Del contesto e del “feeling” generale percepito alla conferenza internazionale, tornata negli USA dopo 22 anni, abbiamo recentemente scritto. Di seguito, le novità principali secondo chi scrive (a proposito, tutte le sessioni dei diversi “track” sono state riassunte da un team di relatori e possono essere visualizzate a questo indirizzo).
Se la precedente conferenza internazionale di Vienna (luglio 2010) sarà ricordata per il breakthrough del CAPRISA 004 - il primo studio clinico che ha dimostrato la parziale efficacia di un microbicida a base di un farmaco antiretrovirale se assunto entro 4 ore prima o dopo il rapporto sessuale - e la VI conferenza sulla Patogenesi da HIV di Roma (luglio 2011) per i risultati del trial HPTN052 (terapia=prevenzione), non vi sono dubbi che la recente conferenza di Washington lo sarà per il rinnovato entusiasmo nella ricerca della “Cura”. Questo termine comprende sia la completa eradicazione dell’infezione da una persona infettata o in quella che Anthony S. Fauci, Direttore del NIAID/NIH, ha definito per primo una “cura funzionale”, ovvero il silenziamento totale dell’espressione virale o la riduzione del numero di cellule portatrici di virus infettante (replication competent) al di sotto della soglia di propagazione intra-ospite e di trasmissione ad altro individuo. Quest’ultima possibilità è letteralmente incarnata da Timothy Ray Brown, altrimenti noto come “il paziente di Berlino”, il quale sul proprio biglietto da visita ha scritto “la prima persona curata (ovvero, in cui sia stato eradicato il virus) da HIV/AIDS”. Il suo caso eccezionale è stato già oggetto di numerose pubblicazioni scientifiche : HIV-1+ e affetto da linfoma, Tim è stato prima irradiato, dopo aver sospeso l’assunzione di farmaci antiretrovirali, ed ha poi ricevuto due successivi trapianti di midollo da donatore compatibile. Fin qui nulla di eccezionale, se non che Gero Hutter, il suo medico Berlinese, ebbe l’intuizione geniale di scegliere un donatore di midollo HLA-compatibile che fosse anche portatore omozigote di una variante del gene CCR5 (CCR5-∆32) che non permette l’espressione in membrana del co-recettore necessario, insieme alla molecola CD4, al virus per infettare linfociti e macrofagi. La terapia antiretrovirale di combinazione (cART) non è stata più ripresa e, dopo diversi anni, il virus non è più dimostrabile nelle cellule di Tim, il quale si è sottoposto volontariamente ad ogni tipo d’indagine, inclusa una biopsia cerebrale.
Se la storia di Tim Brown era
già nota prima della Conferenza, essa l’ha sicuramente ispirata. Infatti, una
delle principali novità in tema è arrivata da Timothy Henrich, della Harvard Medical School di Boston - MA, che ha
riportato il caso di due pazienti, entrambi eterozigoti per CCR5-∆32, con una
storia simile a quella di Tim - dal momento che hanno seguito un analogo iter
terapeutico - ma, differenza fondamentale, sono stati ricostituiti con midollo
da donatore compatibile eportatore del gene CCR5 normale, ovvero in grado di
generare cellule potenzialmente infettabili dal virus. Nonostante ciò, dopo
oltre 1.200 giorni, non vi sono evidenze di ripresa della replicazione virale e
tutti i parametri correlati, incluso il DNA virale, sono in discesa, sebbene i
ricercatori per primi sottolineino come non sia affatto escluso che il virus
possa essere nascosto in qualche organo o tessuto e possa risvegliarsi senza
preavviso alla sospensione della cART. Perché questi trapianti di midollo, a
differenza di molti altri eseguiti in passato, sembrano fruttare esiti
insperati contro l’infezione, oltre a salvare la vita ai pazienti che,
altrimenti, morirebbero di linfoma? La chiave potrebbe essere nell’eterozigosi
CCR5-∆32 dei due pazienti, nel dosaggio “moderato” della chemioterapia (“reduced-intensity
conditioning”) precedente il trapianto o forse nell’efficacia della reazione di
rigetto che i linfociti presenti nel midollo osseo trapiantato potrebbero esercitare
contro le cellule dell’ospite, alcune delle quali infettate dal virus, la ben
nota reazione “graft versus host”.
Domande che sicuramente stimoleranno la
ricerca in queste (ed altre) direzioni.
Sempre nell’ottica della “Cura”, un altro importante passo avanti è stato compiuto dal team guidato da David Margolis (Chapel Hill, NC) che ha studiato la capacità di Vorinostat (un inibitore delle iston deacetilasche, agendo a livello epigenetico, sono in grado di risvegliare il virus latente almeno in vitro) di attivare il virus latente in pazienti HIV-1+trattati contemporaneamente concART(per impedire la reinfezione di nuove cellule CD4+ da parte del virus eventualmente rilasciato dalle cellule stimolate dal farmaco). Lo studio, appena pubblicato su Nature, ha avuto giusta enfasi non tanto per i risultati in sé (un modesto aumento di 3-5 volte sui livelli di base dei trascritti senza evidenze di aumento, anche transitorio, della viremia) quanto per la “proof of concept”di essere nella direzione giusta per identificare strategie efficaci al fine della “Cura” (si veda anche, a tal proposito, l’articolo di consenso dell’International AIDS Society, sotto la guida del suo neo Presidente, il Premio Nobel Francoise Barré-Sinoussi, pubblicato in coincidenza della conferenza).
Se riattivare il virus dormiente è una delle strategie condivise per arrivare all’eradicazione del virus (l’altra, opposta, è quella di silenziarlo definitivamente), uno studio recente di Robert F. Siliciano (Johns Hopkins University, Baltimore, MD) ha dimostrato che risvegliare la replicazione del virus non basta per eliminare le cellule infettate, ma che è necessario aggiungere per esempio linfociti T citotossici alla coltura cellulare per ottenere questo effetto. Siliciano ha presentato dati interessanti su dimensioni e qualità del serbatoio (reservoir) di virus latente nei pazienti trattati con cART. Rispetto alla stima di ca. unacellula T CD4+“resting memory”su 106 alberghi virus infettante - in base a test messi a punto dal su stesso laboratorio - associando un accurata valutazione del DNA virale si ottiene un numero 300 volte maggiore di cellule latentemente infettate. Sequenziando i genomi virali dalle cellule latentemente infettate Siliciano ha osservato che nella maggior parte dei casi si ottengono sequenze difettive dal punto di vista molecolare (cioè virus non in grado di propagarsi), ma che nel 17% dei casi le sequenze sono intatte e dimostrano, quando trasferite in un clone molecolare infettivo di virus, di essere appunto in grado di replicarsi. Ciò significherebbe un serbatoio di virus infettante 50 volte più grande di quanto in precedenza stimato. La domanda che non ha per il momento risposta è come mai solo uno dei 50 virus presenti in un milione di cellule sia in grado di risvegliarsi ed iniziare la propagazione dell’infezione. Limite tecnico dei correnti metodi di stimolazione cellulare o diversità biologica?
Una potenziale risposta in
questa direzione è stata indicata da Fabio
Romerio, uno dei nostri giovani “cervelli in fuga”, da alcuni anni ricercatore
nell’Istituto di Virologia Umana fondato da Robert C. Gallo a Baltimora (MD) e recipiente di un grant della Fondazione Gates per
un’impresa quasiimpossibile: identificare geni e marcatori in grado di
distinguere le cellule T latentemente infette dalle altre non infette, il
classico ago nel pagliaio…
Eppure Romerio sta ottenendo dati incoraggianti in un
modello d’infezione in vitrodi
linfociti primari umani da lui messo a punto qualche anno fa. Grazie alla trascrittomica comparativa ed allo studio di marcatori di
membrana, Romerio ha dimostrato che le cellule T latentemente infette hanno un profilo
trascrizionale differente di alcune decine di geni da quelle non infettate e
presentano in superficie livelli più alti della molecola CD2 (recettore
espresso dai linfociti T e dalle cellule NK ed in grado di legare la molecola
di adesione LFA-3 o di formare rosette con gli eritrociti di pecora).
Aspettiamo il compimento di questo studio per capirne i potenziali risvolti applicativi.
Che il virus possa essere più “intelligente” di quanto già non lo facessimo lo rivela uno studio di Frederic “Rick” D. Bushman (University of Pensylvania School of Medicine, Philadelphia, PA), che una decina d’anni fa aveva mappato i siti d’integrazione di HIV-1 nel genoma umano e ne aveva dimostrato la non casualità, ma la concentrazione in “hot spot”. Bushman ha presentato dati che suggeriscono come il virus possa generare oltre 100 trascritti virali diversi “giocando” sullo splicing, ovvero il fenomeno per cui alcuni RNA possono essere tagliati e ricongiunti in punti diversi generando così trascritti di lunghezza diversa. Associando due tecnologie avveniristiche, quali la RainDance technology, capace di distribuire sequenze di genoma virale in goccioline, al sequenziamento con tecnologia della Pacific Bioscience, in grado di leggere lunghe sequenze (fino a 3.500 Kb) mantenendo intatti gli esoni, Bushman ha ridefinito, appunto, la potenzialità diversificativa dei messaggeri virali. Oltre ad una nuova versione della proteina Tat e di una proteina di fusione tra Rev e Nef (“Ref”), per il momento senza funzione, ha identificato dei messaggeri molto corti (1Kb) di significato al momento sconosciuto.
Come
si può facilmente capire anche da questa breve sintesi, la ricerca su HIV
continua e con rinnovata energia a produrre nuove scoperte, potenzialmente rilevanti
anche in campi contigui, per esempio nell’ambito dei trapianti di midollo. Rari
gli Italiani, nonostante la nostra storia anche recente ne dimostri il valore
scientifico (vedi precedenti articoli su queste colonne). Attendiamo novità dai
Ministeri competenti, in particolare dal Ministro della Salute, per capire se
potremo continuare a contribuire a livello scientifico (oltre che politico) all’impresa
globale di combattere e, auspicabilmente, sconfiggere definitivamente l’AIDS.
Altrimenti ci limiteremo ad assistere (o a ricoprire ruoli marginali) alla ricerca condotta,
magari da ricercatori formati e cresciuti professionalmente in Italia, in altre
nazioni più lungimiranti.
Referenze
Poli, G. La cura a un punto di svolta. Ma
l’Italia (forse) non lo sa. Scienzainrete, 2
agosto 2012
Abdool Karim,
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