Il cespuglio della nostra linea evolutiva, quella ominina, ha acquisito un nuovo ramo e proprio all’interno del nostro genere Homo. La nuova specie però – Homo naledi, che nella lingua sesotho significa stella – si sta dimostrando per gli antropologi un vero e proprio rompicapo, perché complica il percorso evolutivo degli ominini che è stato tracciato a partire dai fossili finora conosciuti.
La nostra evoluzione non è stata solo ricca di tante specie diverse ma ha proceduto, come sta a indicare questo “uomo stella”, per modifiche differenziali dei vari apparati anatomici: cioè a mosaico.
Il nuovo ominino è stato scoperto in Sudafrica, in una grotta distante circa 50 km da Johannesburg, in due campagne condotte nel novembre 2013 e nel marzo 2014 da un gruppo di scienziati guidati da Lee Berger. E ne è stata data notizia il 10 settembre 2015 sulla rivista eLIFE.
Lo scavo ha restituito circa 1500 frammenti ossei appartenenti a 15 individui, bambini e adulti di entrambi i sessi. E già questo sarebbe stato un risultato di grande importanza scientifica, perché avrebbe consentito di ricostruire la modalità dello sviluppo degli individui di quel gruppo e le differenze di genere. Ma l’analisi anatomo-morfologica dei reperti è andata ben oltre, mostrando quanto eccezionale sia stata la scoperta.
Viso da scimpanzè. Denti, piedi e mani umani
La massa corporea e la statura, circa 45 chili e un metro e mezzo, di quegli antichi uomini erano assolutamente simili a quelle che si riscontrano in popolazioni umane attuali di piccola corporatura, come i pigmei e altri. Il cervello però era tanto piccolo, 513 centimetri cubici, da non andare oltre le dimensioni degli encefali australopitecini. Mentre l’architettura anatomo-morfologica del cranio era riconducibile alle prime forme del genere Homo: H. rudolfensis, H. habilis e H. erectus. E lo stesso si può dire della dentizione.
Di nuovo prossima agli australopiteci era la conformazione anatomo-morfologica del tronco, delle spalle, del bacino e della parte prossimale del femore, cioè quella che si articola con le ossa pelviche. Ma la struttura del polso e della mano, che permetteva l’uso di utensili, era assimilabile a quella del genere Homo. Sebbene le dita fossero ricurve come nelle scimmie antropomorfe e così idonee ad afferrare i rami nella deambulazione arboricola. I piedi al contrario erano moderni come in noi e come le nostre anche le loro gambe erano lunghe.
Questo mosaico di tratti ha convinto i ricercatori che l’ominino costituisse una specie nuova e un membro primitivo del genere Homo. Purtroppo però i reperti fossili non sono stati ancora datati e quindi non è possibile collocarlo temporalmente nella linea evolutiva di Homo.
Sul piano culturale poi dobbiamo rilevare che l’H. naledi potrebbe essere stato tanto moderno quanto lo siamo noi. Le sue ossa infatti non mostrano segni lasciati da utensili litici o da denti di altri animali e nel sito non sono state trovate ossa di altri animali (a eccezione di circa 12 frammenti di topo e uccello, considerati inclusioni casuali). Tutto ciò potrebbe indicare che si sia in presenza di una sorta di necropoli preistorica e pertanto che l’H. naledi avrebbe praticato la sepoltura dei cadaveri. Un’usanza assolutamente certa per la nostra specie H. sapiens e verosimile per l’uomo di Neandertal ma ignota a tutte le altre specie ominine finora note. Una verità questa che rimarrà tale solo se non si troveranno prove contrarie: come è normale che avvenga nel procedere della conoscenza scientifica.
È ancora prematuro tentare di tracciare linee di discendenza ma non possiamo non rammentare che fuori dall’Africa è vissuto in un tempo più recente – tra 90.000 e 12.000 anni fa – un altro ominino, l’asiatico H. floresiensis, anch’esso di proporzioni modeste – 30 chili e poco più di un metro – e con un cervello di appena 417 centimetri cubici. Forse un’umanità molto piccola è uscita dall’Africa prima di quanto abbiamo ritenuto finora per andare verso oriente. Ma il perché non lo sappiamo.