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Milano capitale della ricerca

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Il dopo Expo si colora di scienza, ma anche del giallo del mistero, e del verde della bile. Non è stato accolto infatti con grandi sorrisi il piano “marziano” calato su Milano dal premier Renzi (e raccontato con dovizia di dettagli domenica 8 novembre dal Corriere della sera): lo Human Technopole Italy 2040 (qui un nostro commento), una sorta di Boston Area meneghina, composta in prima battuta dall’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova, Fondazione Mach di Trento e l’ISI di Torino…

E Milano? Ah, è vero, Milano. Dopo una pessima domenica, tutti sono accorsi a spegnere i primi segnali di incendio: dal sindaco Giuliano Pisapia allo stesso direttore prodige dell’IIT Roberto Cingolani, che ha subito chiarito che nel progetto verranno coinvolte Università Statale e Bicocca… Nei prossimi giorni si avranno i particolari di un piano nato fra i malumori e le polemiche (“Sono basita”, Cristina Messa, rettore Università Bicocca). E mentre i pontieri lavorano a una laboriosa riconciliazione, Scienzainrete ha voluto stendere qualche nota sul presente e il passato della ricerca a Milano: un primo tentativo di mappa delle competenze scientifiche del capoluogo lombardo, da implementare d’ora in avanti con periodici aggiornamenti. E che possa rispondere alla domanda che molti si fanno in questi giorni: Milano, presunta nuova capitale morale del paese, può ambire anche al titolo di capitale scientifica? Vediamo.

Già a un primo sguardo è impossibile non osservare come Milano abbia saputo legare il suo nome al mondo della ricerca quanto o più di molte città italiane, affermandosi soprattutto nelle scienze biomediche,. E questo nonostante gli esigui finanziamenti che l’Italia destina alla ricerca, poco più dell’1 per cento del PIL, contro percentuali che vanno dal 3 al 4% in alcuni paesi europei più evoluti. E nonostante anche l’esiguo numero di italiani che intraprendono la strada della ricerca (2,8 su 1.000 lavoratori, contro i 5,5 del Regno Unito, i 9 degli Stati Uniti e i 10 del Giappone). In questo panorama desolante Milano rappresenta un’eccezione, concentrando entro i suoi confini una realtà scientifica ricchissima, caratterizzata da un forte grado di internazionalizzazione e di intreccio con la vita sociale da un lato e quella produttiva dall’altro. Tutto è la ricerca milanese fuorché una ricerca “pura e astratta”, svincolata dal contesto in cui è cresciuta.

Qualunque indicatore riconferma la vocazione di Milano per la ricerca. Se prendiamo ad esempio il numero di progetti che la Commissione europea ha finanziato nella tornata di programmazione scientifica conclusa da non molto (il settimo programma quadro, dal 2007 al 2013), vediamo che Milano ha una capacità di attrazione di progetti e finanziamenti pari a città come Barcellona e Berlino, ponendosi sesta in Europa dietro solo alle grandi capitali europee. Un dato eloquente viene ricordato nella più recente all Centro studi Ambrosetti: “Nella lista finale dei 400 scienziati più influenti al mondo (per Indice di citazioni) compaiono otto italiani, sei dei quali rimasti a lavorare nei centri di ricerca del paese, cinque in strutture lombarde” (Il ruolo dell’ecosistema dell’innovazione nelle scienze della vita per la crescita e la competitività del Paese, European House Ambrosetti, 2015).

Spigolando fra le statistiche ci si rende conto di quanto sia ricca la mappa della ricerca di eccellenza a Milano. Dominano ovviamente le grandi università: prima di tutte l’Università degli studi, unico Ateneo italiano peraltro a far parte della rete LERU, vale a dire la rete delle università di ricerca europee, fortemente impegnata a preservare la vocazione di ricerca di base e indipendente che dovrebbe sempre caratterizzare le università. Seguono nella “classifica” dei progetti europei, il Politecnico, la Bicocca, la Bocconi e la Cattolica. Spostandosi dagli atenei agli altri enti, si nota la presenza importante degli istituti milanesi del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Non passa inosservata, infine, la preponderanza di centri clinici, farmacologici e di biomedicina pubblici e privati, come l’istituto dei tumori, l’IEO, l’IFOM, il Besta, l’Humanitas, l’Istituto Mario Negri, segno che la ricerca milanese si distingue soprattutto per la biomedicina, oltre che nei filoni dell’energia, i nuovi materiali, le biotecnologie e l’information technology.

Anche sul fronte del trasferimento tecnologico e dei brevetti Milano domina in Italia. Secondo i dati della Camera di Commercio, infatti, Milano deposita in media circa un quarto dei brevetti che nascono in Italia (nel 2011 sono state 70mila le domande complessive). Non altrettanto brillante la capacità di passare dalla ricerca alle applicazioni e ai brevetti da parte di Milano se la si confronta con le grandi capitali della ricerca e sviluppo europee, come Monaco, Berlino, Parigi e Londra, veri hot spot dell’innovazione continentale.

Il CNR a Milano 
L’Area della Ricerca del CNR di Milano di via Corti 12 nasce nel 1978 con l’insediamento di cinque Istituti di Ricerca nel complesso edilizio di via Bassini, cuore del tradizionale centro della vita scientifica milanese, in piena Città Studi, tra il Politecnico e altri Istituti Scientifici. Con la nuova sede di via Corti e la ristrutturazione di due piani dell’edificio di via Bassini, si stima che nell’area confluiranno un totale di 9 dei 28 Istituti CNR presenti in tutta la Lombardia, dove lavorano 1100 addetti fra ricercatori, tecnici e amministrativi. Il CNR collabora con 200 fra Università, centri di ricerca e imprese della Lombardia; altre 654 collaborazioni riguardano istituzioni sparse in Italia; 300 in Europa e più di 100 nel mondo. Da alcuni dati risulta che i 1.094 ricercatori del  CNR hanno potuto contare su un finanziamento complessivo di circa 26 milioni di euro, l’83% ottenuto da fonti esterne. Questi finanziamenti hanno consentito di produrre 7.373 pubblicazioni di standard internazionale e 137 brevetti, oltre a numerosissimi rapporti tecnici ed altre attività in ambito formativo e applicativo. Gli istituti CNR presenti a Milano comprendono quasi tutti i principali ambiti disciplinari: dalla fisica alla chimica; dalla biologia vegetale alle tecnologie avanzate. (Alba L’Astorina)
Dettaglio progetti/ istituti Mi del CNR

Il primato biomedico

In campo medico l’ecosistema milanese è straordinariamente ricco e diversificato. Dall’avventura dell’Istituto nazionale dei tumori, Umberto Veronesi fonda nel 1994 l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), in via Ripamonti, nel Parco Agricolo Sud Milano. Il suo Dipartimento di oncologia sperimentale è certamente uno degli avamposti della ricerca avanzata in Italia e nel mondo. Lo dirige Pier Giuseppe Pelicci. I suoi studi vertono essenzialmente sulla genesi delle leucemie e sulla traduzione dei segnali cellulari. Nel 2000 il suo gruppo è stato il primo a individuare il gene P66, capace di controllare nel topo la longevità. Negli ultimi anni le sue ricerche si sono concentrate sui meccanismi di accensione e spegnimento delle onco-proteine. Ha individuato anche i meccanismi molecolari che portano alla trasformazione di una cellula staminale normale in cellula tumorale, scoprendo così nuovi bersagli terapeutici. 

Dal 2007 il Dipartimento di oncologia sperimentale di IEO si è unito all'Istituto FIRC di oncologia molecolare (IFOM) nella nuova sede di via Adamello. IFOM è un centro di ricerca internazionale dedicato allo studio della formazione e dello sviluppo dei tumori a livello molecolare, nell'ottica di un rapido trasferimento dei risultati dal laboratorio alla pratica diagnostica e terapeutica. Oltre che a  Milano, l‘IFOM ha laboratori a Singapore e in India, a Bangalore. Nella sede milanese lavorano circa 300 ricercatori, di cui circa un quarto proviene da 27 Paesi e con una percentuale femminile del 60%. Qui lavora Elisabetta Dejana, responsabile del programma IFOM di angiogenesi e autrice di oltre 300 studi pubblicati sulle riviste scientifiche più accreditate. La sua ricerca più importante risale agli anni ’90, quando la scienziata individua una proteina "adesiva" che, allo stesso modo di una cerniera lampo tiene unite tra di loro le cellule del tessuto endoteliale (la cosiddetta VE-Caderina). Questa proteina ha un ruolo chiave nel processo di vascolarizzazione dei tumori e, quindi, costituisce un importante bersaglio per le terapie oncologiche. 

A Milano l’IRCCS pubblico con maggiore produzione scientifica è l’Ospedale Maggiore (direzione scientifica di Pier Mannuccio Mannucci), dove fin dai tempi di Mangiagalli si è fatto strada il concetto di medicina traslazionale, quando ancora non si chiamava così (vedi sotto). Fra le tante specialità di punta dell’ospedale, i ranking di eccellenza scientifica segnalano la neurologia, diretta da Nereo Bresolin, che ha dato negli ultimi anni ottimi risultati nel campo delle malattie neuromuscolari (come la distrofia muscolare) e neurodegenerative (Alzheimer e Sclerosi multipla). Al Centro Dino Ferrari, il gruppo di Bresolin lavora in particolare sul trapianto di cellule staminali nelle malattie neuromuscolari. 

All’avanguardia è anche il Centro Angelo Bianchi Bonomi per la lotta alle malattie emorragiche e trombotiche, ora diretto da Flora Peyvanti. Ultima ricerca in ordine di tempo sull'emofilia, lo studio randomizzato e condotto su pazienti in cinque continenti, che ha mostrato la superiorità dei derivati naturali del plasma sui farmaci biotecnologici per quanto riguarda il livello di immunogenicità che inducono nell’organismo del paziente.I derivati del plasma che si tengono dai centri trasfusionali, spiega lo studio Sippet, è in grado di provocare una minore risposta di anticorpi (e quindi di compromettere le cure) rispetto alle terapie con fattori ricombinanti. La Ca’ Granda vanta anche - secondo la classifica redatta da Expertscape - il migliore centro mondiale per la ricerca e la cura dell’endometriosi, diretto da Paolo Vercellini.

Tornando verso Città Studi, nella sede di via Viotti di Unistem ha lavorato a lungo un’altra donna-simbolo della scienza milanese: Elena Cattaneo, ora in forza al nuovo istituto Nazionale di Genetica Molecolare. I più la conoscono come senatore a vita, nominata nell’ultima tornata da Giorgio Napolitano insieme a Renzo Piano, Claudio Abbado e Carlo Rubbia. Ma ciò per cui è diventata famosa è lo studio delle cellule staminali embrionali, materia controversa - come è noto - ma che dà grandi speranze per la comprensione e la cura delle malattie. Dalla loro straordinaria capacità di svilupparsi dallo stato indeterminato in cui si trovano nelle linee cellulari specializzate che costituiscono il nostro organismo, deriva il valore di queste staminali, e anche la sfida di governarle in questo sviluppo senza che degenerino verso forme tumorali. Elena Cattaneo dirige una serie di ricerche volte in buona parte a “addomesticare” queste cellule, in modo che in futuro possano davvero aprire le porte di una nuova medicina: la medicina rigenerativa, che infondendo cellule staminali sane nell’organismo bersaglio possa riparare lesioni e curare malattie, da malattie rare a le piaghe dell’Alzheimer e del cancro. Prospettive lontane, si dirà, ma già qualche segnale del corretto funzionamento delle staminali la ricerca medica ce lo sta inviando. 

Luigi Naldini, per esempio, attuale direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (TIGET) di Milano, è riuscito per la prima volta nel mondo a curare due malattie rare di natura ereditaria correggendo il gene difettoso responsabile della malattia e reinserendolo nei piccoli pazienti, avvalendosi anche di cellule staminali. E’ dal 1990 che in tutto il mondo gruppi di ricerca cercano di “correggere il codice”: uno dei primi è stato Claudio Bordignon, altro scienziato di punta del San Raffaele che ora ha creato una sua azienda biotecnologica (Molmed) proprio per provare a commercializzare queste terapie d’avanguardia. Un’altro medico-ricercatore che ha collaborato al successo della terapia genica è l’immunologa Maria Grazia Roncarolo, a lungo direttore scientifico del San Raffaele. Nell’ambito delle malattie genetiche le sue ricerche sui bambini affetti da immunodeficienza combinata grave (SCID) hanno reso il San Raffaele di Milano il centro di riferimento mondiale per la cura di una di queste rarissime malattie. Nel 2002 per la prima volta al mondo, Roncarolo con la sua équipe ha messo a punto un protocollo clinico con utilizzo di cellule staminali adulte, che ha portato al successo la terapia genica per l’ADA-SCID, assicurando la correzione a lungo termine dei sintomi della malattia. Fra i pionieri di questi lavori c'è l'immunologo Mago Mario Clerici (Università degli Studi di Mlano), da tempo fra i massimi esperti di AIDS e ai vertici del ranking nel Citation Index.  C’è chi scommette che uno dei prossimi Nobel per la medicina possa riguardare proprio la terapia genica. 

Queste ricerche genetiche e oncologiche non sarebbero mai potute essere condotte in Italia senza il finanziamento di fondazioni come Telethon e AIRC, ambedue fiorite a Milano. Il loro contributo alla scienza non è peraltro solo quello economico, ma anche nel metodo di valutazione rigorosa del valore scientifico dei progetti da finanziare basato sulla revisione dei pari secondo regole ben codificate (peer-review), comunemente in uso negli Stati uniti e in altri paesi europei ma non Italia. Un notevolissimo contributo alle ricerche di medicina, ma anche di altre discipline scientifiche, arriva anche dalla Fondazione Cariplo, che ogni anno investe quasi 30 milioni di euro in più di 100 progetti di ricerca nel distretto milanese e lombardo. In questo campo anche la Regione Lombardia interviene con finanziamenti attraverso la Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica, diretta da Aldo Tagliabue, a cui si deve nel 2015 un bando per supportare da 3 a 5 grandi progetti per un importo complessivo di 15 milioni di euro (vedi articolo).

Un altro centro di eccellenza della ricerca medica si trova in realtà alle porte di Milano: a Rozzano. E’ il centro clinico Humanitas, a un tempo ospedale, università e grande laboratorio con oltre duecento ricercatori. Lo dirige Alberto Mantovani, immunologo a cui si deve la scoperta fondamentale della relazione fra infiammazione e sviluppo tumorale. Sua è anche l’identificazione delle chemochine e di altre componenti fondamentali del sistema immunitario. Suo è l’indice di citazioni dalla letteratura scientifica internazionale più alto di tutti gli ricercatori che lavorano in Italia in tutti i campi della scienza.

Molti di questi ricercatori sono cresciuti in un altro centro di ricerca storico di Milano, l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, fondato da Silvio Garattini nel 1960. Lo si potrebbe definire la coscienza critica del mondo dei farmaci, e non solo. Da sempre infatti Garattini e suoi ricercatori (più di un migliaio fra le sedi di Milano, Bergamo e Santa Maria Imbaro presso Chieti) svolgono ricerche su farmaci e sostanze chimiche in modo indipendente dall’industria, promuovendo i medicinali davvero innovativi rispetto a quelli esistenti e stigmatizzando invece il fenomeno molto diffuso dei farmaci fotocopia che non aggiungono nulla in fatto di efficacia all’esistente. 

In questo filone si iscrive la nascita del braccio italiano della Cochrane Collaboration, diretta fino alla sua morte prematura da Alessandro Liberati (1954-2012). La Cochrane esamina attraverso "revisioni sistematiche" tutta la letteratura scientifica attenente a un determinato farmaco, cura o intervento diagnostico per valutarne oggettivamente il grado di efficacia. Si tratta di un vaglio impietoso e benefico, che condanna alla futilità una quota non insignificante della medicina in cui crediamo (per non parlare di quella palesemente ascientifica come l’omeopatia), e che rappresenta uno strumento essenziale di consapevolezza sia per decidere come curarsi, sia per approntare politiche sanitarie basate su prove di efficacia e non su miti o spinte commerciali. 

Non solo di farmaci si occupa il "Mario Negri”, ma anche di epidemiologia, cuore, cervello, reni: il direttore del centro bergamasco dell’istituto, Giuseppe Remuzzi, ha dato contributi fondamentali nel campo delle terapie antirigetto del trapianto di reni. Quest'anno Remuzzi è stato nominato per chiara fama professore di Nefrologia del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dell'Università di Milano. Al "Negri" ci si occupa anche di tossicologia ambientale. Ha fatto scalpore per esempio la ricerca condotta dal Mario Negri sui metaboliti di sostanze stupefacenti nelle acque di Milano (fra Lambro e Navigli), che regolarmente aumentano durante i fine settimana. Ma anche dell’inquinamento da ormoni e altre sostanze di origine farmaceutica che oltre a costituire un problema per pesci e altri organismi acquatici, lentamente migrano nelle falde sotterranee.

Scienza e anti scienza

La ricerca biomedica in particolare è stata messa a dura prova negli ultimi tempi da una serie di iniziative che ne hanno messo in discussione la sua stessa ragion d'essere. Ci riferiamo in particolare all’offensiva animalista contro la sperimentazione animale, che è arrivata a segnare a dito questi e altri ricercatori come vivisettori. In ordine di tempo l’ultima fiammata pro-animali e anti-ricercatori si è verificata in occasione del recepimento della direttiva europea che dovrebbe normare al meglio l’uso di modelli animali per scopi sperimentali. Mentre negli altri paesi, pure con qualche polemica, la direttiva è stata recepita senza modifiche, in Italia una potente lobby è riuscita a condizionare il Parlamento al punto da far passare pesanti restrizioni alla sperimentazione. Silvio Garattini, Elena Cattaneo e molti altri hanno cercato di contrastare la visione romantica e un po’ infantile secondo la quale la medicina possa già oggi fare a meno del contributo degli animali da laboratorio. Gli importanti risultati sull’AIDS o nella lotta ai tumori sarebbero impensabili senza la sperimentazione su modelli animali (al 95% topi di laboratorio). Ma i richiami alla ragione, se hanno evitato il peggio, non sono riusciti evitare dal tutto modifiche peggiorative della legge che di fatto nei prossimi anni potrebbe rendere più difficile la nascita di laboratori di biologia e medicina sperimentale in Italia. 

Un’altra vicenda molto dolorosa per il coinvolgimento di malati e famiglie è il caso Stamina la cura-truffa di Davide Vannoni basata su un cocktail privo di basi scientifiche su presunte staminali somministrate a pazienti affetti da malattie più o meno rare (spesso bambini). Lo scandalo ha riguardato soprattutto la Lombardia e in particolare gli spedali civili di Brescia, che hanno incredibilmente acconsentito per un certo periodo alla cura. Anche in questo caso la comunità scientifica milanese si è particolarmente distinta (in primis Elena Cattaneo, Giuseppe Remuzzi, Michele De Luca e altri importanti staminologi) a contrastate le illusioni di famiglie adescate dalla speranza irrealistica di una guarigione facile. Si è trattato di un altro caso Di Bella, forse peggiore di quello per la presenza, mentre scriviamo ancora al vaglio della magistratura, di interessi commerciali che suggeriscono il sospetto di una vera e propria truffa.

In queste battaglie si è distinto in particolare il Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, una associazione nata a Milano che raduna i ricercatori italiani più citati nella letteratura internazionale, fra cui in campo medico Silvio Garattini, Pier Mannuccio Mannucci, Giuseppe Remuzzi, Alberto Mantovani, Mago Mario Clerici, Gaetano Di Chiara, Giuseppe Mancia, Carlo La Vecchia e Maria Grazia Roncarolo, ma anche gli astrofisici Tommaso Maccacaro, Isabella Gioia e Filippo Frontera, la farmacologa Maria Pia Abbracchio, il fisico Giorgio Parisi, i chimici Vincenzo Balzani e Luigi Nicolais, il matematico Franco Brezzi, il computer scientist Marco Ajmone Marsan e il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, per citarne solo alcuni (vedi l'elenco completo). Le finalità del Gruppo sono da un lato la promozione e la difesa della cultura scientifica, e dall’altro una riforma del sistema della ricerca in senso meritocratico. Le due proposte più note in questo senso sono l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la sostituzione degli organi ministeriali con una Agenzia italiana per la ricerca scientifica (AIRS), possibilmente collocata a Milano, che gestisca l’organizzazione di bandi e l’attribuzione di fondi alla ricerca attraverso il metodo della peer-review e istituendo controlli adeguati. “L’agenzia deve essere caratterizzata da flessibilità, efficienza e rigore, utilizzando tutti i fondi disponibili per la ricerca, che oggi invece si disperdono in mille rivoli e sono soggetti alla discrezionalità dei burocrati”, si legge in un documento del Gruppo 2003.

Dalle particelle al cosmo

Oggi la grande ricerca vive di collaborazioni internazionali, e volerla confinare a un territorio, peggio ancora dentro i confini di una città, rischia di tradire il suo spirito. Lo scienziato è globe-trotter per natura, anche se in Italia lo è soprattutto per necessità. Ma la fuga dei cervelli non è affatto una cosa riprovevole, sempre che i cervelli, oltre che fuggire, venissero anche attratti in Italia, cosa ancora piuttosto difficile per una serie di ragioni. Diciamo quindi che osservare l’attività scientifica dalla specola di Milano è riduttivo, ma allo stesso tempo è un esercizio interessante, che mostra quali e quanti fili leghino i nostri ricercatori al resto del mondo.

Nella fisica Milano è in effetti terra di grandi forze centrifughe fin dai tempi di Giuseppe Occhialini. Negli ultimi anni molti cervelli milanesi, coordinati dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) che ha Milano è presente con le due Sezioni di Milano e Milano Bicocca, sono stati catturati dal Large Hadron Collider (LHC) del CERN di Ginevra (al quale l'Italia con l'INFN ha dato contributi fondamentali), con risultati culminati nella scoperta del Bosone di Higgs e nel conseguente Nobel per la fisica del 2013. E’ stato difficile scegliere a chi dare il Nobel. Gli accademici svedesi se la sono cavata conferendolo agli ultraottantenii Peter Higgs e Francois Englert, che ne hanno previsto l’esistenza in modo indipendente nel 1964. Tuttavia si tratta di uno dei Nobel più partecipati del secolo, visto che è stato di fatto dedicato a tutti gli “sperimentali" (più di tremila persone) che lo hanno effettivamente trovato facendo scontrare milioni di volte particelle nel grande anello sotterraneo del Cern. Fra questi la comunità italiana è la più numerosa, e i milanesi si contano a decine. A partire da Fabiola Gianotti, che è stata responsabile del progetto ATLAS, che si è laureata in fisica a Milano nel 1989 per poi prendere la via del Cern nel 1994, e di cui da gennaio sarà direttore generale. E’ stata sua la leadership di uno dei due esperimenti chiave per la scoperta del bosone ed è stata lei a dare al mondo l'annuncio della scoperta 4 luglio 2012, assieme a Joe Incandela leader di CMS, l'altro esperimento artefice del clamoroso risultato. Una responsabilità che le ha fruttato numerosi riconoscimenti, e di fatto il Nobel per procura. Prima ancora dell’exploit, comunque, il giornale inglese "The Guardian” la ha inserita fra le "100 most inspirational women" in tutti i campi  (di cui 7 nel campo scientifico e medico). Da Milano arriva anche Lucio Rossi, di fatto colui che si è occupato dei giganteschi magneti superconduttori del Large Hadron Collider ginevrino. Anch’egli laureato in Fisica nel 1980 e dal 1992 professore del Dipartimento di Fisica dell'Università di Milano, si è affermato fra i massimi esperti nell’uso di questi materiali nella fisica delle particelle e fisica nucleare. Dopo aver installato i magneti al LHC è stato nominato responsabile del progetto High Luminosity LHC. 

I Dipartimenti di fisica e le Sezioni INFN di Milano Statale e Bicocca hanno decine di ricercatori che pendolano fra Milano e Ginevra, da Laura Perini a Marcello Fanti a Luigi Moroni: chi si è occupato della costruzione del calorimetro elettromagnetico del LHC, cruciale per la scoperta, e dei rivelatori di silicio; chi nell’analisi dei decadimenti del bosone in fotoni e leptoni. Chi ancora nello sviluppo delle infrastrutture di calcolo distribuito necessarie all'immagazzinamento e all'analisi della enorme mole di dati raccolti.

Milano guarda anche al cosmo. E se nell’Ottocento e ancora nei primi del Novecento si puntava il telescopio rifrattore Merz al cielo di Milano dalla specola di Brera, ora si alternano viaggi di lavoro nei mega osservatori sulla cordigliera delle Ande, alle Canarie o in cima ai vulcani delle Haway, dove l’atmosfera è ancora decentemente pulita e rarefatta, con lunghe sessioni di calcolo e interpretazione dei dati riportati a casa - in Osservatorio o in università - in dischi abbastanza capienti. “In effetti il mestiere dell’astrofisico è molto cambiato dai tempi di Schiaparelli e Celoria” racconta nella sede dell’Osservatorio di Brera Tommaso Maccacaro, già direttore dell’Osservatorio e presidente dell’Istituto nazionale di Astrofisica (INAF). “Oggi si lavora soprattutto sui dati, e non si lavora più solo sulla lunghezza d’onda del visibile, ma un po’ su tutte, dall’infrarosso, alle onde radio ai raggi x”. I circa sessanta ricercatori distribuiti fra l’Osservatorio d Brera e quello di Merate seguono vari filoni di ricerca: dallo studio dei nuclei galattici attivi (vale a dire quelle galassie che serbano in seno buchi neri di massa enorme, miliardi di volte quella del Sole, e pertanto sede di fenomeni fisici molto “vivaci”), alla ricerca degli esopianeti (cioè pianeti che ruotano intorno ad altre stelle) che ora vengono osservati dal telescopio nazionale Galilei installato alle Canarie. Negli ultimi anni la cosmologia ha fatto passi da gigante nell’avvicinarsi ai primi momenti di vita dell’universo dopo il Big Bang. All’INAF di Milano Marco Bersanelli, ad esempio, ha svolto un ruolo di primo piano nella missione Planck, in cui il satellite ha scattato una “foto” straordinariamente dettagliata dell’universo e della sua radiazione cosmica di fondo come appariva appena 380mila anni dopo l’esplosione primigenia. Prima era impossibile rilevarla perché i fotoni non riuscivano ancora a liberarsi dal miscuglio originario di materia e radiazione. Quell’immagine ottenuto dal telescopio orbitante Planck è di straordinaria importanza perché ci dà nuove informazioni su come si sono formate le galassie, e nel contempo apre nuovi dubbi sul fatto che l’Universo sia simmetrico in tutte le direzioni o piuttosto profondamente disomogeneo e ancora da scoprire.

Il cosmo, le stelle e lo spazio non sono studiati solo all’Osservatorio. Al Politecnico di Milano, per esempio, l’ingegneria spaziale ha avuto in Amalia Ercoli Finzi un personaggio di primo piano a livello internazionale. Con lei, infatti, prima donna laureatasi al Politecnico di Milano in ingegneria aeronautica e ancora oggi professore emerito dell’Ateneo, l’Italia ha contribuito significativamente a molte missioni spaziali europea. La sonda Rosetta, lanciata dall’ESA nel marzo del 2004, dopo aver sorvolato Marte e più volte la Terra, si è inoltrata negli spazi cosmici profondi dove è entrata in “ibernazione” (dal luglio 2011 al gennaio 2014) e quindi ha agganciato la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko sula quale a novembre 2014 ha fatto atterrare un modulo in grado di sondare il nucleo della cometa.

Milano politecnica

"Sotto un titolo che ad alcuno sembrerà per avventura ambizioso, noi divisiamo annunciare la più modesta delle intenzioni, quella cioè di appianare ai nostri concittadini con una raccolta periodica la più pronta cognizione di quella parte di vero che dalle ardue regioni dell Scienza può facilmente condursi a fecondare il campo della Pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune e alla convivenza civile. Desiderosi di pur giovare anche nella debolezza dei nostri studj: obbedienti alla voce del secolo che preferisce allo splendore delle teorie i pazienti servigi dell'Arte: persuasi che ogni scienza più speculativa deve tosto o tardi anche da' suoi più aridi rami produrre qualche insapettato frutto all'umana società: noi intendiamo farci quasi interpreti e mediatori fra le contemplazioni dei pochi e le abitudini dei molti”. Così Carlo Cattaneo presentava la rivista "il Politecnico”, titolo ambizioso che si faceva portatore delle modesta intenzione di rendere la cultura utile al progresso civile e sociale delle moltitudini ("le abitudini dei molti”). E benché la visione dominante della cultura in Italia abbia preso in realtà la strada dell’idealismo e degli studi letterari, Milano ha mantenuto l’imprinting della cultura politecnica proposta dagli illuministi lombardi e poi dal Cattaneo. 

Il Politecnico di Milano - nel nome stesso - ne è un esempio. Attivo nelle scienze spaziali ma anche nelle nanotecnologie con laboratori all’avanguardia; nella robotica come nella nuova disciplina della ingegneria matematica, oggi il Politecnico di Milano ha superato le aspettative dei suoi fondatori: oggi è la più grande scuola di architettura, design e ingegneria d’Italia ed è considerato dal QS World University Rankings tra le migliori università scientifico-tecnologiche del mondo. Secondo la classifica del 2013, è ventottesima nel mondo, nona in Europa e prima in Italia fra le università tecniche. 

Al di là di date classifiche, il “Polimi” si sente internazionale, tanto che ha attivato molti insegnamenti in inglese e ha già oggi il 20% degli studenti provenienti da oltre cento paesi (la media degli atenei italiani è del 4,23%). E internazionale è anche la ricerca, che vede infatti il Politecnico primeggiare a Milano quanto a progetti europei. I programmi di ricerca fanno riferimento a quindici aree strategiche, in particolare nei campi dell’energia, dei trasporti, della progettazione, della matematica e dell’information technology, dell’ambiente costruito e dei beni culturali, con oltre 130 laboratori. Di questi i più noti sono il Laboratorio per i Crash test dei veicoli, la Galleria del Vento e il Laboratorio di Modellistica e calcolo scientifico, diretto da Alfio Quarteroni, matematico noto ai più per aver ottimizzato con i suoi calcoli l’aerodinamica e l’idrodinamica di Alinghi, la barca a vela svizzera che ha vinto due edizioni della Coppa America nel 2003 e nel 2007. Ma il campo di indagine del suo laboratorio è molto ampio e comprende l’applicazione della matematica e della geometria praticamente a tutti i sistemi complessi che si possono avvantaggiare di opportune modellizzazioni: è il caso della medicina (importante per esempio la “matematizzazione” del flusso sanguigno), di fenomeni naturali come terremoti  e alluvioni, o nuovi ritrovati tecnologici da testare con i modelli prima della loro effettiva produzione.

Fra Politecnico, Università degli Studi, Bicocca e CNR a Milano negli ultimi quindici anni si è assistito a una forte concentrazione di laboratori e spin-off biotecnologiche, nanotecologiche e di scienza dei materiali: è una rete di ricerca industriale e - come la si chiama adesso - “pre-competitiva”, destinata a preparare nuovi prototipi innovativi per un eventuale esordio sui mercati. Dal Laboratorio di tecniche laser avanzate del Politecnico diretto da Barbara Previtali, al Centro Prometeo per l trattamento dei materiali con il plasma, della Bicocca; dal Biotechnicum per industrializzare i prodotti biotecnologici (Danilo Porro) al centro Mib Solar (Gianfranco Pacchioni) che studia le nuove forme di impianti fotovoltaici, la ricerca a forte impronta tecnologica sta seminando nuovi brevetti e iniziative imprenditoriali. 

Sempre a Milano-Bicocca due ricercatori - Francesco Meinardi e Sergio Brovelli - hanno messo a punto "concentratori solari luminescenti" (LSC) in una lastra di plastica, lasciando così spazio anche alla fantasia di architetti e designer. Si tratta  di un dispositivo che combina due materiali con proprietà ottiche differenti, sfruttando la loro complementarietà. La lastra di plastica trasparente è ‘arricchita’ con nanoparticelle di semiconduttore, capaci di assorbire ed emettere fotoni quando colpite da luce visibile; la luce emessa da questi cromofori viaggia all'interno della lastra, proprio come fa in una fibra ottica usata per le telecomunicazioni, ed è infine convertita in elettricità da piccole celle fotovoltaiche collocate fine lungo il perimetro del dispositivo. Pubblicato su Nature Phisics, la ricerca fa sperare in un salto di qualità, durata e efficacia del nuovo fotovoltaico basato su concertatori della scala dei nanomateriali, quindi intorno al miliardesimo di metro. Il problema è ora passare dalla ricerca all’applicazione industriale.

“Quando si considera il rapporto fra ricerca e industria non bisogna fare l’errore di parlare da un lato di ricerca di base, e dell’altro di ricerca applicata: è una divisione che non ha senso. Tutta la ricerca, anche quella apparentemente più astratta, è applicata, nel senso che prima o poi cerca di avere ricadute pratiche” spiega Paolo Milani. Chi è Paolo Milani: uno scienziato o un businessman? E se fosse tutti e due? La storia di Milani è esemplare di come la ricerca contemporanea non si faccia più inquadrare nelle tradizionali divisioni fra scienze della vita e della materia, e fra laboratorio e sviluppo industriale. Dal punto di vista accademico, Milani insegna nanotecologia al Dipartimento di Fisica dell’Università. Diciamo che è un “artigiano" del XXI secolo: dai suoi studi escono materiali nanostrutturati e dispositivi che servono vuoi per diagnosi di tumori in vitro, vuoi per neurostimolazioni per traumi del midollo spinale. Per ciascuna di queste applicazioni ha depositato brevetti e fondato tre società. Poi però Milani si toglie il cappello di professore e nel resto della giornata collabora con la Fondazione Filarete, che si regge su un mix inedito di profit e non profit costituito da università di Milano, Fondazione Cariplo e Banca Intesa. La sede di 6.000 metri quadrati in viale Ortles ospita per ora una ventina di imprese che vogliono delocalizzare la ricerca, e funge da acceleratore per quei progetti industriali che promettono di portare le idee che nascono nei laboratori sul mercato. Di nuovo, gli ambiti sono le biotecnologie e i nanomateriali, con sbocchi nel farmaceutico, nella nutraceutica (che consiste nella individuazione di principi alimentari attivi anche nella cura di malattie), o nella medicina rigenerativa.“Serve avere un tessuto connettivo che renda l’innovazione fruibile" conclude Milani.

C’è poi chi affianca l’industria manifatturiera anche più tradizionale - spina dorsale dell’economia italiana - con ricerche volte a rendere la fabbrica sempre più “intelligente”, digitalizzata e robotizzata. Oltre al Politecnico, interviene in questo ambito il CNR con l'Istituto di tecnologia industriale e automazione (ITIA) diretto da Tullio Tolio, ricchissimo di progetti di robotica e meccatronica, ma anche attivo sulle innovazioni logistiche e organizzative. Fra i 14 istituti del CNR milanese che si sono aggiudicati progetti europei del settimo programma quadro (2007-2013), l’ITIA ne ha portati a casa addirittura 30, quasi un record italiano.

Un sogno chiamato grafene
Uno dei materiali nanotecnologici più promettenti è il grafene, a cui non a caso la Commissione europea ha dedicato un progetto bandiera da 1 miliardo di euro che mette insieme 126 gruppi di ricerca in 17 paesi. Il grafene altro non è che un foglietto bidimensionale di atomi di carbonio, che compone - strato su strato - la comune grafite delle matite. Praticamente non ha spessore, è flessibile, ma anche più resistente dell’acciaio… e trasparente. E’ impermeabile al 100%, ma è anche il materiale che la mondo conduce meglio l’elettricità. Impossibile trovare tante qualità in un unico materiale per giunta così impalpabile. Ed è questo che ne fa il sacro graal della nanotecnologia, impiegabile in molti ambiti, dall’elettronica ai lubrificanti tecnici, dall’aerospazio ai materiali sportivi. Se un tempo c’era la Silcon valley, ora c’è chi scommette nella Graphene valley. Anche la ricerca italiana è coinvolta nel progetto europeo Graphene. Il leader nazionale è il CNR, ma a Milano è il Politecnico a seguire il progetto, con il Dipartimento di Fisica e il laboratorio LNESS del polo distaccato di Como. I ricercatori di Polimi sono coinvolti in due delle quindici attività strategiche del progetto europeo: fotonica e nanoelettronica. Fra questi c’è Guido Cerullo, classe 1965, laureato in ingegneria elettronica al Politecnico nel 1988 e poi salito fino alla cattedra di fisica come professore straordinario. Nell'ambito del progetto Graphene, il gruppo di Cerullo studia le eccezionali proprietà elettriche e ottiche del materiale. "Il grafene costituisce una piattaforma rivoluzionaria, che ci consentirà di migliorare e creare nuovi dispositivi ottici, per le telecomunicazioni, il fotovoltaico, la diagnostica medica, con prestazioni finora impensabili", ha dichiarato Cerullo all'avvio ufficiale del progetto bandiera, nel gennaio 2013. Roman Sordan, invece, è il referente del team dei fisici nano-elettronici del Laboratorio LNESS del Politecnico. L'ambizione del suo gruppo è quella di superare col grafene i limiti imposti dalla legge di Moore per la potenza di calcolo nei computer, riuscendo a sostituire col grafene i circuiti standard a semiconduttore. Del team del LENNS coinvolto in graphene fa parte anche un altro giovane ricercatore straniero, Daniel Chrastina, Honors Deegre in Fisica all'Università di Cambridge, dal 2001 è in forza a Milano come esperto di deposizione di materiali semiconduttori: Chrastina si è guadagnato nel 2012, insieme ad altri ricercatori di Milano-Bicocca, la copertina di Science per aver introdotto una tecnica innovativa nella produzione di materiali hi-tech. Non è più a Milano, ma viene dalla scuola del Politecnico anche Andrea Ferrari, classe 1973, laureato in Ingegneria Nucleare al Politecnico nel 1997 e ora docente di Nanotecnologie all'Università di Cambridge. E' riconosciuto uno dei maggiori esperti internazionali di materiali nano-strutturati a base di carbonio. Con Vincenzo Palermo dell'ISOF di Bologna è stato tra i primi proponenti del progetto Graphene e tra i leader della cordata italiana, ed è ora direttore del nuovo Graphene Center di Cambridge. (Marco Milano)

Comunicare con la luce

La fotonica è una delle principali tecnologie individuate dalla Commissione Europea come chiave abilitante (KET, Key Enabling Technologies) per far fronte ad alcune delle più importanti sfide per migliorare la qualità di vita della popolazione, come la progettazione delle smart cities. La possibilità di controllare moto e propagazione della luce fino al livello dei fotoni - questa è la caratteristica peculiare di questa branca dell'ottica - ha consentito, infatti, una crescita costante della pervasività di molte delle sue applicazioni in campo industriale e nell’uso quotidiano. Più di altre applicazioni tecnologiche, spesso ancora solo 'futuribili', i prodotti della fotonica sono già presenti, dai lettori laser per i dispositivi di memorizzazione dati (CD, dvd) fino ad applicazioni in medicina e, ovviamente, in telecomunicazione. E' sufficiente pensare alla fitta rete di trasmissione dell'enorme quantità di dati che quotidianamente viaggia per sostenere le comunicazioni via internet per valutare l'importanza strategica di questa tecnologia.

In termini d'impatto industriale ed economico si tratta di un fatturato mondiale stimato in circa 300 miliardi di euro, con una crescita annua che oscilla tra l'8 e il 10% e di cui l'Europa detiene il 20% a livello mondiale. Solo in Italia, la fotonica interessa il 30% delle cosiddette Tecnologie Prioritarie, con ulteriori possibilità di crescita e innovazione,  soprattutto nelle tecnologie che fanno uso di materiali e dispositivi optoelettronici (una combinazione di semiconduttori al silicio, lenti e fibre ottiche).

Uno dei centri di eccellenza italiani in questo settore si trova presso i Laboratori di Ottica del Politecnico di Milano, che ha inoltre ospitato il primo dispositivo laser realizzato nei laboratori di fisica nei primi anni '60 sotto la supervisione di Orazio Svelto. Dal 1995 fino al 2008, infatti, la presenza del consorzio CoReCom (Consorzio Ricerche Elaborazione Commutazione Ottica Milano), con la partecipazione di importanti realtà industriali come Pirelli cavi, Alcatel ed Ericsson, ha fatto del capoluogo lombardo la Capitale della Fotonica. Mario Martinelli, professore ordinario di Comunicazioni Ottiche a PoliMi, fondatore dei primi laboratori e del consorzio CoReCom è tuttora impegnato nella guida delle ricerche condotte nell'ambito del progetto ERMES (Embedded Resonant and Modulable Self-Tuning Laser Cavity for Next Generation Access Network Transmitter) finanziato dalla Commissione Europea.  L'ultimo record registrato dal progetto ERMES è descritto in uno studio pubblicato a marzo 2014 sulla rivista Photonics Technology Letters e ha a che fare con la velocità di trasmissione dell'informazione: "Abbiamo dimostrato la possibilità di raggiungere una velocità di trasmissione fino a 10 Gigabyte/sec, che vuol dire trasmettere un segnale fino a 75 Km di distanza senza l'utilizzo di un amplificatore", spiega Martinelli. Ma è solo il primo passo, visto che l’obiettivo è di raggiungere i 10 Terabyte/sec.

Ricerca, tecnologia, natura e ambiente

Milano a caccia di particelle e con gli occhi rivolti alle stelle, Milano appassionata di medicina e di tecnologia, trova in realtà anche il tempo di rivolgere uno sguardo a se stessa, in particolare alle sue superstiti ricchezze naturali, alle sue campagne e allo stato (non brillante) dell’ambiente. Lo fa dal cielo l’istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente (IREA), uno dei fiori all’occhiello del CNR milanese, che usa i satelliti per monitorare la salute del territorio. L’impulso a questo settore di studi, che ha inaugurato l’uso civile delle tecnologie satellitari, lo ha dato la messa in orbita del satellite Landsat per l’osservazione della terra;  la prima immagine satellitare della Lombardia data il 14 agosto 1972, solo 22 giorni dopo il lancio del satellite. L’occhio dei satelliti usato dall’IREA nei suoi studi osserva i laghi (in particolare per individuare le fioriture algali, ma anche la qualità delle acque). Queste competenze permettono all'IREA di Milano al momento di essere anche il coordinatore delle attività di raccolta e diffusione dei dati della comunità marina del progetto bandiera del MIUR per il mare, Ritmare, e questo a beneficio di tutta la comunità marina italiana. Insomma anche se il mare non bagna Milano, Milano ha un ruolo importantissimo anche su questo settore. Altro obiettivo degli studi dell’IREA sono le risorse naturali, in particolare nel settore agricolo. L’analisi delle immagini da satellite che ogni giorno fotografano tutta la superficie terrestre permette infatti di seguire lo sviluppo vegetativo delle colture, in particolare di quelle maggiormente diffuse in pianura padana: come riso e mais. 

 

Agricoltura e sostenibilità
Il territorio lombardo rappresenta il 7,7% della superficie agricola nazionale ma grazie a una profonda riorganizzazione della sua agroindustria è arrivato a rappresentare da solo più del 15% del sistema agro‐alimentare nazionale. Questa capacità produttiva ha permesso alla Lombardia di diventare in questo settore un punto di riferimento nel Paese, ma allo stesso tempo un territorio su cui si stanno sperimentando soluzioni per un’agricoltura più sostenibile. Dal 2000, è stato realizzato, a due passi da Milano, un cluster biotecnologico dedicato allo sviluppo dell’agro‐alimentare: il Parco Tecnologico Padano. Il cluster di Lodi ha saputo in questi anni costruire una importante massa critica di competenze che vede come protagonisti le Facoltà di Medicina Veterinaria e Agraria dell’Università di Milano, due Istituti del CNR, svariati Istituti del CRA, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia‐Romagna. All’interno del Parco trovano spazio sia le attività di ricerca di base che di ricerca applicata, con un focus particolare per lo studio dei genomi. Il Parco ha contribuito al sequenziamento del genoma della vite melo, del pesco e del frumento. Le informazioni genetiche acquisite saranno fondamentali per mettere a punto piani di selezione capaci di migliorare le caratteristiche e la resistenza alle patologie di queste specie, ma anche per sviluppare sistemi di diagnostica molecolare per controllare i parametri di sicurezza alimentare delle nostre produzioni.
Molte delle ricerche nel campo delle scienze agrarie che vengono svolte presso i centri di ricerca milanesi hanno come obiettivo la messa a punto di nuove strumenti in grado di garantire il nutrimento di una popolazione mondiale in continua crescita. Chiara Tonelli dell’Università di Milano ha scoperto il primo fattore di trascrizione Mgb.60 che regola in modo specifico i movimenti degli stomi nelle piante. Questa scoperta insieme allo studio del gene florigen potrà aiutare a sviluppare nuove strategia per migliorare la crescita delle piante in condizioni di ridotto apporto idrico.
Il tema della maggiore resistenza e produttività delle colture anche in condizioni di scarsità d’acqua è al centro delle ricerche di Claudia Sorlini, a lungo preside del Dipartimento di Agraria dell’Università di Milano e presidente del Comitato scientifico di Expo2015. Grazie a lei l’ateneo milanese ha istituito una facoltà di Agraria a Makeni, in Sierra Leone, confermando la vocazione della comunità scientifica milanese alla cooperazione internazionale.
Il miglioramento genetico è una delle frontiere più promettenti degli studi agronomici. In quest’ottica si muove Francesca Sparvoli dell'Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria (IBBA) di Milano che con il suo progetto NewPearl - sostenuto dalla Fondazione Cariplo - sta cercando di sviluppare strumenti e conoscenze per accelerare la costituzione di nuove varietà di miglio perlato, che abbiano una qualità nutrizionale superiore e siano meglio adattate a rispondere a condizioni di stress ambientale, allo scopo di aumentare la sicurezza alimentare nelle regioni aride, in particolare nell’Africa sub-Sahariana. Fra le tante ricerche dell’IBBA c’è FilAgro che mira ad ottenere una vasta gamma di prodotti (semi per l'alimentazione animale, farine, oli, fibre, metaboliti, antiossidanti, proteine ad alto valore nutrizionale e alta digeribilità) da coltivazioni non convenzionali quali lino e canapa.
Il gruppo di Paolo Pesaresi, del Dipartimento di Scienze Biomolecolari e Biotecnologiche dell'Università  di Milano, ha  invece identificato la proteina che fa variare l'apparato fotosintetico delle piante, in maniera funzionale rispetto alle condizioni ambientali e climatiche. Questa scoperta potrà portare a importanti ricadute sia sul fronte agricolo, per la produzione delle piante coltivate, sia nelle tecnologie legate anche alle energie rinnovabili, oltre a chiarire importanti dettagli molecolari alla base della regolazione della fotosintesi. (Francesco Aiello)

Ambiente e salute a Milano

Un campo in culla ricerca milanese si è distinta negli ultimi anni è l’analisi dell’inquinamento atmosferico e le sue conseguenze sulla salute. Tutto comincia con l’incidente di Seveso (10 luglio 1976), paese a Nord di Milano in cui un’esplosione nella fabbrica dell’Icmesa sprigionò una nuvola di diossina nell’aria. A quella data, in buona sostanza, risale la nascita della coscienza ecologica del paese e della stretta connessione fra salute umana e stato dell’ambiente. Già in quei giorni Pier Alberto Bertazzi (dell’Università di Milano e della Clinica del Lavoro Luigi Devoto) compilò l’epidemiologia dei tumori e delle altre malattie scaturite da Seveso. Una ricerca di primo piano che Bertazzi ha proseguito per mezzo secolo creando una scuola importante a cavallo fra la medicina del lavoro e l’epidemiologia ambientale. Una sua ricerca che dimostra come l’inquinamento atmosferico sia in grado di modificare (seppure in modo reversibile) il DNA delle persone esposte è stato riconosciuto come lo studio più importante degli ultimi anni dalla rivista Environmental Health Perspective. Negli stessi anni di Bertazzi, nel dipartimento di biometria dell’Istituto dei Tumori muoveva i primi passi una visione critica della medicina e della salute dei lavoratori costretta dalla logica del profitto in schemi produttori di malattia, grazie alla testimonianza importantissima di Giulio Alfredo Maccacaro (1927-1977). A lui si deve il primo manifestarsi, fra le altre cose, della critica al consumismo dei farmaci e la centralità che in medicina avrebbe dovuto assumere la prevenzione - e quindi la salute ambientale, così come la riduzione delle diseguaglianze socioeconomiche - sulla terapia. Da quell’esperienza nasce Medicina democratica, movimento vivo e attivo ancora oggi. Nei primi anni settanta a Milano la ricerca ecologica e in particolare del nesso ambiente e salute viene articolata anche dal farmacologo Alfredo Leonardi (1929-1995) dell’Istituto Mario Negri, con i primi studi sull’inquinamento (lo “smog”) e le sue conseguenze su adulti, donne e bambini. Quella tradizione non è mai venuta meno nell’habitat della ricerca milanese, con un fiorire di ricerca tossicologiche ed epidemiologiche di rilevo internazionale. Da un lato, a Milano-Bicocca, il gruppo Polaris diretto da Marina Camatini ha descritto a fondo la fenomenologia delle polveri sottili (di diametro inferiore a 2,5 micrometri) nell’organismo, con i danni respiratori, tumorali e cardiaci che ne conseguono. Di particolare rilievo è anche il contributo a questi studi di Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico dell’Ospedale Maggiore, che da ematologo di fama internazionale ha studiato come il particolato fine sia in grado di provocare le trombosi e altri incidenti cardiocircolatori alle persone più esposte all’inquinamento. Da qui un’attività di testimonianza civile per il risanamento ambientale di Milano, la riduzione del traffico e delle altre fonti inquinanti, sfociato in campagne e libri di successo. 

La necessità dell’educazione scientifica

Dalle ricerche scientifiche all’impegno civile e politico il passo è breve. A Milano in particolare. Lo è tradizionalmente in campo ambientale ma non solo. Si pensi all’attività del Gruppo 2003 per promuovere il merito in campo scientifico, alla costante opera di divulgazione e riflessione pubblica sulla scienza alimentata da figure di spicco come il filosofo della scienza Giulio Giorello, dal genetista Edoardo Boncinelli e dal giornalista Armando Massarenti, o all’attività della senatrice Elena Cattaneo per la promozione della cultura scientifica e la proposta del "Senato delle competenze”, alternativo al “Senato dopolavoro che imita la Conferenza Stato-Regioni”, per usare le taglienti parole della staminologa verso il progetto di riforma costituzionale del governo Renzi (2014). 

Abbiamo ricordato all’inizio di questo saggio le mille battaglie laiche e scientifiche di Umberto Veronesi, dalla difesa del testamento biologico alla libertà di ricerca: si tratti delle cellule embrionali o delle piante geneticamente modificate, avversate da un formidabile blocco storico costituito dal mondo ambientalista e da quello dell’agricoltura “di una volta”, da Coldiretti a Slowfood, frutto di una attitudine antiscientifica dura a morireDi Veronesi va poi ricordata la misura più importante di sanità pubblica dal dopoguerra a oggi, avviata nella sua breve stagione di ministro e portata a compimento dal successivo ministro della salute, Girolamo Sirchia: il divieto di fumo nei locali pubblici, che ha cancellato d’un tratto centinaia di migliaia di casi di infarto e di tumore all’anno in Italia. 

In questa ideale galleria degli scienziati che hanno rappresentato il seme migliore di Milano non può mancare infine Silvio Garattini e il suo implacabile richiamo alla ragione scientifica davanti al mondo ambiguo delle cure “altre”, ma anche del consumismo farmaceutico e dei conflitti d’interesse che investono la ricerca medica. 

Sua è l’analisi più lucida della forza e della debolezza del sistema milanese della scienza, che possiamo così riassumere: Milano ha saputo elevarsi sopra la media nazionale grazie alla generosità delle istituzioni milanesi. Ma non basta. Milano deve contare di più a livello nazionale, magari ospitando un nuovo organismo di governo della ricerca, da sottrarre alla burocrazia del Miur. Bisogna poi contrastare la forza centrifuga che a Milano come altrove si manifesta con la fuga costante dei migliori cervelli, senza che questi o altri abbiano poi la possibilità, le strutture e le risorse per tornare. Forza centrifuga e distruttiva che prende anche la forma di una concorrenza spietata fra i centri, gli ospedali e gli atenei milanesi, senza che si sia mai riusciti ad avere obiettivi comuni e a collaborare per prepararsi al meglio alla vera competizione, quella internazionale. Da qui la proposta dell’istituzione di un Osservatorio della ricerca a Milano, che segua le performance dei diversi attori presenti nel capoluogo e abitui a un confronto costruttivo di questa ricchissima comunità economica e intellettuale.

Ultima sfida è quella di spalancare di nuovo le porte della ricerca ai giovani, ripartendo dall’educazione scientifica dentro e fuori le scuole. “Vaste programme”. Ma necessario per mettere a frutto i talenti scientifici di Milano.

Un po’ di storia per capire chi siamo

Nel 1976 la più prestigiosa rivista medica del mondo, il "New England Journal of Medicine”, concludeva un editoriale dicendo che da quel momento Milano non sarebbe stata nota solo per La Scala ma anche per l’istituto Nazionale dei tumori. A destare l’entusiasmo degli americani era un articolo scientifico firmato fra gli altri da Gianni Bonadonna che mostrava come un ciclo di chemioterapia dopo l’intervento al tumore del seno allontanava il rischio di ricaduta e di metastasi. Un risultato importante della ricerca oncologica, bissato poco tempo dopo dal giovane Umberto Veronesi che primo al mondo propose la chirurgia conservativa al seno in caso di tumori non troppo estesi. Da allora la quadrantectomia della mammella divenne un’operazione di routine. 

Si potrebbe partire da mille altri esempi per parlare della ricerca scientifica a Milano, ma questa idea di operare conservando ricorre nella storia della medicina milanese e ci sembra assumere un significato etico particolare, incarnato nella storia stessa di Veronesi, figura centrale in Italia non solo per l’oncologia ma anche per la difesa della laicità e della libertà della ricerca. L'uomo delle mille battaglie, dal diritto all’eutanasia alla liberazione dal dolore. Battaglie difficili nell’Italia ideologica e bacchettona, e infatti spesso perdute, almeno in prima battuta, ma alla fine necessarie. La ricerca scientifica a Milano ha avuto spesso questa vocazione civile, intrecciandosi con l’impegno sociale e cercando di abbattere le barriere disciplinari. Così Milano ha avuto, almeno a partire dall’Ottocento, gli scienziati migliori interpretare le ragioni del progresso culturale ma anche sociale ed economico, spesso impegnarsi in politica, dal Consiglio comunale agli scranni del Senato facendo valere le ragioni minoritarie della scienza.

Molti anni prima di Veronesi, Luigi Mangiagalli, nato a Mortara nel 1850 e arrivato povero, “hungry and fool”, a Milano dopo gli studi di medicina, nel 1903 nel reparto di ostetricia della Clinica di Santa Caterina alla Ruota inaugurò un intervento conservativo che salvava le donne dalle complicanze mortali della setticemia post partum senza asportare l’utero. Operare non significava demolire, ma conservare, appunto. Lo stesso Mangiagalli fondò poi gli Istituti clinici di perfezionamento, che comprendevano la clinica ostetrica ginecologica che prese il suo nome, la Clinica del Lavoro e la Clinica delle malattie epidemico-contagiose. Nella prima, in via Commenda, nasceva un nuovo modo di intendere il parto e le malattie femminili. La seconda, in via san Barnaba, diretta da Luigi Devoto, inventava non senza resistenza una clinica “senza malati”, o meglio in cui si metteva al centro la ricerca e la cura delle malattie del lavoro, che all’epoca erano soprattutto il saturnismo (intossicazione da piombo) in alcune categorie come i tipografi e i verniciatori, ma anche le malattie respiratorie nell'industria e la pellagra delle popolazioni rurali. La terza clinica (a Dergano) isolava e curava gli infetti delle diverse malattie contagiose, che non mancavano di attecchire soprattutto fra gli strati più poveri della popolazione, nei quartieri più fatiscenti di Milano e i suoi corpi santi, come aveva accertato nella sua inchiesta del 1885 il medico Gaetano Strambio. 

Tutto questo avvenne fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, culminando nel 1906, quando Milano si mise in mostra con l’Expo realizzato al Parco Sempione. Intanto veniva a maturazione un altro grande progetto: la nascita dell’Università degli studi di Milano (1924), di cui Mangiagalli fu il primo rettore. Finalmente non si sarebbe più potuto contrapporre la "dotta” Pavia all’”operosa” Milano, a meno che con quel dotta non si volesse intendere una certa chiusura accademica che Milano - proprio perché aperta ai venti del commerci e dell’intrapresa, non ebbe mai.

Mangiagalli fu anche sindaco di Milano, e pochi mesi prima di morire nel 1928, riuscì a inaugurare l’Istituto nazionale dei tumori - il primo in Italia - nel cuore della “città degli studi” da lui fortemente voluta, ben fuori allora dai traffici della città. Insieme al Regina Elena di Roma, l’Istituto dei tumori fu il primo Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRRCS), istituito con Regio decreto nel 1937. Con il che in Europa per la prima volta venivano concepiti ospedali che univano sotto uno stesso tetto cura e ricerca. La cosiddetta ricerca traslazionale è stata inventata allora. Mangiagalli aveva chiarissimo il concetto della compenetrazione fra scienza, pratica e ricerca in laboratorio. Come “nel laboratorio dello scienziato si scoprono nuovi veri, si rilevano nuovi mezzi diagnostici, si apprestano nuove armi alla terapia del medico, così “la clinica dà continuamente al laboratorio argomenti di indagine”.

L’Istituto nazionale dei tumori non è il solo monumento della Milano scientifica. Città studi ne è piena, e non vi è nome di via che non ne racconti la storia. Percorriamo allora via Venezian dove si trova l’Istituto dei tumori (parallela a via Strambio) e attraversiamo piazza Gorini (Costantino Gorini insegnava batteriologia agraria nella vicina facoltà). Quindi passando dall’Istituto di medicina legale (“Rebus medicis sub specie juris") - dove l’arte autoptica si esercitò su Benito Mussolini traslato dalla vicina Piazza Loreto come su Giuseppe Pinelli “caduto” da una finestra della questura di Milano -  ci si ritrova appunto in via Luigi Mangiagalli, sulla quale si allineano la palazzina di geologia, e quelle di fisiologia e morfologia umana. Su via Mangiagalli s’innesta via Saldini (Cesare Saldini, rettore per un anno del Politecnico, e presidente dell’Unione italiana dell’educazione popolare) dove s’intravede la bella facciata di matematica e dall’altra parte della via il moderno edificio del dipartimento di scienze alimentari e microbiologiche. E dove spesso si incrocia qualche famigliola con il ragazzo o la ragazza neolaureata con gli abiti della festa e incongruamente coronati d’alloro. 

Svoltiamo in via Giuseppe Colombo - come vedremo un altro nome non casuale - che ci porta dritti in piazza Leonardo da Vinci. Quale nome meglio di questo poteva indicare il cuore della sapienza tecnico scientifica cittadina! Ed ecco aprirsi, a destra dei giardini piantati a inizio Novecento dai Fratelli Ingegnoli, il Politecnico. Sorto nel 1863 in un’altra parte di Milano (in piazza Cavour), la nuova sede del Politecnico venne inaugurata un anno prima dell’Istituto dei tumori, nel 1927. Il Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano, come allora si chiamava (cambiò nome nel 1937) aveva già al suo attivo parecchi successi. Nel 1883, grazie all’ingegno di Giuseppe Colombo, docente e poi rettore del Politecnico dopo il fondatore Francesco Brioschi, si inauguro a Santa Radegonda la prima centrale termoelettrica d’Europa. Colombo aveva potuto conoscere di prima mano la dinamo di Edison dal suo stesso inventore, Thomas Alva Edison, che l’anno prima aveva inaugurato una centrale simile a New York. La dinamo di via Santa Radegonda (ora esposta al Museo della scienza e della tecnologia di Milano) forniva elettricità per illuminare alcuni edifici intorno a piazza del Duomo, e successivamente La Scala. Da quel primo impianto di illuminazione elettrica nasce la società Edison. 

Chi credette nell’energia elettrica al punto da finanziare un insegnamento di elettrotecnica presso il Politecnico fu Carlo Erba,il capostipite di una genìa di “farmacisti” che resero Milano la capitale della farmacologia italiana fino all’inglorioso tramonto degli anni '90, con tangentopoli (di cui il pouf pieno di mazzette del direttore del Servizio farmaceutico del Ministero della salute Danilo Poggiolini resterà per sempre l’icona). Dopo l’esordio nella farmacia Castoldi in Brera, Carlo Erba si mise in proprio con lo stabilimento costruito fra via Solferino e via Marsala nel 1865, dove prese pieno ritmo la produzione di estratti acquosi, alcolici, idroalcolici ed eterei, le chine, i rabarbari, le gialappa l’ipecacuana, la salsapariglia, la liquirizia, le giuggiole e le le gomme arabiche. Peraltro Carlo Erba, la cui produzione arrivò in breve tempo a un decimo di quella nazionale, fu seguito pochi anni capo da Lepetit (1868), Dompé (1890) e Bracco (1927). 

Formidabili quegli anni, intrisi di spirito positivo e fiducia nel futuro. E’ allora che si forma la vocazione scientifica e tecnologica di Milano. Nel 1870 si laureava al Politecnico un certo Giovanni Battista Pirelli, che sempre Giuseppe Colombo convinse a intraprendere la strada della lavorazione della gomma, prima cavi e poi copertoni sul finire del secolo. Nel 1877 un collega di Colombo, Enrico Forlanini, fece alzare dal suolo di 20 metri il primo velivolo più pesante dell’aria, un elicottero a vapore, a cui fecero seguito altre macchine volanti di sapore leonardesco, ma ben più prossime ai moderni aerei, oltre all’invenzione dell’aliscafo. Da Enrico Forlanini prende il nome il viale che dalla città porta al l’aeroporto di Linate. (Viale che non va confuso con via Carlo Forlanini, poco lontano, sia topograficamente sia genealogicamente, visto che altro non è che il notissimo fratello tisiologo che con l’invenzione dello pneumotorace artificiale ha salvato tanti tubercolotici quando ancora non esistevano gli antibiotici). 

Se dal passato remoto ci avviciniamo ai nostri giorni, il Politecnico è una fonte inesauribile di sorprese. Quanti sanno, ad esempio, che nei meandri del campus che si affaccia su Piazza Leonardo, fra via Ponzio e via Bassini, si cela ancora (spento, beninteso) il primo reattore nucleare sperimentale (L54M) realizzato nei primi anni Cinquanta da Giuseppe Bolla? Animato da Giuseppe Bolla, Mario Silvestri e ad altri fisici e ingegneri, Il Centro Studi Nucleari Enrico Fermi del Politecnico fu alla base dello sviluppo del nucleare civile in Italia negli anni ’50 e ’60, che per pochi anni proiettò il nostro paese fra i primi paesi con centrali nucleari nel mondo. 

Quante altre novità tecnologiche si affacciarono in Italia dalla porta del Politecnico? La televisione, per esempio, messa a punto in Italia negli anni trenta fra gli altri da Francesco Vecchiacchi, docente di comunicazioni elettriche al Politecnico. Il primo computer arrivò in Italia grazie al professor Luigi Dadda, che lo portò per nave a Milano l’11 ottobre 1954. Era il modello CRC102A, con una memoria prima di 1024 poi di 2048 bit: i primi balbettii che davano il via a una nuova era. E a un’epoca non ancora finita è legata anche la plastica Moplen, ovvero il polipropilene che Giulio Natta, docente di chimica industriale al Politecnico,  ottenne l’11 marzo 1954, e che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963.

Tornando all’Ottocento, un altro personaggio che non si può dimenticare rievocando il rinascimento scientifico milanese è Giovanni Viriginio Schiaparelli, che nel 1862 diventò direttore dell’Osservatorio astronomico di Palazzo Brera. L’osservatorio era stato creato un secolo prima da Giuseppe Ruggero Boscovich presso i Gesuiti (1764). La specola passò attraverso varie vicissitudini politiche: dallo scioglimento dell’ordine, all’avvento di Napoleone, al ritorno degli austriaci. Finalmente con il Regno d’italia l’Osservatorio diventò una delle poche strutture scientifiche su cui investire per il prestigio della neonata nazione. Quintino Sella finanziò un viaggio di studio dell'allievo Schiaparelli in Europa. Di ritorno, il primo atto del nuovo direttore fu l’acquisto di un telescopio delle officine Merz di Monaco che ancora oggi si può ammirare nella bellissima specola rotante di Brera: con una lente di diametro di 22 centimetri e una lunghezza focale di 3,15 metri, il Merz è stato il primo strumento scientifico acquistato dallo Stato italiano. Schiaparelli ci perse la vista a forza di osservare attraverso quella lente le stelle doppie, ovvero quei sistemi stellari binari tenuti insieme da una reciproca attrazione gravitazionale di cui voleva compilare il catalogo. 

Scriveva nel 1893 nel libro Il Pianeta Marte: “Dobbiamo anche confidare un poco in ciò che Galileo chiamava la cortesia della Natura, in grazia della quale talvolta da parte inaspettata sorge un raggio di luce ad illuminare argomenti prima creduti inaccessibili alle nostre speculazioni (…) Speriamo dunque. E studiamo”. Una di queste folgorazioni in realtà fallaci fu per Schiaparelli proprio lo studio assiduo della superficie di Marte, in cui gli sembrò di ravvisare una fitta rete di canali artificiali… che qualcuno interpretò come segni inconfondibili di una civiltà extraterrestre. Nel 1880 Schiaparelli ottenne le risorse per un telescopio più potente, con diametro di 49 centimetri e una lunghezza focale di 7 metri. Ma la civiltà della luce elettrica inaugurata a Milano da Colombo ben presto rese insoddisfacente l’osservazione del cielo dalla specola di Brera, posta nel cuore di Milano. Tanto che nel 1922 venne aperto un nuovo osservatorio a Merate, in Brianza. 

Oggi, che le stelle, i raggi e le galassie gli astronomi milanesi vanno a osservarli al Cerro Paranal in Cile o a Mauna Kea alle Haway, all’Osservatorio di Brera gli astrofisici lavorano sui dati di quelle osservazioni. E il cielo stellato ormai in città lo si può vedere solo riprodotto sulla cupola del Planetario, ai giardini pubblici “Indro Montanelli”, a fianco del Museo civico di storia naturale.

Il Planetario
Il Civico Planetario di Milano è un Istituto per la divulgazione e la didattica dell’Astronomia e dell’Astrofisica. Donato nel 1929 alla città di Milano da Ulrico Hoepli (1847-1935) e inaugurato nel 1930, l’edificio fu progettato dall’architetto Piero Portaluppi (1888-1967). Oggi il Planetario di Milano è il più grande in Italia e quello con l’attività più intensa (oltre 130.000 presenze l’anno). Prende il nome dal proiettore “planetario” (Zeiss modello IV) che è situato al centro della sala e permette di riprodurre con grande realismo il cielo stellato, il Sole, la Luna, i pianeti e i suoi movimenti sulla cupola di 20 metri di diametro. Dal 1999 la conduzione scientifica dell'Istituto è affidata a una figura stabile del Comune di Milano, il Conservatore del Planetario, incarico attualmente ricoperto dall’astrofisico Fabio Peri. L’attività del Planetario di Milano consiste prevalentemente in lezioni scolastiche, differenziate per fasce di età, e conferenze pubbliche su temi astronomici. Un esperto utilizza lo strumento planetario e la multimedialità per condurre il pubblico alla scoperta della volta celeste e fare in modo che si sviluppi un interesse verso la scienza in genere e l’astronomia in particolare. Inoltre, l’Istituto si avvale della collaborazione di astronomi e fisici di fama internazionale al fine di approfondire le ultime scoperte dell’Astronomia e dell’Astrofisica. Viene offerta così una vasta programmazione di spettacoli dal vivo che vanno da quelli di introduzione alla conoscenza del cielo, all’approfondimento astrofisico, agli spettacoli interattivi con i bambini, alle sperimentazioni tra musica e astronomia, agli sconfinamenti dell’astronomia verso altre discipline (letteratura, teatro  e arte). Il Planetario si trasforma così in un teatro celeste in cui si ritorna, come bambini, a meravigliarsi davanti allo spettacolo dell’Universo. (Alessia Cassetti)

Museo della scienza e della tecnica
Ricavato nell’ex convento degli Olivetani del ‘500, il Museo nazionale della scienza e della tecnologia nasce nel 1953, sulla spinta di un gruppo di industriali lombardi guidati da Guido Ucelli di Nemi. E ancora oggi, visitando le collezioni nei 50mila metri quadrati del museo, si respira l’epica industrialista che lo ha fatto nascere: già nell’ingresso l'imponente motrice a vapore Regina Margherita che faceva muovere i telai dei fratelli Gavazzi di Desio sono la firma della “scienza e tecnica" che nella seconda metà dell’Ottocento ha permeato lo sviluppo di Milano. Chi fra i milanesi, soprattutto se ha un bambino, non è andato a vedere gli aerei, le locomotive, i vascelli o il sottomarino Enrico Toti? O non ha trasecolato davanti alla collezione di macchinari progettati da Leonardo da Vinci?
Eppure negli anni il Museo ha saputo rinnovarsi, innestando su questo patrimonio storico nuove sezioni e laboratori che lo hanno avvicinato ai migliori science centers: sicuramente uno dei pochi in Italia degno di questo nome. Così, oltre alle nuove sezioni dedicate all’informatica, allo spazio, alla fisica del CERN e quelle nuovissime dedicate all’alimentazione in vista di Expo2015, il Museo ha 14 laboratori dove le scolaresche possono “fare scienza” guidati da animatori. Scienza di oggi, come la genomica, la robotica, o le nanotecnologie: in questo laboratorio lavorano proprio dei ricercatori che invitano il pubblico ad essere “disturbati” con domande di ogni tipo.
Oggi il Museo, con i suoi 130 fra dipendenti e collaboratori, i 150 percorsi educativi, i 16.000 beni storici delle collezioni, è una poderosa macchina culturale che coniuga a pari livello esposizione ed educazione della cittadinanza.
“Il nostro pianeta sta cambiando a un ritmo superiore alle nostre capacità di comprensione e adattamento. Cambia il clima, cresce esponenzialmente la popolazione, diminuiscono le risorse, cresce raddoppiando ogni pochi anni la quantità di informazione liberamente disponibile” spiega l’attivissimo direttore Fiorenzo Galli. “Ruolo del Museo è di fare educazione di massa, e di integrare la scuola e la famiglia nell’orientare i ragazzi verso scelte consapevoli”. C’è del metodo in questo spirito educativo “informale” praticato nei laboratori, campi e “Notti dei ricercatori" del museo milanese. “Il metodo consiste nel fare ‘toccare con mano' ai ragazzi la scienza” prosegue Galli. “Ma consiste anche nel fare acquisire loro e a tutta la cittadinanza la consapevolezza che in questi grandi scenari di cambiamento in cui siamo inseriti i nostri comportamenti e una mentalità sufficientemente flessibile possono fare la differenza”. Rispetto della Natura, capacità di osservare, flessibilità d’ingegno. Come Leonardo da Vinci, che il Museo della scienza e della tecnologia porta in giro per il mondo con mostre di grande successo (a Parigi si è toccato il record di 275mila visitatori).
La macchina del museo necessita di 12 milioni di euro all’anno, solo un piccolissima parte dei quali di provenienza pubblica (e in cronico ritardo). Circa il 75% del budget è frutto della partecipazione a bandi europei, di Fondazioni e sponsor privati. Curiosa l’ultima iniziativa di crowdfunding (raccolta fondi attraverso internet) per l’esposizione dell’unico frammento di roccia lunare presente in Italia (“Conquistiamoci la Luna), donata nel 1973 dal presidente statunitense Nixon al governo italiano, e quindi al Museo milanese.
Chissà cosa non farebbe Fiorenzo Galli con budget da museo francese o tedesco! Ma è un rischio che per ora non corriamo, vista l’attitudine della classe politica italiana verso la promozione della scienza e della cultura.

L’Acquario
L'Acquario Civico di Milano fu istituito nel 1906, nell'ambito dell'Esposizione Internazionale di Milano per festeggiare l'apertura del traforo del Sempione. Due anni dopo la sua inaugurazione, nel 1908, l'Acquario venne arricchito dalla costituzione di una Stazione di biologia e di bioidrologia  applicata. L’istituto è ospitato in uno splendido edificio liberty, costruito su progetto dell'architetto Sebastiano Locati, ed è uno degli acquari più antichi del mondo. L'attuale assetto dell'edificio e delle vasche è frutto della ristrutturazione (2003-2006) che ha restituito l'Istituto, nella sua nuova veste, ai visitatori e alla cittadinanza. Al suo interno si possono riscoprire, attraverso un percorso illustrato e documentato, gli ecosistemi che l’acqua forma da quando cade sulla terra a quando dal mare torna a essere nuvola. Sono presenti vasche con circa 150 differenti organismi marini e d'acqua dolce. Gli ambienti ricostruiti sono italiani e mediterranei, ad eccezione di una vasca fuori percorso che ripropone la scogliera madreporica del Mar Rosso come esempio di possibile evoluzione nei prossimi anni del Mar Mediterraneo. Grazie a una spettacolare vasca trasparente a ponte i visitatori possono ammirare i pesci da tutte le angolazioni. Inoltre, dal 2012, l’Istituto ospita al suo interno una piccola esposizione dedicata alla “storia della pesca” prevalentemente nelle acque lombarde.
La conduzione scientifica dell'Istituto è affidata a una figura stabile del Comune di Milano, il Conservatore dell’Acquario Civico di Milano, incarico attualmente ricoperto da Nicoletta Ancona. L'Acquario civico di Milano svolge un ruolo fondamentale nella divulgazione e nella didattica nel campo scolastico con molteplici itinerari e laboratori rivolti alle scuole di ogni ordine e grado. La struttura promuove la cultura dell'acqua a 360 gradi anche per gli adulti, grazie all'organizzazione di mostre, conferenze ed eventi legati al cibo e all'arte che celebrano la sacralità di questo elemento della Terra.  L’Acquario diventa così per la città di Milano un’occasione per scoprire il mondo acquatico italiano e per immergersi nella natura. (Alessia Cassetti)

Il Museo di storia Naturale
Il giro del mondo in 80 minuti? Si può fare. Nessun check-in, nessuna carta d'imbarco: basta entrare nel palazzo ottocentesco che si trova all'interno dei giardini pubblici “Indro Montanelli” di Porta Venezia. E' qui che ha sede il Museo Civico di Storia Naturale di Milano (MSNM), il più vasto e importante d'Italia. Fondato nel 1838, è il museo più antico della città. Dal 1893 risiede nell'attuale sede, la terza dopo l'ex convento di Santa Marta, in prossimità dell'attuale via Circo, e Palazzo Dugnani, in via Manin.
Generazioni di milanesi, e non, hanno varcato la soglia di questo luogo magico come una specie di “stargate”. Ogni anno sono più di 350.000 i visitatori che vengono letteralmente catapultati in lontanissimi luoghi del Pianeta: bastano pochi metri per passare dal Polo Nord alle dune del deserto, dalla coloratissima barriera corallina ad un affascinante tramonto nella savana. Questo grazie a più di 80 spettacolari vetrine, chiamate diorami, che ospitano la ricostruzione dei principali ecosistemi del mondo. A queste si affiancano altre 700 vetrine in cui sono esposti minerali, reperti preistorici, fossili, insetti, conchiglie, organismi conservati in alcol e fogli di erbario. A dominare le 23 sale del museo sono poi i grandi scheletri che tanto affascinano adulti e bambini, come quello del capodoglio di 11 metri spiaggiato nel 1998 a Forte dei Marmi, o quello di un rettile volante, chiamato pteranodonte, vissuto 70 milioni di anni fa. Quella esposta, però, è solo una piccola parte del prezioso tesoro del museo, che attualmente conta più di quattro milioni di esemplari naturalistici, consultabili sia dai ricercatori interni che dai numerosi specialisti esterni e dagli studenti universitari. “Si tratta di un enorme patrimonio di conoscenza sulla biodiversità del nostro Pianeta, utile al grande pubblico così come agli specialisti del settore”, spiega Maurizio Casiraghi, zoologo dell'Università di Milano-Bicocca e presidente della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica (SIBE). “Io stesso invito tutti i miei studenti a visitare il museo, perché un diorama può raccontare molto più di qualsiasi lezione teorica”.
Se gli animali sono imbalsamati e gli scheletri immobilizzati, la ricerca è invece sempre in movimento, dentro e fuori il museo. A raccontarlo è uno dei suoi più noti protagonisti, il paleontologo Cristiano Dal Sasso, che nel 1998 è riuscito addirittura a conquistare la copertina di Nature grazie a Ciro, il primo dinosauro italiano nonché l'esemplare meglio conservato al mondo. La sua scoperta ha segnato un importantissimo traguardo per la ricerca del Museo di Storia Naturale di Milano. “Per noi, ricercatori del museo, il lavoro sul campo è fondamentale, sia che si tratti di raccogliere nuove specie minerali sull'Adamello o di verificare le segnalazioni di cittadini che trovano nuovi fossili. Il nostro lavoro continua anche in laboratorio – aggiunge l'esperto – dove analizziamo gli esemplari prima di prepararli per l'esposizione. Per questi studi usiamo strumenti d'avanguardia, come il potente microscopio elettronico che ci è stato donato da Regione Lombardia, ma ci appoggiamo anche ad una rete di strutture esterne, come nel caso delle TAC che effettuiamo presso il Policlinico di Milano''.
Tutto questo fermento viene percepito dai milanesi grazie ad eventi e attività di divulgazione che hanno il proprio “epicentro” nel museo e che arrivano a scuotere l'intera città. E' il caso dell'ormai famoso Darwin Day, nato nel 2003 da un'idea di Ilaria Guaraldi Vinassa de Regny (1963-2012), la preziosa responsabile delle relazioni esterne del museo, che pensò di celebrare il compleanno del naturalista britannico con una vera e propria festa, vivace, conviviale e stimolante, organizzata insieme ad un gruppo di amici esperti nel campo della biologia e dell'evoluzione, come la biologa e divulgatrice Carla Castellacci e il filosofo della scienza Telmo Pievani. “Il Darwin Day nacque per rispondere ai sussulti del movimento antievoluzionista italiano che in quel periodo animavano le prime pagine dei giornali – ricorda Pievani – ma dopo questo avvio, involontariamente polemico, siamo cresciuti, trasformando la nostra festa in un evento internazionale con la partecipazione dei più grandi esperti mondiali. Il museo, amatissimo dai milanesi, ha dato un contributo fondamentale per il successo dell'iniziativa: con il suo prestigio e la sua autorevolezza, ci ha permesso di conquistare anche gli scienziati più diffidenti”.
Ma il museo ha sempre dedicato grande attenzione anche a quelli che saranno gli scienziati di domani. Per loro sono pensate molte delle attività organizzate dall'Associazione Didattica Museale (ADM), che fin dal 1994 è responsabile del Dipartimento dei Servizi Educativi del museo. Sotto le sapienti mani dei suoi esperti di comunicazione passano più di 4.000 scolaresche ogni anno. Imperdibili le loro “notti in museo”, per bambini dagli 8 ai 12 anni armati di sacco a pelo, e le attività didattiche nei due grandi laboratori: il Paleolab, ricavato dalle gabbie dei felini dell'ex zoo di Milano, e il Biolab, ospitato nelle serre di Palazzo Dugnani. (Elisa Buson)

 

Nota
Una sintesi di questo saggio è stato pubblicato come capitolo nell’opera di Elda Cerchiari Necchi (a cura di Chiara Rosati) Milano Mia. La città come non è mai stata raccontata, Polaris, 2015. www.polariseditore.it

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