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Abbiamo diritto alla pace

Il diritto internazionale umanitario nei conflitti armati nasce ufficialmente nel 1864. Il giurista Lorenzo Gagliardi sostiene che la scienza giuridica è una disciplina che elabora il diritto in modo tale che l’interpretazione delle norme sia compiuta attraverso procedure logiche verificabili in ogni passaggio. Tutt'oggi, però, nessuna scienza sfugge a questa definizione più di quella del diritto umanitario.

In copertina: Minerva protegge la Pace da Marte, Rubens (1629). Crediti: Wikimedia Commons

Tempo di lettura: 11 mins

Il 20 luglio 2023, il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha pubblicato il documento Una nuova agenda per la pace, che sollecitava gli Stati membri a lavorare per «Raggiungere l’universalità dei trattati che vietano le armi inumane e indiscriminate».

Vox clamantis in deserto: di lì a pochi mesi sarebbe giunta l'ennesima conferma che nel terzo millennio le guerre ancora spingono la loro crudeltà ben oltre il raggiungimento degli obiettivi militari, come hanno sempre fatto fin dal passato più remoto.

Per la nostra specie, è lungo e faticoso il percorso dalla ferinità all'umanità, anche se in tutte le epoche vi sono stati pensatori che l'hanno illuminato: Alberico Gentili, un giurista italiano divenuto regius professor di diritto civile all'Università di Oxford, già nella seconda metà del XVI secolo scriveva che «La necessità militare può rendere legale qualunque cosa. Ma l’abuso dei mezzi militari potrebbe indebolire la causa della giustizia e dare all’avversario ragione per muovere a sua volta una guerra giusta. Quindi, non violare le donne del nemico e non provocare offese contro la giustizia naturale» e due secoli dopo, ne Le contrat social (Einaudi Tascabili, Torino, 1994), Jean-Jacques Rousseau, asseriva: «...Gli uomini sono nemici solo accidentalmente ... come soldati ... appena questi posano le armi e si arrendono, cessano di essere nemici o strumenti del nemico e ritornano a essere semplicemente uomini, la cui vita nessuno ha il diritto di prendere».

Gli uomini non sono nemici

Il diritto internazionale umanitario nei conflitti armati, basato sui due principi della tutela dei non belligeranti e del divieto di causare sofferenze inutili, nasce ufficialmente il 22 agosto 1864, data della prima Convenzione di Ginevra che sanciva l’obbligo di soccorrere i feriti e i malati e l’inviolabilità dell'apparato sanitario.

Nelle successive Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907, emanazioni delle Conferenze per la pace promosse dallo zar Nicola II, gli Stati membri rividero «Le leggi e gli usi generali della guerra... per tracciare certi limiti destinati a restringerne, per quanto è possibile, i rigori» e costituirono una Corte permanente di arbitrato, organismo tuttora esistente cui aderiscono 121 Stati, con sede nel Palazzo della pace dell'Aja, che ospita anche la Corte internazionale di giustizia e l'Accademia del diritto internazionale.

Le regole della guerra

La Convenzione del 1907 era molto avanzata sul trattamento dei prigionieri di guerra («... Saranno trattati per il nutrimento, l’alloggio e il vestiario, come le truppe del Governo che li avrà catturati...») e sull'uso delle armi: «I belligeranti non hanno un diritto illimitato nella scelta dei mezzi per nuocere al nemico...  È segnatamente vietato: usare veleni o armi avvelenate; uccidere o ferire a tradimento individui appartenenti alla nazione o all’esercito nemici; uccidere o ferire un nemico il quale, avendo deposto le armi, oppure non avendo più i mezzi per difendersi, si è arreso a discrezione; dichiarare che non si darà quartiere; adoperare armi, proiettili, o materiale atti a cagionare mali superflui... È vietato attaccare o bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi... Negli assedi e bombardamenti devono essere prese tutte le misure necessarie per risparmiare, per quanto è possibile, gli edifici consacrati al culto, alle arti, alle scienze, alla beneficenza, i monumenti storici, gli ospedali e i luoghi dove sono raccolti malati e feriti, a condizione che essi non siano contemporaneamente adoperati per scopi militari... Un territorio è considerato occupato quando si trovi posto di fatto sotto l’autorità dell’esercito nemico, il quale prenderà tutte le misure che dipendano da lui per ristabilire e assicurare, per quanto è possibile, l’ordine pubblico e la vita pubblica, rispettando, salvo impedimento assoluto, le leggi vigenti nel paese... Nessuna pena collettiva, pecuniaria o altra, potrà essere disposta contro un’intera popolazione a cagione di fatti individuali di cui essa non possa essere considerata come responsabile in solido». 

In seguito, il diritto internazionale umanitario si è sviluppato, incalzato e preceduto dai misfatti cui si opponeva, con nuove e più complete convenzioni che allargavano i confini di competenza: la Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868 proibì l’uso di certi proiettili; dopo la Prima guerra mondiale, il Protocollo di Ginevra del 1925 vietò l'impiego in guerra di gas asfissianti, tossici o similari e di mezzi batteriologici (YPRES) e la Convenzione di Ginevra del 1929 regolò il trattamento dei prigionieri di guerra.

I limiti tracciati furono oltrepassati dalla Seconda guerra mondiale, delle quali sono noti gli orrori; per emendarli ed evitare il loro ripetersi, nel 1949 furono stipulate le quattro Convenzioni di Ginevra delle quali oggi è parte la quasi totalità degli Stati. Le prime due impegnano la parte belligerante nelle cui mani si trovino malati, feriti, naufraghi, personale medico, ambulanze e ospedali a garantire loro protezione, cure e assistenza; la terza disciplina il trattamento dei prigionieri di guerra; la quarta protegge da atti di violenza e dall’arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato.

Tutte, però, fanno riferimento solo ai conflitti armati tra due o più Stati (internazionali). Negli anni a seguire, soprattutto in seguito alla decolonizzazione, il prevalere dei conflitti armati non internazionali bensì interni a uno Stato, tra le sue forze armate e gruppi armati dissidenti organizzati ha reso necessaria la formulazione di due Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra, varati il 10 giugno 1977, che specificano i principi di protezione delle vittime nei due casi. Un terzo protocollo, del 2005, si è limitato ad aggiungere un nuovo segno distintivo, il Cristallo Rosso, alla Croce e alla Mezzaluna rosse, per segnalare persone e oggetti che devono essere particolarmente protetti.

Le norme addizionali, però, non hanno avuto la near-universal acceptance di quelle del 1949. Gli Stati Uniti, per esempio, non hanno mai aderito né al primo, né tantomeno al secondo protocollo, che avrebbe potuto avallare l'interferenza, nei conflitti interni a Stati alleati, di potenze anti occidentali, che rifornivano i guerriglieri di Kalašnikov AK-47 e Type 56.

I 28 articoli del Protocollo II, relativo ai conflitti armati non internazionali, sono accessibili qui. Le garanzie fondamentali sono prescritte dall'articolo 4: «Tutte le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità, siano esse private o no della libertà, hanno diritto al rispetto della persona, dell'onore, delle convenzioni e delle pratiche religiose. Esse saranno trattate in ogni circostanza con umanità e senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole. È vietato ordinare che non ci siano sopravvissuti». In particolare, sono sempre proibiti i trattamenti umilianti e degradanti, lo stupro, la prostituzione forzata, le violenze contro la vita, la salute fisica e psichica (tortura, mutilazioni e ogni genere di pene corporali), le punizioni collettive e la cattura di ostaggi.

Il secondo Protocollo completa l’articolo 3, comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che è l’unico applicabile anche nei conflitti armati non internazionali. Nel diritto internazionale umanitario, i conflitti interni a uno Stato prevedono corpus di norme applicabili molto ridotte d'ampiezza rispetto a quella accordata ai conflitti armati internazionali (fra due o più Stati): in questi ultimi, i belligeranti sono considerati sempre legittimi combattenti e, in quanto tali, non sono punibili per gli atti di belligeranza compiuti e se catturati sono considerati prigionieri di guerra; i combattenti interni, invece, sono assoggettabili alla potestà punitiva dello Stato.

Risparmiare i civili

L’art. 3, comma 1 prevede che «(...) Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole basata sulla razza, il colore, la religione o la credenza, il sesso, la nascita, il censo, o altro criterio analogo (...)» e che, nei loro confronti, sono vietate: «Le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture, i supplizi; la cattura di ostaggi; gli oltraggi alla dignità personale (...)». Per far accettare l’articolo dagli Stati fu inevitabile l'inserimento del comma 4 («L’applicazione delle disposizioni che precedono non avrà effetto sullo statuto giuridico delle Parti in conflitto»), che precisa che il fine delle Convenzioni è esclusivamente umanitario e garantisce ai Governi legittimi il diritto alla repressione delle ribellioni, considerate un crimine nei confronti dello Stato e perciò perseguibili: i ribelli non hanno il diritto di essere trattati come prigionieri di guerra e potranno essere processati e perfino condannati alla pena capitale, se le leggi dello Stato lo prevedono.

Il secondo Protocollo Aggiuntivo del 1977, composto da 28 articoli, accessibili qui, rappresenta un notevole passo in avanti rispetto all’art. 3, delle quattro Convenzioni di Ginevra: si applica esplicitamente «A tutti i conflitti armati che... si svolgono sul territorio di un’alta Parte contraente fra le sue forze armate e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del suo territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate..», ma non si applica «Alle situazioni di tensioni interne, di disordini interni, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi, che non sono considerati come conflitti armati». Il protocollo conferma che gli insorti non sono legittimi combattenti e che possono essere puniti dal governo legittimo per gli atti compiuti; non esclude la pena capitale, ma vieta di comminarla a minorenni, donne incinte e madri di fanciulli in tenera età (art. 6, comma 4).

Le garanzie fondamentali sono prescritte dall'articolo 4: «Tutte le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità, siano esse private o no della libertà, hanno diritto al rispetto della persona, dell'onore, delle convenzioni e delle pratiche religiose. Esse saranno trattate in ogni circostanza con umanità e senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole. È vietato ordinare che non ci siano sopravvissuti». L’art. 13 afferma che: «La popolazione civile e le persone civili godranno di una protezione generale contro i pericoli derivanti da operazioni militari»: non potranno essere presi come bersaglio, anche se rimangono lecite le azioni dirette contro obiettivi militari che colpiscano accidentalmente anche la popolazione. Sono sempre proibiti i trattamenti umilianti e degradanti, lo stupro, la prostituzione forzata, le violenze contro la vita, la salute fisica e psichica (tortura, mutilazioni e ogni genere di pene corporali), le punizioni collettive e la cattura di ostaggi.

La popolazione civile deve essere tutelata dalla carestia («È vietato, come metodo di guerra, far soffrire la fame alle persone civili. Di conseguenza, è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso, con tale scopo, beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e le riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione», art. 14) o dai trasferimenti forzati («Se un tale trasferimento dovesse essere effettuato, saranno prese tutte le misure possibili affinché la popolazione civile sia accolta in condizioni soddisfacenti di alloggio, di salubrità, d'igiene, di sicurezza e di alimentazione», art. 17). Sono oggetto di protezione anche il patrimonio artistico e culturale (art. 16) e le installazioni che racchiudano forze pericolose per la popolazione civile, come dighe e centrali nucleari per la produzione di energia elettrica (art. 15).

I limiti del diritto

Il giurista Lorenzo Gagliardi sostiene che la scienza giuridica è una disciplina che elabora il diritto in modo tale che l’interpretazione delle norme sia compiuta attraverso procedure logiche verificabili in ogni passaggio. Nessun suo ramo, però, sfugge a questa definizione più del diritto umanitario: nell'ambito di uno specifico interesse per la salute umana, chi scrive ne ha avuto un'ennesima prova leggendo le diverse posizioni di un dibattito ospitato, un paio di settimane fa, da JAMA in risposta a un articolo di Lawrence Gostin, accademico di diritto sanitario globale e consulente OMS.

L'assenza di unanimità nella definizione di concetti quali "proporzionalità", "intenzionalità" o "uso legittimo della forza" che emerge da quel dibattito si riflette nei vincoli pattuiti entro cui i crimini possono essere perseguiti: lo Statuto di Roma, entrato in vigore nel 2002 e modificato nel 2010, che attribuisce alla Corte penale internazionale la facoltà di giudicare sulle “gravi infrazioni” alle convenzioni e ai protocolli, può agire solo se il crimine è stato commesso da un cittadino o nel territorio di uno Stato Parte (ossia che ha firmato e ratificato l'accordo) oppure se il compito le è stato deferito dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Stati Uniti, Israele e Russia hanno firmato, ma non ratificato, lo Statuto della Corte penale internazionale; Cina e Iraq non l'hanno nemmeno firmato. La mera firma, se è soggetta a ratifica, non vincola uno Stato: esprime solo una generica volontà di continuare il processo di elaborazione del trattato. Nel 1651, Thomas Hobbes scriveva che per uscire dalla libertà selvaggia dello «stato di natura» che può degenerare in un bellum omnium contra omnes, gli uomini devono accettare di sottomettersi al potere sovrano dello Stato, il grande Leviatano, Dio mortale cui viene conferito il monopolio della forza; poiché senza spade i patti volontari tra le persone non sono altro che parole (covenants, without sword, are but words), ciò che conta è la capacità dello Stato di costringere le persone a rispettare le sue leggi (Hobbes T. Il Leviatano. Bompiani: Milano, 2001).

Il diritto penale è lo strumento più costrittivo che lo Stato democratico può legittimamente adoperare in tempo di pace, usando la spada insieme alla bilancia: la forza delle ragioni, pesate sulla bilancia, ma anche le ragioni della violenza istituzionalizzata. Nella giustizia internazionale - scrive il giurista accademico Domenico Pulitanò - l’effettiva possibilità del diritto di usare la spada dipende dai rapporti di forza, il cui monopolio è nelle mani degli Stati e, talvolta, nelle mani degli stessi autori dei crimini contro l’umanità, detentori delle armi di distruzione. Con questi limiti, la giustizia penale internazionale corre il rischio di rappresentare, insieme, «universalismo inefficace» ed «effettività imperialista» (nessuno Stato vincitore ha finora accettato di far processare i suoi militari in un Tribunale internazionale). Il bisogno vitale del diritto umanitario in tempo di guerra si scontra contro l'irrisolto nodo dello Stato che, ergendosi a baluardo di una cultura storica, etnica o religiosa, altri non è che il Leviatano che, non volendo rinunciare alla propria sovranità, si oppone alle istituzioni internazionali.

Per far rispettare il diritto umanitario occorre dunque una limitazione della sovranità esterna, ma anche della sovranità interna: ai singoli cittadini, quando appartenenti a minoranze di qualsiasi natura, devono essere riconosciuti diritti che valgano davanti al loro stesso Stato.

 

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