fbpx La ricerca italiana non sta tanto male nel mondo | Scienza in rete

La ricerca italiana non sta tanto male nel mondo

Read time: 5 mins

Col suo recente rapporto Knowledge, networks and nations. Global scientific collaboration in the 21st  century, la Royal Society di Londra ci mostra quanto sia cambiato il “modo di lavorare degli scienziati” negli ultimi anni e quanto sia spiccato il processo di internazionalizzazione della loro attività. È un rapporto che riguarda, letteralmente, il mondo della ricerca e la sua recente evoluzione. Caratterizzata, come abbiamo già avuto modo di ricordare, da una crescita enorme di risorse umane e finanziarie; da uno sviluppo della ricerca in paesi a economia emergente soprattutto (ma non solo) in Asia; da un forte processo di integrazione, con netto incremento delle ricerche condotte da team internazionali.  

Ma il rapporto dell’antica società inglese non ci parla solo del mondo. Ci parla anche dell’Italia. Dell’Italia nel mondo. Ci offre, in altre parole, un’analisi comparata del sistema di ricerca del nostro rispetto a quello di altri paesi. Tanto più preziosa perché elaborata da un team di esperti internazionali che hanno lavorato con dati omogenei. Insomma, l’analisi è credibile. Molto più di tante altre proposte nel nostro paese e ideologicamente orientate.

E cosa ci dice? Beh, che l’Italia, almeno in termini quantitativi, ha retto bene al processo di rapida globalizzazione della ricerca. Meglio di tanti altri paesi. Prendiamo, per esempio, la produttività scientifica. In pochi anni, dal 2002 al 2007, il numero annuo di articoli scientifici con peer review nel mondo è aumentato del 50% (da 1,09 milioni a 1,58 milioni), grazie al lavoro di un numero accresciuto di scienziati (tra il 2002 e il 2007 i ricercatori “full time” nel mondo sono aumentati del 25%, passando da 5,7 a 7,1 milioni). La crescita dei ricercatori è avvenuta soprattutto nei paesi a economia emergente. Cosicché molti paesi di antica tradizione scientifica hanno perduto peso relativo.

Gli articoli scientifici firmati da scienziati degli Stati Uniti, per esempio, sono scesi dal 26% del periodo 1999-2003 al 21% nel periodo 2004-2008 del totale mondiale, con una perdita secca di 5 punti malgrado siano aumentati in termini assoluti (da 280.000 a 330.000). Allo stesso modo, gli articolo di scienziati giapponesi sono scesi dall’8% al 6% del totale mondiale.

Ebbene, il peso relativo degli articoli “italiani” in questo periodo (esteso fino al 1996) è rimasto costante, intorno al 3,5% del totale mondiale. Il che significa, nota la Royal Society, che i ricercatori italiani nei dodici anni compresi tra il 1996 e il 2008 hanno aumentato del 32% il numero assoluto di articoli prodotti. Nessuno, tra i ricercatori dei paesi del G8, ha fatto meglio.

Non è un giudizio qualitativo. In questi dodici anni la produzione italiana è aumentata al ritmo del 4% annuo: il maggiore tra tutti i paesi del G8. Hanno fatto meno bene i canadesi, i francesi, gli inglesi e i tedeschi (produzione aumentata intorno al 3% annuo) e molto peggio americani, giapponesi e russi (produzione aumentata a un ritmo inferiore all’1% annuo). L’aumento di produttività degli italiani non è spiegabile con un aumento delle risorse.  Infatti le risorse economiche sono aumentate di appena l’1,5% annuo. Tanto quanto in Germania e meno che in Giappone e Canada (aumento medio di quasi il 2% annuo).

Dunque l’aumento della produzione è dovuto a un aumento della produttività: nel 2008 gli italiani hanno molto di più che nel 1996, a parità di risorse. In nessun paese del G8 c’è stato un simile aumento di produttività. Il dato è tanto più significativo se si tiene conto che nello stesso periodo la produttività generale del lavoro, in Italia, è fortemente diminuita nel rapporto con gli altri paesi del G8. I ricercatori italiani sono andati in controtendenza.

Si è anche detto che il mondo della ricerca e dell’università (dove si svolge una quota parte importante della ricerca) è autoreferenziale. Non ha un tasso elevato di internazionalizzazione.

Se questo è vero non è colpa di chi fa ricerca. Gli scienziati italiani hanno tenuto il passo nel processo massivo di internazionalizzazione del lavoro di ricerca. Nel 1996 solo il 27% dei lavori scientifici firmati da un italiano avevano almeno un partner straniero. Nel 2008 la percentuale è salita al 40%. È vero che si tratta di una quota inferiore a quella di francesi e tedeschi (intorno al 47-48%) o di canadesi e inglesi (intorno al 44-45%). Ma è anche vero che il tasso di internazionalizzazione della ricerca italiana è aumentato di 13 punti in 12 anni, in linea con l’aumento dei quattro paesi citati. E che, anche in termini assoluti, è superiore al tasso in internazionalizzazione di Russia (35%), Stati Uniti (30%) e Giappone (25%).

Tutto questo significa che l’integrazione degli italiani nella comunità scientifica internazionale è molto alta. Anzi, è tra le più alte al mondo e in fase di espansione. Il dato è corroborato dal fatto che i giovani italiani laureati in materie scientifiche tendono ad andare all’estero e ad acquisire esperienza internazionale come e più dei loro colleghi europei.

Se, dunque, l’internazionalizzazione delle università italiane risulta insoddisfacente la colpa non è né di ricercatori autoreferenziali né di studenti pigri. Semmai la colpa è da ricercarsi in quella congerie di impedimenti (non ultima una burocrazia con vistose tracce di ideologizzazione) che impedisce ai ricercatori stranieri e agli studenti stranieri di venire in Italia.

Tutto bene, dunque, per il sistema scientifico italiano? No. Anche i dati della Royal Society ci dicono che c’è qualcosa che non va. Prendiamo, per esempio, le richieste di brevetto presso il Patent Office degli Stati Uniti. Nel 1989 sono state circa 1.297, pari al 2,86% del totale. Il che ci collocava al settimo posto nella classifica per paesi. Dieci anni dopo, nel 1999, le richieste di brevetti sono leggermente aumentate (oltre 1.491), ma il peso relativo è sceso al 2,14% e nella classifica per paesi risultavamo ottavi. Nel 2009 le richieste di brevetto sono diminuite in termini assoluti (sono state 1.346), oltre che relativi (1,58% del totale). E l’Italia è scivolata all’undicesimo posto nella classifica per paesi.

Il dato indica la vera difficoltà italiana. La nostra ricerca è piccola, ma molto produttiva. Regge degnamente il confronto internazionale. Ma non riesce a trasformarsi, come avviene in altri paesi, in leva per lo sviluppo economico. È  sempre più distante dal sistema produttivo. E non per colpa dei ricercatori.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La scoperta di un nuovo legame chimico

Un gruppo di ricercatori dell'Università di Hokkaido ha fornito la prima prova sperimentale dell'esistenza di un nuovo tipo di legame chimico: il legame covalente a singolo elettrone, teorizzato da Linus Pauling nel 1931 ma mai verificato fino ad ora. Utilizzando derivati dell’esafeniletano (HPE), gli scienziati sono riusciti a stabilizzare questo legame insolito tra due atomi di carbonio e a studiarlo con tecniche spettroscopiche e di diffrattometria a raggi X. È una scoperta che apre nuove prospettive nella comprensione della chimica dei legami e potrebbe portare allo sviluppo di nuovi materiali con applicazioni innovative.

Nell'immagine di copertina: studio del legame sigma con diffrattometria a raggi X. Crediti: Yusuke Ishigaki

Dopo quasi un anno di revisione, lo scorso 25 settembre è stato pubblicato su Nature uno studio che sta facendo molto parlare di sé, soprattutto fra i chimici. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Hokkaido ha infatti sintetizzato una molecola che ha dimostrato sperimentalmente l’esistenza di un nuovo tipo di legame chimico, qualcosa che non capita così spesso.