Da qualche tempo è sorta la paura che un andamento non proprio lineare e cartesiano della valutazione della ricerca possa avere come conseguenza se non una sua “dismissione”, almeno un suo forte ridimensionamento. Non si possono non condividere le considerazioni di Alberto Mantovani a partire dal titolo del suo intervento, che riprende un tema caro a Rita Levi Montalcini. Ovviamente, il problema della valutazione non è una questione isolata, ma è strettamente connessa al ruolo che, in un paese avanzato, svolgono la ricerca scientifica, la formazione universitaria e l’innovazione tecnologica, le quali, come scrive Daniela Palma, sono la vera cura dello “spread”.
La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica sono cruciali per una ripresa del nostro Paese, nonostante continuino a non essere prese realmente sul serio neanche da quella parte delle forze politiche che almeno ne parla. Altre forze, inspiegabilmente, considerano parassitario il mondo della ricerca e riducono l’innovazione ai livelli meno significativi. Nessuno ha mai preso in considerazione il problema di un cambiamento del nostro modello produttivo in direzione dell’alta tecnologia, facendo realmente interagire ricerca di frontiera e mondo della produzione (si vedano, ad esempio, le considerazioni di Pietro Greco, Rino Falcone e Sergio Ferrari e, a livello divulgativo, quelle di un libriccino che più di cinque anni fa già si interrogava su come opporsi al declino del nostro Paese ). Aggiungo che, a mio avviso, la situazione complessiva del nostro Paese è più drammatica di quanto generalmente si pensi, perché nella crisi è coinvolto sia il modello produttivo, sia quello della convivenza civile.
E’ poi così scontato che la tempesta che si è abbattuta sull’Università e il mondo della ricerca sia dovuto solo a disattenzione, errori o a diverse priorità assunte dai decisori? Oppure molti dei problemi con i quali ci confrontiamo sono corollari “inevitabili” di scelte politiche generali effettuate in piena coscienza, ma non dichiarate perché forse è inconfessabile il modello di paese che emerge da tali scelte? Questo è un tema molto complesso e, nonostante sia strettamente collegato con quello della valutazione della ricerca, non può essere affrontato qui in modo sintetico.
Ritorniamo, dunque, al nostro
problema.
C’è ancora qualcosa da aggiungere a quanto è stato detto e
scritto? Un recente intervento di
Sabino Cassese su Repubblica proprio
sul tema particolare della valutazione, non della ricerca in generale, dimostra
di sì. Se poi il dibattito (addirittura su un punto specifico e molto tecnico)
arriva sulle pagine di un quotidiano ad alta tiratura, vuol
dire che la discussione sta compiendo un salto di qualità. A rafforzare l'idea ci ha pensato la pubblicazione - pochi giorni dopo - di un articolo di Adriano Prosperi che, partendo sempre dal problema della valutazione, ha posto domande
significative e cruciali anche sul tema della libertà di ricerca. Vi sono vari temi che
varrebbe la pena di approfondire ulteriormente, ma al momento vorrei cercare di
capire solo un punto tra quelli posti da Cassese e Prosperi e i tanti altri ad
essi collegati: come mai l’ANVUR ha svolto ruolo negativo sui nuovi concorsi
universitari?
L’idea iniziale che sta
alla base della creazione dell’ANVUR, ovvero quella di lasciare la massima libertà a
ricercatori e strutture di ricerca nel loro agire, ma con la consapevolezza che
quello che veniva fatto avrebbe avuto conseguenze concrete, è una vecchia e ben maturata
idea.
E questo era in linea
con l’idea di fondo di Antonio Ruberti all’epoca (ormai remota)
dell’introduzione dell’autonomia delle Università che credo si possa
riassumere, senza violare troppo le sue idee, così: “Fare qualsiasi cosa in
piena e totale libertà, ma con la certezza che ogni azione e ogni scelta fatta avrebbe
avuto conseguenze”. Per essere chiari,
parafrasiamo: “Il mondo dell’università e della ricerca si comporti come
ritiene più opportuno, libero da procedure burocratiche pensate nel migliore
dei casi per altre attività, per ottenere gli obiettivi prefissati, tanto sarà valutato successuvamente per i
risultati conseguiti. E se non ha fatto bene verrà, se non proprio punito, almeno fortemente
penalizzato”. Il fatto, poi, che
l’idea dell’ANVUR sia passata indenne da Mussi a Gelmini avrebbe
dovuto avere come benefica ulteriore conseguenza un dispiegarsi pacifico delle
sue potenzialità nel corso della sua attuazione, garantito dal fatto che un’idea
che passa indenne attraverso politiche (molto) diverse tra loro non può essere di parte, e che le persone chiamate a gestirla sarebbero state equidistanti da qualsiasi
“richiesta impropria”. Avendo il piacere e l’onore di conoscere alcuni dei suoi componenti ero sicuro, quando L’Agenzia è stata istituita, della
svolta positiva che sarebbe stata impressa al problema della valutazione.
Come mai, invece, tutto è crollato? Come mai a critiche incontestabili al suo operato (puntuali, dettagliate, documentate, spesso con ricchezza di documentazione e argomentazione degna dei migliori articoli scientifici - si veda ad esempio il sito Roars) hanno fatto riscontro silenzi, giustificazioni balbettate nonché scivoloni ulteriori? C’era qualcosa di sbagliato nelle idee di Ruberti e nelle discussioni avvenute, lustri addietro, prima che il concetto fluido, informale, di “valutazione” divenisse “Istituzione” (ANVUR), oppure è accaduto qualcosa che ha confuso le carte, cambiando obiettivi, aspirazioni, concetti guida?
Intanto osserviamo che l’ANVUR, quando è stata pensata per la prima volta, mai avrebbe dovuto occuparsi - almeno nel modo in cui l’ha fatto - dei concorsi. Nello spirito di Ruberti, ricordato prima, mai l’ANVUR avrebbe potuto assumere “il ruolo di Minosse all’entrata dell’inferno”, come scrive Cassese. Invece, a pagina 19 del “Piano della performance ANVUR 2012- 2014”, leggiamo: “L’ANVUR è chiamata a contribuire all’abilitazione scientifica nazionale prevista dalla legge 30 dicembre 2010, n.240.” Il fatto che ariguardo vi siano nel Piano appena citato rafforza il dubbio che questo compito possa essere stato aggiunto in corso d’opera. Per adempiere a questa nuova funzione, l’ANVUR ha costruito una sofisticata “macchina-per-concorsi” che - come tutte le macchine - avrebbe dovuto fornire risultati ineccepibili basati su dati oggettivi senza interferenze “troppo umane”, sulla base di rigide regole quantitative. Una volta costruita, la macchina è stata messa in moto.
Ma in una strumentazione estremamente sofisticata non possiamo permetterci errori. Anche un singolo piccolo difetto (una saldatura, una sola, fatta male) non permetterà all’intera macchina di funzionare come dovrebbe; e, oltre a non potere adempiere a tutti i compiti per cui è stata progettata, in certi casi, ci può dare risultati sbagliati (tanto più gravi in quanto essendo prodotti da uno strumento di estrema precisione sarebbero portatori di un’affidabilità che non c’è). Come comportarci, allora, in caso di errori?
Per non parlare in astratto, prendiamo un esempio concreto, quello del Large Hadron Collider (LHC) del CERN, che illustra bene il nostro problema. Prima una saldatura imperfetta ha costretto a ricontrollare tutto, ritardando di un anno l’avvio della sperimentazione, poi un altro piccolo errore ha fatto viaggiare i neutrini a una velocità maggiore di quella della luce. Questo ha messo in crisi il progetto? No. Il percorso seguito - con la linearità metodologica e l’onestà intellettuale, propria del metodo scientifico - ha rafforzato e non diminuito la nostra fiducia nella scienza e la nostra ammirazione per tutta l’equipe, compresi coloro che hanno fatto gli errori, ma hanno saputo riconoscerli e correggerli in modo trasparente davanti a tutti. Qualcuno potrebbe pensare che l’esempio portato sia malizioso perché fa venire in mente lo scivolone ministeriale sul famoso tunnel lungo settecento chilometri, ma non è così. Quello del CERN è realmente l’esempio più adatto data, l’estrema delicatezza sia della sperimentazione che stanno conducendo a Ginevra (con estrema perizia e serietà che ha permesso di superare due incidenti di percorso uscendone rafforzati) sia di quella che dovrebbero condurre all’ANVUR (e al Ministero), ahimè con risultati non altrettanto soddisfacenti. Un meccanismo di valutazione quantitativo centralizzato alla base dei criteri per l’abilitazione scientifica nazionale è una “macchina-per-concorsi” tanto sofisticata - nel suo campo - quanto LHC. Già nel corso della messa a punto della “macchina-per-concorsi” sono stati evidenziati un po’ di difetti di realizzazione. Non farò una lista di questi “errori”, neanche parziale. Si tratta di dati ben noti a tutti coloro che hanno seguito il dibattito su questi problemi. Mi limito a ricordare solo uno degli scivoloni, quello che riguarda la lista delle riviste di classe A. Ecco: l’aver messo (o dimenticato di togliere) Yacht Capital, ad esempio, nell’elenco delle riviste di classe A è una “saldatura” malfatta, peggiore di quella che ha messo in crisi LHC. Oltretutto a Ginevra, come ricordato, hanno usato tutto il tempo necessario per rifare bene la saldatura. A Roma, invece, hanno dato risposte, diciamo così, un po’ approssimative.
Torniamo alla domanda che ci eravamo posti. Erano sbagliate le idee di Ruberti o è successo qualcosa che ha cambiato quel progetto? Ci sembra che Cassese sostenga che qualcosa sia accaduto. Da un lato “l'arma rivolta contro le cattive scelte politiche è stata rovesciata e rivolta dal ministero e dall'ANVUR contro il mondo accademico”. “Ma”, continua, “anche questi passi potevano condurre a risultati utili, se non se ne fosse fatto un altro, che porterà l'intera macchina della valutazione nel precipizio: è stato attribuito valore legale alla valutazione centralizzata, opera dell'ANVUR e degli organismi collegati. L'assegnazione di un valore legale alla valutazione centralizzata consacra giuridicamente classificazioni in ordini gerarchici o categorie di riviste e di persone, fissando rigidamente livelli e giudizi che sono opinabili.”
Gli errori sono
inevitabili, ma la sofisticazione metodologica del metodo scientifico e
l’onestà intellettuale - che è un suo corollario obbligato - sono la maggiore
garanzia che dagli errori possiamo imparare e che, dopo un errore, prendiamo
maggiore coscienza della difficoltà di un problema. Cosa che non avviene sempre
e ovunque nel vasto campo delle attività dell’uomo.
Ora nel caso della
nostra “macchina-per-concorsi” non solo sono stati fatti troppi errori (che non
sono stati corretti in modo adeguato) ma sorge il dubbio che non sia possibile
avere una macchina di questo tipo. Non perché non siano utili tutti i pezzi
della macchina, ma perché tutti questi elementi non possono essere messi assieme
secondo regole generali per dare luogo a uno strumento universalmente applicabile
in modo meccanico e centralizzato. Allora l’ANVUR, a
differenza dei fisici di LHC, non solo ha fatto “saldature” di cattiva qualità
e non ha saputo rimediarvi, ma - ciò che è più grave - non ha capito che la macchina che ha costruito, oltre
a non essere l’unica o la migliore possibile, può essere utile, ma solo se è adoperata in altro modo. “Anvur e ministero hanno fatto un grosso errore trasformando la
valutazione, che è necessaria come parte del lavoro scientifico, in un
esercizio burocratico centralizzato”, continua Cassese e
conclude scrivendo che “Ministero e Anvur
potrebbero essere ancora in tempo per rimediare, togliendo ogni valore legale
alle valutazioni centralizzate rivolte all'università e alle comunità
scientifiche, senza farsi prendere dal desiderio di dare i voti a tutto e a
tutti. L'Anvur raccolga i dati e i prodotti delle comunità scientifiche,
elabori indicatori, standardizzi, aiuti e agevoli la valutazione da parte di
università, commissioni, dipartimenti. Solo così la valutazione, che è utile,
ed anzi, necessaria, sarà salva.” Che il problema sussista è corroborato anche da una
recente circolare del ministro Profumo (Prot. N° 754 del giorno 11
gennaio 2013, Ufficio del Gabinetto) “su alcuni aspetti applicativi della nuova
disciplina per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale
introdotta dalla legge 30 dicembre 2010, n. 240”. I problemi generati
dagli errori pregressi non possono essere risolti, tuttavia, da una "circolare".
Agli errori si può certo rimediare, ma bisogna in
primo luogo riconoscerli e poi cambiare strada.
Per questo lancio un
accorato appello a Stefano Fantoni: cambiate strada.
Sarebbe meglio seguire il suggerimento di Cassese
o dare una risposta ancora più efficace di quella da lui suggerita. Tecnicamente, voi tutti componenti dell’Agenzia avete la competenza per
trovare una soluzione ottima. Bisogna solo decidere di farlo. Ma è necessario salvare l’ANVUR
dal discredito ed evitare che con essa anche il concetto stesso di valutazione
possa essere messo in discussione. Un vostro tempestivo
intervento critico (ed autocritico) in questa direzione potrebbe, tra l’altro,
evitare che anche in Italia, prima o poi, succeda quello che è successo in
Francia dove, recentemente, il ministro dell’università e della ricerca, Geneviève
Fioraso, ha annunciato che suggerirà la soppressione dell’AÉRES (l’ANVUR
francese) sostituendolo con ”une agence nationale entièrement redéfinie à
partir des principes d'indépendance, de simplicité de fonctionnement et de
procédures ainsi que de légitimité scientifique et de transparence” (leggi qui). Come
scrivono le due giornaliste autrici dell’articolo “ce n'est pas l'évaluation qui est critiquée mais plutôt la manière dont
elle est réalisée”.
Sarebbe bene fare tesoro dell’esperienza altrui, prima che sia troppo tardi.