La Commissione Lincea Covid-19 ha realizzato un rapporto sui vaccini sviluppati e impiegati per contrastare la pandemia, toccando diversi aspetti: dal ruolo dei finanziamenti all'implementazione delle campagne vaccinali, dalla risposta immunitaria alla possibilità di arrivare a una quarta dose. Guido Forni e Alberto Mantovani ne riportano la sintesi.
Crediti immagine: Steven Cornfield/Unsplash
Di fronte al tragico imperversare della pandemia di Covid-19, il mondo dell’immunologia e dei vaccini ha reagito in modo formidabile, riuscendo a sviluppare velocemente una serie di vaccini efficaci che, se per ora non sono stati grado di bloccare la pandemia, ne hanno comunque radicalmente cambiato il corso e diminuito la pericolosità. Per dare conto di questo sforzo straordinario, dei risultati raggiunti, così come delle criticità che rimangono da affrontare e delle sfide aperte sul futuro, la Commissione Lincea Covid-19 ha realizzato un rapporto che è possibile leggere e scaricare integralmente dal sito dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Ne diamo qui una breve sintesi, rimandando al rapporto per le referenze bibliografiche.
Lo sviluppo e l’utilizzazione dei vaccini contro Covid-19 non hanno precedenti nella storia della medicina, sia per quanto riguarda l’intensità e la condivisione della ricerca scientifica, la varietà delle tecnologie utilizzate e il successo straordinario nella messa a punto dei vaccini e nell’implementazione delle campagne vaccinali, sia perché non vi sono precedenti in medicina di conduzione di una campagna vaccinale durante il pieno sviluppo di una pandemia. Ma forse, nell’emergenza che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, nulla supera l’importanza della dimensione tempo: la storia dei vaccini contro Covid-19 è una storia di velocità. Era il 7 gennaio del 2020 quando la commissione istituita dal governo cinese per fronteggiare focolai di polmonite d’origine ignota in persone collegate al mercato del pesce e di animali vivi della città di Wuhan, comunicava che dal liquido del lavaggio bronco-alveolare di questi pazienti era stato isolato un nuovo tipo di coronavirus. Tre giorni dopo, il 10 gennaio 2020, i ricercatori collegati a quella commissione, in collaborazione con l'Università di Sydney, in Australia, hanno depositato sul sito GenBank la sequenza dell’RNA del nuovo coronavirus. A partire da queste informazioni è iniziata, in molti Paesi del mondo, la messa a punto di progetti per lo sviluppo di un vaccino e la ricerca di finanziamenti.
A distanza di soli 332 giorni dall’identificazione del genoma del virus SARS-CoV-2, l’8 dicembre 2020 l’Inghilterra dava il via alla campagna vaccinale utilizzando un vaccino estremamente innovativo, il BNT162b2 (Comirnaty) prodotto dalla collaborazione tra due aziende, la BioNTech e la Pfizer. Il 20 dicembre dello stesso anno, lo stesso vaccino sarà il primo a essere approvato anche dall’Unione Europea (UE). In Italia la campagna vaccinale inizierà il 26 dicembre 2020. Un risultato inimmaginabile solo pochi mesi prima e che sarà uno degli aspetti che alimenterà i dubbi dei cosiddetti “dissidenti vaccinali”, una realtà con cui occorre misurarsi ancora oggi.
Il ruolo dei finanziamenti
I finanziamenti che per primi hanno promosso e coordinato progetti per un vaccino anti Covid-19 sono stati quelli della Coalition for Epidemic Preparedness and Innovations (CEPI), una fondazione con sede a Oslo, istituita a Davos nel gennaio 2017 durante il World Economic Forum e costituita da partner internazionali, sia privati sia pubblici, uniti nello scopo di promuovere lo sviluppo e lo stoccaggio di vaccini contro quei patogeni che si può ragionevolmente prevedere che potrebbero causare nuove e spaventose epidemie. Una quantità significativa di fondi è stata elargita alla CEPI dalla Bill & Melinda Gates Foundation, dal Welcome Trust e dai governi di numerosi Paesi, e anche dalle principali compagnie farmaceutiche multinazionali. Ed è stata proprio la CEPI, insieme a numerose altre iniziative pubbliche e private, che già durante le primissime fasi dell’epidemia di Covid-19 ha attivato, finanziato e coordinato numerosi progetti per la preparazione di vaccini contro il virus SARS-CoV-2 seguendo strategie concettuali e piattaforme tecnologiche tra loro molto diversificate. Questa diversificazione è apparsa subito essenziale proprio perché, per molte malattie, ma principalmente nel caso di una malattia nuova come Covid-19, era difficile prevedere quale fosse il tipo di vaccino che meglio potesse proteggere. Ma la CEPI non è stata l’unica protagonista sul palcoscenico.
Operation Warp Speed. Con quest’espressione di slang che allude a una velocità stellare, l’amministrazione Trump aveva lanciato nel maggio del 2020 una partnership pubblico-privata dotata di un enorme finanziamento a cui, competitivamente, hanno avuto accesso ditte americane ed europee (AstraZeneca/Università di Oxford; Moderna; Johnson&Johnson; Sanofi/GSK; Merck; Novavax). La Pfizer, invece, è uscita dal progetto perché intendeva muoversi più liberamente da sola, accedendo comunque a finanziamenti indiretti da parte di questo programma. Nonostante le numerose opacità di questa operazione, caratterizzata da un forte spirito nazionalistico, bisogna riconoscere che è stata portata avanti con grande efficienza e, al momento in cui scriviamo, ben 4 dei 6 progetti selezionati e finanziati sono diventati vaccini efficaci, utilizzati da gran parte della popolazione del mondo.
Con una logica nettamente differente da quella statunitense, l’Unione Europea il 17 giugno del 2020 e successivamente l’11 novembre ha reso pubblici i criteri per favorire la produzione, l’acquisizione e la distribuzione dei vaccini anti Covid-19. I concetti cardine su cui si è articolata la strategia della UE sono:
- garantire un accesso tempestivo ai nuovi vaccini da parte di tutti gli Stati membri e la loro popolazione
- favorire le condizioni che possano portare allo sviluppo e produzione di vaccini all’interno della UE
- controllare e garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia dei nuovi vaccini che saranno disponibili
- ottenere le condizioni meno onerose per l’acquisto delle dosi dei vaccini, mano a mano che queste diventano disponibili e) guidare una solidarietà globale verso le nazioni del mondo che sono più in difficoltà.
L’acquisto anticipato di dosi di un vaccino che non esiste ancora (l’Advanced Purchase Agreement, APA) è un tipo di intervento che ha permesso alla UE di “prenotare” un numero definito di dosi dei differenti vaccini che poi si sarebbero rese accessibili ai vari Paesi membri. Questo tipo di intervento finanziario era già stato impiegato con successo nel passato per ridurre il rischio finanziario delle ditte che si avventurano nella messa a punto di nuovo vaccino. I contratti APA, stabiliti con le singole ditte produttrici in base alle loro specifiche esigenze, hanno il duplice obiettivo di favorire lo sviluppo del vaccino in cambio del diritto di acquistare un determinato numero di future dosi avendone stabilito il prezzo per persona, il numero di dosi e la tempistica di consegna se e quando il vaccino verrà validato e approvato. Vincoli questi molto importanti che, però, non sempre sono stati rispettati dalle ditte produttrici e che hanno sollevato contrasti legali.
L’ultimo miglio: trasformare il vaccino in vaccinazione
Il massiccio ed essenziale contributo da parte di enti pubblici e governativi che negli USA, nell'UE e probabilmente in molti altri Paesi del mondo ha supportato lo sviluppo dei vaccini anti Covid-19 apre una serie di complesse valutazioni sulla proprietà intellettuale dei brevetti su cui questi vaccini si basano e sulla necessità di cercare di raggiungere un’equa distribuzione tra i Paesi del mondo, tenendo presente l’enorme diseguaglianza che si è venuta a creare. Secondo i dati più recenti, mentre oltre il 64% della popolazione mondiale ha ricevuto almeno una dose di un vaccino, spesso meno del 14% delle persone che vivono in paesi a basso reddito ha avuto accesso ad almeno una somministrazione.
Numerosi enti internazionali, tra cui in primo luogo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno continuato a mettere in evidenza che da una pandemia o ci si salva tutti insieme o non se ne esce. Questa affermazione risulta, però, essere tanto proclamata quanto poco praticata. Oltre a una fondamentale giustizia sociale, considerata imprescindibile da molti, ma scetticamente qualificata come fraternity romanticism da altri, le due ragioni pratiche che stanno alla base della necessità di un’equa distribuzione dei vaccini sono la difficoltà di qualsiasi interscambio con i Paesi in cui la popolazione non è vaccinata e, ancora più importante, il fatto che nuove pericolose varianti del virus potrebbero prendere più facilmente origine dove, essendoci meno persone vaccinate, l’infezione può continuare a circolare. L’insorgenza di nuove varianti virali è favorita quando ci si trova di fronte a popolazioni che hanno uno scarso accesso ai vaccini e in cui non sono rare le immunodeficienze dovute a carenze alimentari, AIDS, malattie parassitarie.
Finora, però, i tentativi di assicurare l’accesso ai vaccini per tutti gli abitanti della Terra si sono scontrati con difficoltà apparentemente insormontabili: ritardi e mancate consegne, finanziamenti insufficienti, le politiche aziendali di difesa dei profitti, ma anche l’insensibilità dei governi di non pochi tra i Paesi a basso reddito ad affrontare il problema. Inoltre, spesso questi Paesi non dispongono neanche delle infrastrutture elementari necessarie per un’efficace campagna vaccinale.
Complessivamente sono stati utilizzati finora circa 28 vaccini, inclusi alcuni basati sul virus inattivato, meno efficaci, e altri basati su piattaforme adenovirali, associati a rare forme di trombosi profonda e perciò di fatto abbandonati nei Paesi occidentali ad alto reddito. Nei fatti, non solo pochi abitanti dei Paesi più poveri riescono ad accedere ai vaccini, ma questi sono difficilmente disponibili anche per i pochi operatori sanitari su cui si basa il fragile sistema sanitario locale. Al momento in cui scriviamo, pur in una fase in cui i vaccini cominciano ad arrivare in quantità significativa, nei Paesi africani più poveri si stima che solo un operatore sanitario su quattro sia vaccinato. La sfida rimane dunque quella di percorrere “l’ultimo miglio”, trasformare il vaccino in vaccinazione, rafforzando i sistemi sanitari e organizzazioni non governative sul campo.
I vaccini come bene comune?
Con uno sforzo finanziario davvero limitato da parte delle nazioni più ricche sarebbe possibile rendere rapidamente disponibili per le popolazioni a basso reddito i vaccini migliori, abbassandone il costo, aumentandone la produzione e mettendo le basi per una produzione locale. Tanto più che le ditte produttrici di vaccini hanno realizzato e continuano a realizzare profitti elevati, partendo però in gran parte da capitali di rischio messi a disposizione dai finanziamenti pubblici. Questo apre a una riflessione sullo status dei vaccini e sulla loro proprietà. Un vaccino che offra protezione contro una pandemia si trasforma da bene privato a bene pubblico, common good, anzi a bene pubblico globale perché la portata del beneficio può dispiegare il proprio effetto a tutto il pianeta. Considerare i vaccini come un essenziale bene pubblico globale significa che la soluzione a un problema comune e drammatico come questa pandemia è responsabilità di tutti, comprese le aziende del farmaco. Anzi, proprio perché sono le produttrici di un bene globale essenziale, necessario all'intera collettività umana, sarebbe lecito attendersi che le ditte produttrici si sentissero investite di speciali obblighi morali. Cosa che tuttavia, finora, non sembra che sia avvenuto.
Per questo da tempo si discute sulla possibilità di sospendere, almeno temporaneamente, i brevetti sui vaccini anti Covid-19 come rimedio alla disuguaglianza. Il tema era e rimane controverso. I principali argomenti a sostegno del mantenimento dei brevetti sono di due ordini. Si argomenta che la sospensione disincentiverebbe l’investimento in compagnie high risk/high gain che in un lungo arco di tempo di 10-20 anni hanno sviluppato nuove basi tecnologiche, come per esempio quelle rivoluzionarie dei vaccini a mRNA, che adesso possono essere messi a punto alla “velocità della luce”. Ancora, la sospensione avvantaggerebbe di fatto produttori for profit, ma dei Paesi a medio reddito come Cina e India.
D’altra parte, la sospensione dei brevetti in tempo di pandemia è stata spesso considerata come l’attuazione di un importante principio morale che, tuttavia, ha uno scarso significato pratico a causa delle enormi difficoltà tecnologiche da superare nei Paesi non avanzati per riprodurre i vaccini più innovativi. Ebbene: all’inizio del 2022 la dimostrazione, da parte dei ricercatori dell’Afrigen Biologics and Vaccines di Città del Capo in Sudafrica, di essere riusciti a riprodurre il vaccino a mRNA di Moderna ha fatto assumere un aspetto del tutto nuovo a questa disputa. E ha dato nuovo slancio a un progetto OMS per produrre vaccini a mRNA in Sudafrica, avendo come principale punto di riferimento proprio la compagnia Afrigen Biologics and Vaccines e formando scienziati locali. Sempre all’inizio del 2022, la ditta Moderna ha peraltro annunciato di voler costruire in Kenya un impianto per la produzione locale di oltre 500 milioni di vaccini a mRNA. Quasi contemporaneamente, anche la ditta tedesca BioNTech ha comunicato che entro la fine dell'anno invierà in Ghana, Ruanda e Senegal moduli delle dimensioni di un container al cui interno si trovano tutte le sofisticate apparecchiature necessarie per fabbricare vaccini a mRNA e che formerà personale tecnico locale.
Su un altro fronte, Ngozi Okonjo-Iweala, la straordinaria e dinamica direttrice dell'Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) da tempo sta lavorando sulla possibilità di una sospensione dei brevetti dei vaccini anti Covid-19 o, alternativamente, alla possibilità della concessione di licenze, qualunque sia la tecnologia e qualunque sia l'accordo commerciale che si riesce a stabilire, con lo scopo di risolvere o almeno di attenuare il problema nel più breve tempo possibile.
Il 15 marzo 2022 Ngozi Okonjo-Iweala è riuscita a portare a casa un primo iniziale compromesso tra la UE, gli Stati Uniti, l'India e il Sudafrica sull’esonero dei diritti di proprietà intellettuale riguardo i vaccini Covid-19, compromesso che autorizza a utilizzare ingredienti e processi brevettati per la produzione e la fornitura di questi vaccini, anche senza il consenso del titolare del brevetto.
Su questa linea, il 12 maggio 2022 il presidente Biden ha annunciato che 11 brevetti relativi a tecnologie mediche sviluppate presso i National Institutes of Health (NIH), ottenuti con i finanziamenti federali per la costruzione dei vaccini anti Covid-19, sono stati inseriti nel Technology Access Pool organizzato dall'OMS, una mossa, questa, che promette di rendere più facile per i paesi a basso e medio reddito l'accesso a vaccini, farmaci e strumenti diagnostici. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che quella dei vaccini in presenza di una pandemia è una lotta contro il tempo. Non c’è tanto bisogno di un vaccino fantastico tra cinque anni, quanto invece di un vaccino efficace che sia disponibile a breve contro le nuove varianti del virus e che possa essere offerto a un grande numero di persone nei Paesi in cui l’accesso ai vaccini è difficoltoso.
Le piattaforme tecnologiche: l’aspetto formidabile della creatività umana
Attualmente nel mondo sono stati approvati e distribuiti circa 28 diversi vaccini efficaci contro Covid-19 e, fino al momento in cui scriviamo, ne sono state somministrate oltre 12 miliardi di dosi, un risultato formidabile raggiunto in un tempo molto breve. Di fronte a questa varietà e alla rapidità con cui sono stati messi a punto, non si può non rimanere ammirati della creatività scientifica e tecnologica umana. Anche se questi diversi vaccini sono in competizione tra loro e sono contrassegnati da segreti tecnologici e industriali, la loro formulazione deriva comunque dalla ricerca scientifica di base, che si struttura, invece, come una condivisione delle conoscenze aperta a tutti i laboratori del mondo.
Se questi diversi vaccini si possono raggruppare sulla base delle diverse piattaforme tecnologiche che sono state utilizzate per la loro produzione, tutti i vaccini anti Covid-19 fino a ora disponibili sono diretti verso due bersagli: o l'intero virus SARS-CoV-2 o la molecola Spike che protrude all’esterno del capside di questo virus. I grandi aggregati trimerici della proteina Spike che sporgono dalla superficie dei virioni giocano infatti un ruolo centrale nell'aggancio del virus SARS-CoV-2 alle cellule umane. Anche quando sviluppato su un’identica piattaforma tecnologica, ogni vaccino ha però peculiarità che lo rendono unico, infatti, particolari apparentemente minori possono influenzare l'efficacia o la durata della protezione indotta o la sicurezza e la tollerabilità del vaccino. Il rapporto della Commissione Lincea Covid-19 riepiloga e riunisce in tabelle le diverse tipologie di strategia vaccinale e le relative piattaforme tecnologiche.
La risposta immunitaria indotta dai vaccini
È difficile procedere a una valutazione comparativa dell’efficacia dei vari vaccini anti Covid-19 perché gli studi randomizzati controllati possono seguire criteri in parte differenti e perché spesso la protezione indotta dal vaccino finisce con essere valutata in contesti epidemiologici diversi e verso differenti varianti del virus. La reale capacità di incidere sulla diffusione della pandemia e di provvedere una protezione di lunga durata emerge meglio dagli studi che valutano l’evoluzione nel tempo della risposta immunitaria e da quelli epidemiologici che valutano la protezione in momenti diversi dall’ultimo richiamo.
Il rapporto esamina nel dettaglio i dati disponibili, principalmente con i vaccini a mRNA o con quelli a vettore virale, sulla risposta immunitaria. Dopo una vaccinazione è stata osservata l’attivazione dei macrofagi, un aumento delle cellule dendritiche attivate, un’aumentata espressione dei Toll Like Receptor (TLR), la presenza di citochine e chemochine nel siero e una forte attivazione delle cellule Natural Killer. Dati, questi, che suggeriscono che i vaccini inducano una forma di allenamento, un training, della prima linea di difesa immunitaria. In effetti, una Trained Innate Immunity è alla base di un certo grado di resistenza indotta da alcuni vaccini nei confronti di patogeni immunologicamente non correlati al bersaglio del vaccino stesso (Pathogen Agnostic Protection). L’effettiva rilevanza clinica della Trained Innate Immunity e della correlata Pathogen Agnostic Protection verso Covid-19 rimane tuttavia da dimostrare.
Quello che si è visto, dopo la prima vaccinazione è una rapida attivazione dei linfociti T citotossici CD8+, specifici per i peptidi della proteina Spike, espansione che viene nuovamente stimolata dai successivi richiami vaccinali. Più moderata, ma comunque ben evidente è anche l’espansione dei linfociti CD4+ reattivi verso i peptidi della proteina Spike.
Numerosissimi studi documentano che dopo la vaccinazione si attiva un’intensa e rapida risposta anticorpale. Il titolo degli anticorpi neutralizzanti il virus SARS-CoV-2 appare essere il parametro immunitario che giustifica la protezione dal contagio. L’analisi comparativa mette in evidenza che titoli anticorpali molto elevati vengono indotti dai vaccini a mRNA e dal vaccino proteico Nuvaxovid (Novavax). L’intensità della risposta anticorpale indotta è superiore o, in qualche caso, eguale a quella che fa seguito alla guarigione da Covid-19. I titoli anticorpali più elevati e più persistenti si riscontrano nelle persone più giovani mentre declinano con l’avanzare dell’età, riducendosi più marcatamente nelle persone con più di settant’anni.
La riduzione del titolo degli anticorpi anti-Spike che progressivamente si osserva nel siero delle persone immunizzate corrisponde a ciò che avviene fisiologicamente dopo ogni immunizzazione. I vaccini, però, inducono popolazioni espanse e persistenti di linfociti B, T CD4+ e, un po’ meno, di linfociti T CD8+ di memoria, che si mantengono a lungo e che possono riattivarsi rapidamente. Nel caso di un contagio dopo la vaccinazione, la riattivazione di queste popolazioni di linfociti di memoria svolge un ruolo essenziale nel limitare l’espansione virale e nel controllare efficacemente la malattia, anche se questa reazione non è sufficiente a bloccare il contagio.
La protezione offerta dai vaccini
La vaccinazione anti Covid-19 è certamente la campagna vaccinale più ampia che sia mai stata attivata. All’ampiezza del numero di persone vaccinate che, secondo Our World Data corrisponde, nel momento in cui scriviamo, al 64,5% della popolazione mondiale, fa seguito una continua e ampia analisi della protezione offerta dai vaccini. Un dato che sembra delinearsi con sempre maggiore chiarezza è la differenza tra l’evanescente protezione offerta verso il contagio e la più persistente protezione verso le forme gravi della malattia.
Il passare del tempo ha reso possibile ottenere numerosi e diversi dati epidemiologici che mettono in evidenza che, con una cinetica che cambia a seconda del tipo di vaccino, la protezione verso il contagio non persiste a lungo. Uno studio molto ampio su 780.225 veterani dell’esercito americano ha evidenziato che nel primo mese la protezione verso il contagio offerta dai vaccini Ad26.COV2 (Johnson&Johnson), BNT162b2 (Comirnaty, BioNTech - Pfizer) e da mRNA-1273 (Spikevax, Moderna) era superiore all’ 85%. Nei sei-sette mesi successivi, la protezione offerta da una sola dose del vaccino Ad26.COV2 (Johnson&Johnson) si era progressivamente ridotta quasi a nulla. Quella indotta dalle due dosi del vaccino Comirnaty si aggirava ancora sul 40%. Di poco più persistente appariva quella offerta dalle due somministrazioni del vaccino mRNA-1273 (Spikevax, Moderna) che rimaneva ancora intorno al 60%.
Lo stesso studio mette anche bene in evidenza che, benché l’aumento dei contagi determini anche un aumento del rischio di morire, a sei mesi dall’ultimo richiamo persiste una protezione significativa verso la morte dovuta a forme gravi di Covid-19, anche se marcatamente modulata dall’età della persona vaccinata. Per le persone con meno di 65 anni, la protezione offerta dal vaccino monodose Ad26.COV2 (Johnson&Johnson) era del 73%, quella offerta dal vaccino BNT162b2 (Comirnaty, BioNTech – Pfizer) del 81% e quella offerta dal vaccino mRNA-1273 (Spikevax, Moderna) dell’84%. Se invece le persone avevano superato i 65 anni, la protezione si riduceva al 52% con il vaccino Ad26.COV2, al 70% con il vaccino BNT162b2 e al 76% col vaccino mRNA-1273, valori di protezione che rimangono comunque sempre molto significativi.
Anche altri dati epidemiologici dimostrano che, di fronte a nuove espansioni dell’epidemia, le persone che sono state vaccinate hanno un basso rischio di sviluppare forme gravi o mortali di Covid-19. A livello di intere nazioni, a parità di diffusione della malattia, la mortalità può essere drammaticamente ridotta dalla vaccinazione. Il recente confronto tra Hong Kong e la Nuova Zelanda ne è un esempio convincente. In entrambi i Paesi, fino alla comparsa della variante Omicron, i casi di Covid-19 erano ridotti al minimo. Ma, a marzo 2022, con l’arrivo dei nuovi picchi di pandemia, mentre in Nuova Zelanda il numero dei decessi per Covid-19 è rimasto molto basso, a Hong Kong sono saliti a circa 200 al giorno. La differenza fondamentale sembra essere la vaccinazione: in Nuova Zelanda il 100% dei residenti di età pari o superiore a 75 anni è completamente vaccinato mentre a Hong Kong è completamente vaccinato solo il 30% circa delle persone nella stessa fascia di età.
Uno studio recente ha invece analizzato i livelli anticorpali nella saliva delle persone vaccinate con vaccini a mRNA: nei tre mesi successivi alla vaccinazione sono presenti quantità significative di anticorpi di classe IgG, di origine ematica, mentre sono bassissimi i livelli di IgA1 e praticamente assenti le IgA2. Questi risultati mettono in evidenza che le IgG di origine ematica giocano un ruolo importante nella protezione delle mucose, ma suggeriscono anche che i vaccini attualmente in uso hanno una capacità limitata di attivare le difese specifiche delle mucose che sono essenzialmente IgA2 dipendenti.
Quarta dose, quinta dose…
Quanto della protezione limitata nel tempo che si osserva dopo la vaccinazione anti Covid-19, più che al tipo di malattia, è invece da ascrivere alle caratteristiche dei nuovi vaccini? I dati disponibili mettono in evidenza che gli attuali vaccini e in particolare quelli a mRNA e quelli proteici:
- inducono una forte risposta immunitaria che viene mantenuta, ma non esaltata dai richiami successivi
- inducono una buona e persistente memoria immunitaria che dipende sia dai linfociti T e sia dai linfociti B di memoria
- non sono in grado di indurre una marcata produzione di anticorpi secretori (in particolare le IgA2 e IgM) a livello delle mucose.
È probabile che sia proprio la limitata induzione di anticorpi secretori da parte degli attuali vaccini a far sì che la protezione offerta verso un successivo contagio sia limitata: di fronte a una massiccia circolazione del virus e, in particolare, delle sue varianti più infettive, il contagio della persona immunizzata potrebbe aver luogo non appena il già basso titolo degli anticorpi secretori fisiologicamente diminuisce col passare del tempo. L’esaltata capacità infettiva progressivamente acquisita dalle varianti del SARS-CoV-2 e, in particolare, al momento attuale dalle varianti Omicron, potrebbe permettere un’espansione virale così rapida da superare la capacità reattiva della memoria immunitaria indotta dal vaccino.
Per cercare di interpretare la situazione attuale e comprendere l’utilità e i limiti dei prossimi richiami (quarta dose e successive) si deve tener presente proprio questo fatto: tutti i 28 vaccini oggi disponibili sono diretti verso il SARS-CoV-2 isolato a Wuhan a gennaio 2020, un virus che non circola più. Poiché le sub-varianti di Omicron sono diventate un virus fondamentalmente diverso, per ottenere una protezione significativa con gli attuali vaccini è necessario mantenere estremamente elevata la risposta immunitaria. Infatti, solo una quota minore degli anticorpi indotti da questi vaccini riconosce la proteina Spike espressa dalle nuove varianti e sub-varianti.
Quindi, uno dei problemi legati alle attuali vaccinazioni è proprio come mantenere una elevata risposta immunitaria considerando se offrire successivi richiami o, invece, allestire e aspettare nuovi vaccini, specificamente diretti verso la proteina Spike presente sulle nuove varianti. Pur con i limiti che hanno le vaccinazioni ripetute, in numerose nazioni questi richiami sono considerati utili nel mantenere la risposta immunitaria sufficientemente elevata almeno per i mesi successivi al richiamo.
I dati preliminari provenienti da Israele suggeriscono che un quarto richiamo offra un limitato aumento della protezione verso il contagio e un più significativo aumento della protezione verso la malattia grave e i decessi, specialmente nelle persone più fragili e anziane.
Tutto ciò è reso ancora più complesso dal fatto che, a causa dell’immunosenescenza del sistema immunitario le persone con oltre 75 anni sono sia quelle che più frequentemente sviluppano forme gravi di Covid-19 sia quelle che rispondono meno bene per quanto riguarda sia l’intensità e la persistenza della risposta ai vaccini e ai richiami. Se somministrare la quarta dose e gli eventuali richiami successivi è quindi una decisione molto influenzata dall’età della persona, dal suo stile di vita e dal rischio ambientale.
Il tema dei richiami successivi alla seconda e alla terza dose è oggetto di discussione, non solo per la durata della protezione che viene indotta, ma anche sul piano della sostenibilità.
L’utilizzazione dei nuovi vaccini, più specificamente diretti contro le varianti, viene discussa anche sulla base del rischio di quella situazione denominata, in modo suggestivo, il “peccato originale antigenico”, il fatto cioè che immunizzando con varianti di un antigene già conosciuto in precedenza dal sistema immunitario, si inducano preferenzialmente risposte contro l’antigene originale.
Comunque, un obiettivo connesso a ogni vaccinazione e a ogni richiamo è quello di tendere a limitare la diffusione del virus e cercare di interromperne la catena di trasmissione. Senza un buon accesso ai vaccini e senza un’estesa copertura vaccinale in tutte le aree del mondo, il progressivo declino dell'efficacia della protezione indotta dai vaccini rappresenta sia un rischio sia per la salute individuale che per la salute pubblica.