Con due parole, fotografate su un muro di Venezia alla fine del lockdown, un writer, cultore del carpe diem, ha espresso non solo la propria filosofia, ma anche la sarcastica sintesi della motivazione all'inerzia di chi, sul pianeta, esercita poteri industriali, finanziari e politici non sacrificabili sull'altare di altrui, future esistenze.
La difficile sfida della COP26 di Glasgow sarà quella di far progredire la convergenza del maggior numero dei paesi presenti verso il rispetto degli accordi di Parigi, raggiungibili dimezzando le emissioni (rispetto al 1990) entro il 2030 e arrivando allo zero netto per metà secolo. Obiettivo al momento condiviso dall’Unione europea (responsabile dell’8% delle emissioni globali) e dagli Stati Uniti (responsabili del 14,5% delle emissioni), ma non da Cina, Russia, Brasile e molti altri big polluter. Un obiettivo molto ambizioso e francamente fuori dalla portata della sola COP 26, ma possibile, a patto che si inverta da subito la crescita delle emissioni di biossido di carbonio e altri gas climalteranti che hanno raggiunto attualmente la concentrazione di 417 ppm (parti per milione) rispetto ai 290 ppm del periodo preindustriale.
Gli ultimi mesi hanno visto l’uscita di alcuni importanti rapporti sul cambiamento climatico: dal primo volume del Sesto rapporto IPPC che ha ribadito i rischi connessi al superamento della soglia di 1,5°C al Rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (Net zero by 2050), che disegna l'impervia roadmap per arrivare ad azzerare le emissioni nei 29 anni che ci separano dal 2050.
I costi più alti riguarderanno la nostra salute
Tra questi, particolare rilevanza ha l'appello a un'azione urgente e decisa sul clima sottoscritto e pubblicato, lo scorso settembre, dai caporedattori di 219 riviste di ambito medico e sanitario in tutto il mondo e di cui anche Scienza in rete vuol farsi promotore. Nell'elenco delle riviste (leggibile qui) non mancano le prestigiose PLOS Medicine, British Medical Journal, The Lancet, New England Journal of Medicine.
La sentenza emessa dagli scienziati è netta: un aumento superiore al grado e mezzo innescherebbe, per la salute umana, una corsa alla catastrofe che non potrebbe più essere invertita: nonostante le impellenti preoccupazioni per Covid-19, essi affermano, non è, quindi, possibile aspettare che passi la pandemia per ridurre le emissioni.
Un aumento sopra il grado e mezzo sarebbe critico, perché aumenterebbe la probabilità di portare al punto di non ritorno le conseguenze negative sulla salute che qualsiasi incremento della temperatura comporta: disidratazione, con perdita della funzionalità renale, tumori maligni della pelle, infezioni tropicali, problemi in gravidanza, allergie, patologie cardiovascolari e polmonari.
Oltre all'aumento globale della temperatura, anche la deplezione del suolo e gli eventi meteorologici estremi degli ultimi quarant'anni hanno progressivamente abbassato la resa delle coltivazioni, con conseguente denutrizione di molte popolazioni, mentre la distruzione di molti habitat naturali e la monopolizzazione idrica per le monocolture hanno facilitato il diffondersi di epidemie.
Come sempre accade, il danno non è equamente distribuito nel genere umano ma, nelle comunità ricche, seleziona le persone più deboli (i malati cronici, i vecchi e i bambini), mentre colpisce la totalità delle comunità più povere ed emarginate, che meno sono responsabili del disastro ambientale e meno sono in grado di mitigarne gli effetti. Ogni privilegio tuttavia, è solo temporaneo e apparente, affermano gli editorialisti: «Esattamente come di fronte alla pandemia da SARS-CoV-2, il genere umano, globalmente, è forte come il più debole dei suoi membri».
Secondo i firmatari dell’appello, esiste (e va alimentato) un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e personali che arrecano vantaggi di salute (quali il cambio di passo sul modo di spostarsi in città, sulle abitudini alimentari e, persino, sull'uso di internet) e la riduzione delle emissioni (la cosiddetta politica dei co-benefici). È evidente che non basta incoraggiare i mercati a investire in tecnologie più pulite: tali comportamenti devono essere indotti o facilitati da piani di riprogettazione urbana con ampliamento degli spazi verdi (che mitigano l'aumento della temperatura e facilitano l'attività fisica), di ridefinizione dei sistemi di trasporto delle persone e delle merci e della produzione e distribuzione del cibo.
La crisi ambientale richiede investimenti persino maggiori di quelli per l'emergenza pandemica ma, nell'ottica della politica dei co-benefici, non si farebbero attendere i ritorni economici, a lungo e anche a medio periodo: il vantaggio di salute derivante dal solo miglioramento della qualità dell'aria compenserebbe i costi globali per ridurre le emissioni ed è evidente il risparmio, in termini di assistenza sanitaria e terapia farmacologica, della prevenzione delle malattie croniche metaboliche, vascolari e oncologiche attuata tramite miglioramenti dell'attività fisica e della dieta. Come sottolineano i rapporti dell'OMS, nella prevenzione della salute umana e del collasso di quella del pianeta i costi dell'inazione superano di gran lunga quelli dell'azione (WHO. COP26 special report on climate change and health: the health argument for climate action. Geneva: World Health Organization; 2021). Qualche azione, a livello globale, è stata intrapresa: il network C40, nato a Londra nel 2005, è una rete internazionale di grandi città (inizialmente, appunto, 40, ma ormai più di 100) che operano per ridurre l’emissione di gas serra (di un quarto della quale sono responsabili); in Italia vi hanno aderito, finora, Roma, Milano e Venezia ed è auspicabile che lo facciano altre città.
Una sola politica per clima e biodiversità
La necessità di ridurre la CO2 atmosferica non è disgiunta da quella di salvaguardare gli ecosistemi naturali e la biodiversità, sulla cui perdita e il conseguente rischio globale si rimanda a quanto ha scritto su Scienza in rete la biologa e naturalista Laura Scillitani. Il mondo "semplificato" ha minori possibilità di omeostasi: è la biodiversità a garantire il vicendevole controllo demografico delle specie, la diluizione dei patogeni e l'effetto tampone sui mutamenti biochimici del suolo e delle acque.
Il recente lavoro, sulla rivista Nature, di un gruppo di ricerca australiano guidato da un biologo della Sapienza ha dimostrato come sia di vitale importanza per la conservazione della biodiversità, il mantenimento, in varie aree del mondo, di luoghi grandi e non frammentati con impronte minime dell’Homo sapiens (wilderness): secondo i ricercatori, che hanno mappato piante e invertebrati (grandi indicatori della biodiversità, in quanto rappresentano rispettivamente circa l’80% di tutta la biomassa e il 60% di tutte le specie) la probabilità che una specie si estingua si dimezza nelle aree di wilderness e lo smorzamento (buffering) del rischio di estinzione è maggiore quanto più grandi sono le aree integralmente protette.
Anche al di fuori di queste aeree esistono ecosistemi che proteggono il pianeta, mitigando i mutamenti del clima: ovunque, nel mondo, le foreste trattengono e assorbono il biossido di carbonio, trasformandolo attraverso la fotosintesi in carbonio, che immagazzinano sotto forma di legno e vegetazione ("sequestro del carbonio"). Va, poi, ricordato che, oltre alla CO2 (attualmente il principale gas a effetto serra, cui contribuisce per oltre il 55%) vi sono altri gas, inclusi tra gli obiettivi di riduzione dal Protocollo di Kyoto, che hanno un "potere climalterante" ancora più alto: il metano (CH4), prodotto dai rifiuti, dagli allevamenti zootecnici, dalla fertilizzazione dei campi con letame e dalle coltivazioni di riso, gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l'esafluoruro di zolfo (SF6) e il protossido di azoto (N2O), un gas con un effetto serra 300 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. L’azoto può essere presente nell'ambiente anche in altre forme, come l’ammoniaca (dai fertilizzanti agricoli) e il biossido di azoto (come sottoprodotto dei combustibili fossili) che inquinano il suolo e i corsi d'acqua.
Nelle foreste, a dispetto di una sua ingente presenza, gli effetti di tale inquinamento sono inferiori all'atteso, per via della scarsità di luce che raggiunge il terreno. Il fattore chiave che protegge la vita di una foresta dall'inquinamento da azoto è, quindi, la sua oscurità: è stato verificato sperimentalmente che l'aggiunta di luce accelera le risposte dei vegetali al riscaldamento, aumentando il predominio dei taxa che preferiscono il calore sulle piante tolleranti al freddo (un processo chiamato "termofilizzazione").
La superficie forestale dell'Europa, che occupa il 40% del territorio grazie ai rimboschimenti e a causa dell’abbandono dei terreni coltivati o tenuti a pascolo, oltre a sequestrare biossido di carbonio, controlla l’erosione del territorio e il riciclo dell’acqua e limita l'inquinamento da azoto ancora con qualche efficacia; le foreste, però, sono sempre più minacciate da malattie, invasione di specie alloctone e, soprattutto, dalla siccità e quando gli alberi cominciano a soccombervi, filtra più luce. Ciò danneggia anche le specie vegetali del sottobosco (l’80% della biodiversità forestale), che riciclano nutrienti essenziali come fosforo, potassio e azoto, aiutano a decomporre la lettiera degli alberi e selezionano la prossima generazione di alberi, facendo sopravvivere solo i più adatti (leggi qui)
Il forest-buffering ha permesso di guadagnare tempo e a molte specie di adattarsi al nuovo clima ma, negli ultimi anni, la siccità dovuta al riscaldamento globale ha diradato le foreste di abeti rossi in Germania, Belgio e Francia; le latifoglie sono solo un po' più resistenti, ma anche le loro chiome cominciano a impoverirsi (vedi anche qui).
Condividere provvedimenti per contenere le emissioni di CO2, di N2O e di metano, la deforestazione e la perdita della biodiversità deve essere la finalità dei prossimi vertici, a cominciare da quello di Glasgow: solo cambiamenti immediati, sostanziali ed equi degli attuali processi produttivi potranno correggere una traiettoria non più sostenibile.