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Agamben e le insensatezze sulla dittatura telematica

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Viviamo sotto dittatura telematica, le tecnologie digitali producono comunità fantasmatiche, i prof che fanno didattica a distanza sono come i docenti che giurarono fedeltà al Fascismo, ecc. ecc. Se, come dice Giorgio Agamben, il problema è la “barbarie tecnologica” che svuota le aule e sfibra lo studentato, c’è da chiedersi perché insieme alla didattica a distanza non abolire anche la scrittura e i libri. Niente distanzia più della tecnologia alfabetica e di quella tipografica.
Crediti immagine: Pexels/Pixabay. Lienza: Pixabay License

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È vero che il buon senso non produce buona filosofia, ma ciò non significa che per produrre buona filosofia bisogna necessariamente dire qualcosa di insensato. Pare che invece che Giorgio Agamben voglia dimostrarci il contrario, e poiché non è certo un Diego Fusaro la cosa stranisce un po’. Eppure bisogna resistere ai resistenti, evitare di essere apodittici (anche perché non ce lo possiamo permettere), e provare a trarre dalle argomentazioni degli apocalittici utili spunti per gettare luce su quel che accade intorno a noialtri ingenui integrati. Perché sì, sarà pur vero che la scienza è una nuova forma di religione (come del resto già quasi 150 anni fa registrava l’autore dello Zarathustra e, si badi, anche della Gaia Scienza), ma è vero anche che a gridare al lupo al lupo contro la civiltà digitale si finisce per dover bandire anche quella letteraria. Sì, se in questione è la lotta alla “dittatura telematica” dei corsi online responsabili della fine dello studentato, allora per coerenza si lotti pure contro quelle del libro e della scrittura. Niente distanzia più della tecnologia alfabetica e di quella tipografica.

Smarriti tra comunità fantasmatiche

L’insegnamento online, sostiene il filosofo, decreta la fine della “forma di vita” dello studentato. “Intrappolati in schermi spettrali”, dice, assistiamo inerti alla fine dell’universitas. Le tecnologie, in effetti, trasformano la vita e sarebbe ben strano, anzi sarebbe davvero inquietante, se non si levassero voci a scuoterci dal torpore dell’always on. La relazione tra insegnanti e studenti filtrate da schermi sono in effetti poco più che fantasmatiche perché le piattaforme digitali consentono sì alla didattica di superare la distanza ma al costo di neutralizzare la presenza. Novità delle Ict? Non proprio, lo stesso è accaduto quando dalla cultura orale si è passati a quella scritta e, con potenza assai maggiore, quando dal manoscritto si è passati a quel miracolo tecnologico che è il libro stampato. Quale altra invenzione ha prodotto maggiore distanziamento tra maestro e allievo se non la possibilità di leggere le parole del maestro in altri luoghi e in altri tempi invece che ascoltarle dalla sua viva voce? La “dittatura telematica” è la prosecuzione con altri mezzi della dittatura del libro, e chi chiama alla resistenza contro le lezioni a distanza dovrebbe fare come Platone e condannare prima di tutto la tecnologia alfabetica, la scrittura.

Resistere alla barbarie digitale 

La storia la sapete già, il filosofo italiano più seguito al mondo denuncia l’attacco del regime biopolitico e telematico alla libertà e alla democrazia: si profila l’assassinio dell’humanitas così come la conosciamo e scienza e tecnologia ne sono i principali indiziati. L’“invenzione della pandemia”, questo in sintesi il ragionamento, crea uno stato di eccezione che legittima la sospensione dei diritti, mette in quarantena la potenza creativa della socialità ed esalta il furore securitario delle autorità, ponendo così le premesse per la costruzione di una cornice neototalitaria pronta a schiacciare ogni forma di vita autenticamente critica, a cominciare dallo studentato e dall’università, sviliti e svuotati dal virtuale.

Piccolo inciso: il fatto che nessuno abbia dichiarata la fine definitiva dei corsi tradizionali e che la modalità della didattica a distanza sia una soluzione contingente dettata da un’emergenza non è un argomento considerato. Così come non lo è il fatto che se, fino a prova contraria, siamo esposti a una pandemia, può tornare utile ridurre le occasioni di contagio e la sospensione delle lezioni in aula risponde appunto a questa logica. Ma questo non è rilevante perché, si sa, la filosofia non ama il buonsenso. Contro un potere sempre più supino alle ragioni di scienziati e medici bisogna invece opporsi con ogni mezzo, i docenti chiamati oggi a dover fare lezione online sono nella stessa condizione dei professori che nel 1931 giurarono fedeltà al Duce. 

Alfabeto: farmaco avvelenato

Nel suo “Requiem per gli studenti” Agamben avverte: “I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono”. Il pericolo è la “barbarie tecnologica” della società dell’informazione, sono le Ict che sottraggono presenza alla località, è la possibilità di far sparire la comunità fisica di docenti e studenti e, prima ancora, dei soli studenti. “Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato”.

Prima delle tecnologie digitali è tuttavia stata un’altra tecnologia a inaugurare la possibilità di un distanziamento radicale tra maestri e allievi. Anzi ha permesso la nascita di una comunità di allievi pressoché infinita dislocata nello spazio e nel tempo. Mi riferisco alla scrittura.

Un po’ come fa Agamben oggi, a dire il vero con un po’ più di moderazione, Platone non prende bene questa innovazione tecnologica e come è noto nel “Mito di Theuth” raccolto nel Fedro ne tratteggia una critica esemplare. “Questa scienza della scrittura, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria poiché questa scoperta è un rimedio (pharmakon) per la sapienza e la memoria”. Platone usa un termine assai significativo, pharmakon, che vuol dire sia medicina sia veleno. Quando la medicina viene somministrata a chi non è malato può infatti finire con l’essere dannosa. Nonostante le belle promesse, il re Egizio Thamus è cautamente scettico. “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di nuove arti, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso la scrittura che hai creato, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché essa ingenererà dimenticanza nelle menti di chi la imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso supporti estranei; dunque tu hai trovato non il farmaco per la memoria, ma solo un richiamare alla memoria”.

Ma eccoci al passaggio più interessante per il nostro discorso. Nel criticare la scrittura, Platone mette in bocca al re un argomento che ne denuncia anche un'altra deriva. “Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza averne avuto insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, ma per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che di conoscenze”. La scrittura consente agli allievi di avere notizie di cose di cui non hanno realmente conoscenza perché mai ascoltate dalla viva voce del maestro, lette magari in solitudine in un altrove senza insegnamento. “Questo pharmakon non è forse un regalo avvelenato?” si domanderà Jacques Derrida ne “La farmacia di Platone”.

Gutenberg e la nascita del maestro silenzioso

Ma più dell’invenzione della scrittura, ad aver avuto un effetto deflagrante nella storia delle relazioni tra maestri e allievi è stata la stampa. In un saggio magnifico su “Le rivoluzioni del libro” pubblicato quasi quarant'anni fa, Elisabeth Eisenstein illustra l’intreccio inestricabile che unisce l’invenzione di Gutenberg e tutto quello che siamo abituati a chiamare modernità. Se tra Seicento e Settecento si cominciò a guardare con altri occhi la vastità della natura e l’immensità dei cieli, se alle vecchie tradizioni delle singole scuole di pensiero si avvicendarono studiosi finalmente desiderosi di misurarsi con esse, verificarle e addirittura guardare in avanti, non lo si deve a un nuovo atteggiamento mentale che magicamente fece il suo ingresso nell’Europa del ‘500, ma al fatto che un orafo tedesco verso la metà del ‘400 trova il modo di standardizzare la riproduzione di materiali scritti.

Se si passò “dai libri alla natura” è perché sempre più pezzi di natura poterono essere fatti entrare nei libri in modo uniforme, fu perché immagini identiche accompagnate da descrizioni altrettanto identiche poterono cominciare a fare il giro del mondo permettendo ad astronomi, botanici, medici, zoologi, geografi, a ogni studioso, di estendere come mai si era potuto nemmeno soltanto immaginare il patrimonio di dati disponibili. Fino all’invenzione della stampa, tanto per fare un esempio, la produzione di più copie di una mappa non comportava un miglioramento ma una corruzione di dati, tutte le nuove informazioni subivano distorsioni a ogni copiatura, così come accadeva per numeri, cifre, nomi e parole. Se l’incertezza su quale stella, pianta o organo umano erano designati su un trattato tormentò gli studiosi per tutta l’età degli amanuensi, la consapevolezza di distorsioni, errori e incongruenze nei testi ereditati dai maestri poté nascere solo nel momento in cui si concretizzò la possibilità per gli stessi occhi di passare in rassegna più testi in una volta sola. Le conquiste immaginative di Copernico, Galileo e Newton partono anche da qui.

La tecnologia tipografica produce effetti su vasta scala ma anche su scale più piccole: da un lato accompagna e provoca in senso quasi materiale la nascita della modernità, dall’altro stimola l’allontanamento fisico degli allievi dai maestri così come tra ipotetici colleghi di corso. “Gli studenti che si servivano di testi tecnici che fungevano da maestri silenziosi erano meno propensi a sottomettersi all’autorità tradizionale e più sensibili alle tendenze innovatrici. Le giovani menti munite di edizioni aggiornate, cominciarono a superare non solo chi era più anziano di loro, ma anche la sapienza degli antichi”, osserva Eisenstein. Fu la disponibilità di un nuovo strumento di registrazione e distribuzione delle informazioni a cambiare i metodi di insegnamento, fu la comparsa di nuovi “maestri silenziosi” ad allontanare quelli parlanti. È difficile immaginare tecnologie dal potenziale più discostante di un libro.

Alla ricerca di un nuovo umanesimo

I libri distanziano, ma è evidente che al tempo stesso uniscono. “I libri sono delle lettere un po’ più consistenti inviate agli amici” ha scritto il poeta Jean Paul. Lo ricorda Peter Sloterdijk in un saggio di fuoco, “Regole per il parco umano”, in cui mette in relazione in un senso radicalmente nuovo cultura letteraria e umanesimo. Sono i libri a fondare l’humanitas in un processo di “telecomunicazione che istituisce amicizie attraverso il medium della scrittura”. Sloterdijk paragona la tradizione alle spedizioni postali e sottolinea come gli insegnamenti dei maestri greci non avrebbero mai potuto essere spediti (per la felicità di Platone) se la filosofia greca non fosse stata codificata su rotoli di pergamena trasportabili, e se i lettori romani non fossero stati pronti a stringere amicizia con le trasmissioni a distanza dei Greci. “L’amicizia che matura nella lontananza ha bisogno di entrambe le cose: delle lettere e di quelli che le consegnano e le interpretano”. In modo funambolico Sloterdijk invita a considerare la scrittura un “ponte telecomunicativo” in funzione tra vecchi amici distanti l’uno dall’altro. “Detto con il linguaggio magico della vecchia Europa: la scrittura opera una actio in distans, con lo scopo di stanare l’amico sconosciuto e di spingerlo ad aderire al circolo degli amici”. E così che nasce la Repubblica delle Lettere che, fino alla nascita degli stati nazionali nell’800, e forse anche dopo, ha funzionato come un club dal decisivo impatto anche sul piano politico. “Gli umanizzati - ricorda Sloterdijk – non sono nient’altro che la setta degli alfabetizzati”.

È ovvio che la scrittura, poi la stampa, e ora le Ict abbiano esercitato ed esercitino effetti dirompenti non solo sullo studentato, allievi e docenti, ma abbiano un più generale impatto esistenziale sulle vite di tutti noi e sul nostro modo di intendere e conoscere la realtà. Ed è altresì ovvio che lo scollamento tra localizzazione e presenza introdotto dalla scrittura sia qualcosa di diverso da quello inaugurato dal libro stampato o da quello oggi così massicciamente introdotto dalle piattaforme digitali. Le lezioni online cambiano i concetti di presenza e di località in modo forse ancora più radicale di quanto abbiano fatto il “maestro silenzioso” inventato da Gutenberg nel ‘400 o il “farmaco avvelenato” di Platone. Non so cosa riserverà il futuro, so che scrittura e libri hanno sì separato comunità altrimenti ineluttabilmente unite, ma hanno anche reinventato il modo di stare assieme. Non solo, la tecnologia alfabetica e tipografica hanno posto le premesse per la nascita di quel che intendiamo per umanesimo. Sarà lo stesso per le tecnologie digitali? Nessuno può dirlo. Certo è che se proprio uno dovesse scommettere sul futuro delle universitates, tra Meet e Agamben forse punterei su Meet.

 


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