola virus e la conseguente interruzione delle vaccinazioni per questa malattia. Come riporta un editoriale di Nature, in Nigeria è in atto un’epidemia di vaiolo delle scimmie dal 2017, con oltre 500 casi sospetti e più di 200 confermati, mentre la Repubblica Democratica del Congo è alle prese con questo virus da decenni. Nel 2003 si è verificata per la prima volta un’epidemia di questa malattia in aree non endemiche, quando negli Stati Uniti il Monkeypox virus è stato trasmesso a più di 70 persone, a causa di roditori infetti provenienti dal Ghana.

La situazione attuale

Non è quindi la prima volta che si ha a che fare con epidemie di vaiolo delle scimmie. Tuttavia, a partire dalla metà di maggio, il virus ha iniziato a emergere in popolazioni separate e in aree del mondo in cui di solito non compare. Oltre ai primi casi del Regno Unito che avevano avuto un contatto con la Nigeria, infatti, dal 13 maggio 2022 sono stati segnalati molti altri casi di vaiolo delle scimmie in persone che non avevano collegamenti di viaggio con aree endemiche. Al momento si contano oltre 120 casi in 12 paesi in cui la malattia virale non è endemica, compresi Regno Unito, Spagna, Portogallo e Italia.

Nel nostro paese il primo caso è stato confermato il 19 maggio scorso dall’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma: si tratta di una persona di ritorno da un viaggio nelle isole Canarie; in meno di una settimana, con nuovi casi nel Lazio, in Toscana e in Lombardia, i casi in Italia sono saliti a 6. In linea con i dati di un sequenziamento del DNA eseguito su un campione in Portogallo, si tratterebbe del ceppo dell’Africa occidentale (quello che provoca la malattia meno grave) ed è probabile che sia correlato agli altri contagi rilevati in Europa. “Dall’analisi del DNA virale - riporta un comunicato stampa dell’istituto - sono tutti risultati affini al ceppo dell’Africa occidentale, con una similarità del 100% con i virus isolati dei pazienti in Portogallo e Germania. Potremmo essere anche in Italia di fronte a un virus ‘paneuropeo’, correlato con i focolai osservati in vari paesi europei, in particolare quello delle isole Canarie. Sono in corso gli accertamenti su altri casi sospetti”.

I dubbi sul contagio

È proprio sulle modalità di trasmissione e sul contagio apparentemente anomalo all’interno di questi focolai che sorgono i principali interrogativi: quasi tutti i gruppi di casi confermati includono persone di età compresa tra 20 e 50 anni, di cui – riportano le principali istituzioni sanitarie - la maggior parte si identifica come uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (in inglese men who have sex with men, noto con l’acronimo MSM). Come affermano i Centers for disease control and prevention (Cdc) statunitense, il termine MSM è spesso usato in medicina per riferirsi unicamente al comportamento sessuale delle persone, indipendentemente dall'orientamento.

Fermo restando che secondo i CDC, il termine MSM comprende un gruppo eterogeneo in comportamenti, identità e bisogni sanitari, perché le indicazioni delle istituzioni sanitarie hanno fatto riferimento al comportamento sessuale dei contagiati? La menzione alle persone che si identificano come MSM è comparsa fin dall’annuncio dei primi cluster di contagi nel Regno Unito: nella pagina dedicata al Monkeypox del sito del governo britannico, è il 16 maggio quando, per la prima volta, si indica sia il comportamento sia l’orientamento sessuale delle persone a cui è stato diagnosticato il vaiolo delle scimmie. “Sono in corso le indagini per stabilire i collegamenti tra gli ultimi 4 casi, che sembrano essere stati tutti contagiati a Londra. Tutti e 4 questi casi si identificano come gay, bisessuali o uomini che si identificano come MSM”, si legge nella nota relativa al vaiolo delle scimmie di quel giorno. “Il virus si diffonde attraverso uno stretto contatto e la UK Health Security Agency (UKHSA) consiglia alle persone, in particolare a coloro che sono gay, bisessuali o MSM, di prestare attenzione a eventuali eruzioni cutanee o lesioni insolite su qualsiasi parte del loro corpo, in particolare i loro genitali, e di contattare un servizio di salute sessuale se hanno preoccupazioni”, continua un aggiornamento del 18 maggio. Nonostante emergano, man mano che aumentano i casi, contagi non solo tra uomini che si identificano come MSM, il 23 maggio sempre la stessa istituzione riporta che “una percentuale notevole di casi rilevati riguarda uomini gay e bisessuali, quindi l'UKHSA continua a esortare questa comunità a prestare attenzione ai sintomi del vaiolo delle scimmie”.

Le modalità di trasmissione

La stranezza principale di questi focolai, oltre al fatto di essere emersi in zone in cui il Monkeypox non è diffuso e senza collegamenti con aree endemiche, è proprio la modalità di contagio, che nella maggior parte dei casi sembrerebbe essere correlata a rapporti sessuali. In realtà, però, il vaiolo delle scimmie non è una malattia sessuale: la trasmissione del virus si verifica principalmente attraverso i droplet di saliva. Dal momento che le goccioline respiratorie non possono viaggiare a lungo in aria (come invece avviene per la trasmissione attraverso aerosol, tipica dei virus respiratori), è necessario un contatto stretto e prolungato con una persona infetta. Altri metodi di trasmissione includono il contatto diretto con i fluidi corporei o il materiale delle lesioni cutanee, oppure il contatto indiretto con il materiale delle lesioni, per esempio attraverso indumenti contaminati. Come si legge sulla pagina dello European center for disease control and prevention (ECDC), la maggior parte dei casi rilevati in Europa presentava lesioni sui genitali o sull'area perigenitale, indicando che la trasmissione probabilmente si è verificata con uno stretto contatto fisico durante le attività sessuali.

«Sebbene il vaiolo delle scimmie non sia noto per essere trasmesso sessualmente, l'attività sessuale costituisce certamente uno stretto contatto», afferma su Nature Anne Rimoin, epidemiologa dell’Università della California, che per decenni ha studiato il Monkeypox nella Repubblica Democratica del Congo. In effetti, un aggiornamento dell’ECDC del 23 maggio riporta che, in base a una valutazione epidemiologica, la probabilità che il virus si diffonda in persone che hanno più partner sessuali è considerata elevata. Il rischio complessivo, infatti, è valutato come moderato per le persone che hanno più partner sessuali e basso per la popolazione più ampia. Sarebbe per questo motivo che, come si legge nel sito del centro europeo, “le organizzazioni di salute pubblica e le organizzazioni comunitarie dovrebbero adottare misure per aumentare la consapevolezza sulla potenziale diffusione del vaiolo delle scimmie nelle comunità di individui che si identificano come MSM o che hanno rapporti sessuali occasionali o che hanno più partner sessuali”. Ma se è vero che il rischio è più elevato per le persone che hanno rapporti sessuali occasionali o più partner sessuali, questo non spiegherebbe la ragione per cui citare le persone MSM, fin dai primi resoconti sui contagi.

Considerando unicamente l’epidemiologia della malattia, il fatto che buona parte dei casi registrati in Europa comprenda persone che si identificano come MSM potrebbe essere dovuto alla diffusione del virus per via di contatti stretti (che potrebbero essersi verificati durante un rapporto sessuale, ma anche per esempio condividendo spazi comuni) all’interno di una certa comunità. «La spiegazione più probabile per questo modello inaspettato di trasmissione», afferma su Nature Raina MacIntyre, epidemiologa esperta in malattie infettive dell'Università del New South Wales a Sydney, in Australia, «è che il virus sia stato introdotto casualmente in una comunità di MSM e abbia continuato a circolare lì. Gli scienziati avranno un'idea migliore dell'origine dei focolai e dei fattori di rischio per l'infezione una volta completata un'indagine epidemiologica, che può richiedere settimane e comporta un rigoroso tracciamento dei contatti».

Evitare lo stigma

Se da una parte aumentare la consapevolezza nelle comunità in cui, casualmente, si sono verificati i primi casi di una malattia infettiva possa aiutare le autorità sanitarie a tracciare i contagi e a contenere l’epidemia, d’altro canto il rischio di stigma è concreto. È quanto denunciano le Nazioni Unite in una nota dell’UNAIDS, il programma congiunto sull'HIV/AIDS: l’ente ha infatti espresso preoccupazione per il fatto che alcuni resoconti e commenti dei media stessero rafforzando stereotipi omofobici e razzisti, ribadendo che il vaiolo delle scimmie potrebbe colpire chiunque, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Non è un caso che a riguardo sia intervenuto proprio l’UNAIDS: spesso, infatti, la narrativa che è emersa dal racconto dell’attuale epidemia di vaiolo delle scimmie ricorda in maniera inquietante i rapporti iniziali sui cluster di polmonite da pneumocystis negli uomini appartenenti alla comunità LGBTIQ+ con AIDS agli inizi degli anni Ottanta. «Lo stigma e la colpa minano la fiducia e la capacità di rispondere efficacemente durante epidemie come questa», ha affermato Matthew Kavanagh, vicedirettore esecutivo di UNAIDS. «L'esperienza mostra che una retorica stigmatizzante può disabilitare rapidamente la risposta basata sull'evidenza alimentando cicli di paura, allontanando le persone dai servizi sanitari, ostacolando gli sforzi per identificare i casi e incoraggiando misure punitive inefficaci».

Lo stigma perpetrato verso una certa comunità o gruppo di persone, infatti, è un problema per l’intera sanità pubblica. Come scrive su The Conversation Andrew Lee, professore di salute pubblica nell’Università di Sheffield, nel Regno Unito, lo stigma nei confronti della comunità LGBTIQ+ ha avuto gravissime conseguenze di salute fisica e mentale sulle persone colpite, ma ha anche determinato gravi ripercussioni sul sistema di sanità pubblica: per esempio, per la paura di essere discriminate alcune persone non si sottoponevano a controlli medici o non erano disposte a rivelare chi fossero i loro contatti, ostacolando gli obiettivi di tracciamento dell’epidemia e di contenimento dei contagi.

“Il vaiolo delle scimmie non è una malattia gay, e nemmeno le altre malattie infettive lo sono”, scrivono sul blog della rivista scientifica Plos Public Health Boghuma K. Titanji, virologa all’Università di Emory, negli Stati Uniti, Keletso Makofane, ricercatrice di sanità pubblica e attivista e @neurofourier, Global Health & Pandemic Response Technical Advisor ai CDC. “È un peccato che questo debba ancora essere detto, evidenziando quanto poco abbiamo imparato dalle epidemie precedenti”. E in effetti, quanto imparato dal passato, anche recente, sembra ben poco: simili modelli di stigma verso un gruppo specifico sono emersi anche durante la pandemia di Covid-19, inizialmente nei confronti di persone di origine asiatica e poi, con l’identificazione della variante omicron, nei confronti delle persone dei paesi dell’Africa meridionale. È importante che non si perpetui lo stesso errore con il vaiolo delle scimmie, tenendo a mente le lezioni del passato e comunicando in maniera chiara, tempestiva e trasparente, con maggiore accesso a fonti sanitarie affidabili, senza veicolare stereotipi potenzialmente dannosi. “Dobbiamo diffondere il messaggio sul vaiolo delle scimmie in modo sensibile, senza alimentare paura e sfiducia e discriminare inavvertitamente gli uomini che fanno sesso con uomini”, conclude Lee.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: