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Insegnare la salute: un'arma in più contro le epidemie

L’emergenza coronavirus ha messo in risalto il rischio di uno scollamento tra cittadini, decisori pubblici e saperi esperti. Il nostro paese non può più permettersi questo stato di cose. È ora di intraprendere iniziative mirate per ricomporre questa frattura. Introdurre l’insegnamento delle scienze della salute nelle scuole superiori è un primo passo necessario in questa direzione 
Crediti immagine: Виктория Кабанова/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Tempo di lettura: 5 mins

In questi giorni la nostra attenzione è stata assorbita interamente dal flusso incessante di notizie sulla diffusione di SARS-CoV-2, dapprima nel lodigiano e poi nel resto d’Italia. Nel seguire i bollettini in costante aggiornamento e l’evoluzione delle misure che di fatto isolavano intere comunità per poi estendersi al resto del paese, molti, me compreso, hanno avvertito la mancanza di una maggiore capacità di coordinamento tra decisori pubblici, esperti e cittadini. Questi tre gruppi di attori sociali parlano inevitabilmente lingue diverse, ma devono potersi comprendere a vicenda affinché la risposta nel caso di emergenze come quella attuale sia più efficace possibile.

Reazioni e decisioni

Molti cittadini comuni hanno interpretato le misure di contenimento come inequivocabili segnali di allarme, e hanno reagito di conseguenza. Chi attenendosi scrupolosamente alle limitazioni imposte, chi cercando di sfuggirvi allontanandosi senza validi motivi dalla propria abitazione. Viste le circostanze, il panico non ci deve sorprendere. Si tratta a mio avviso in larga parte di un problema di abitudine. Abitudine a districarsi in situazioni così eccezionalmente gravi e complesse sulla base della migliore conoscenza disponibile. Abitudine a distinguere tra fonti più attendibili (gli esperti, le autorità sanitarie) e fonti meno attendibili (un post su Facebook, che a volte però può rivelarsi anche più autorevole di molti articoli di giornali, il vicino di casa, una zia, se stessi). Abitudine a fidarsi di chi, sulla base di solide evidenze scientifiche, fornisce consigli sensati – e proporzionati – su come gestire i rischi che ci circondano. Abitudine a fare la propria parte per proteggere sé stessi e gli altri.

La politica all’inizio ha faticato a rispondere adeguatamente. Scoppiata l’emergenza, nel giro di poche ore abbiamo assistito al conflitto tra autorità centrali (Governo e Ministero della Salute) e autorità locali (Regioni e sindaci) su chi avesse diritto di decidere in merito alle misure di screening e contenimento. Certo, in democrazia la politica è fatta anche di questo tipo di tensioni tra istituzioni (e tra partiti). Tuttavia, questo stato di cose ha avuto ripercussioni pratiche, ad esempio nel non favorire una strategia uniforme in merito ai tamponi, il che ha reso i dati clinici ed epidemiologici di più difficile interpretazione. Fornire tale interpretazione è compito degli scienziati, degli esperti e dei tecnici che a loro volta suggeriscono al decisore gli interventi più adatti.

Certo, il decisore non può presentarsi davanti ai cittadini dicendo: mi affido interamente al parere della scienza. Anche perché in situazioni come quella attuale la scienza stessa è alle prese con numerose incertezze e interrogativi al momento privi di risposta. In una democrazia, la responsabilità delle decisioni deve restare politica. I cittadini chiedono istintivamente conto ai politici, ma tendono anche giustificatamente a riempire i vuoti di comunicazione istituzionali dando retta ad altre fonti, talvolta ottime, talaltra fantasiose. E tuttavia, i cittadini, attraverso i loro rappresentati e i corpi intermedi nei quali spesso sono coinvolti, possono chiedere conto almeno agli scienziati che operano all’interno di istituzioni di raccordo tra scienza e politica come l’Istituto Superiore di Sanità, o i comitati tecnici dei ministeri e delle amministrazioni locali. Possono cioè pretendere di sapere cosa la scienza suggerisce alla politica e perché. Affinché la cosa funzioni, bisogna innanzi tutto che i cittadini – compresi quelli che rivestono cariche pubbliche – sappiano che tali istituzioni esistono (a livello locale, nazionale e sopranazionale), e che si fidino di esse perché comprendono in che modo si formano le prove scientifiche, e come vadano utilizzate per il bene di tutti.

Ma come facciamo ad accrescere questo tipo di consapevolezza? Che strumenti possiamo mettere in campo?

Una semplice proposta: insegnare la salute

E qui veniamo alla questione fondamentale. Cittadini, politici ed esperti hanno ruoli diversi ma devono avere la possibilità di parlare una lingua comune. Il mio suggerimento è di introdurre come minimo nel triennio finale della scuola superiore l’insegnamento di una nuova materia, che chiamerei: scienze della salute. Che non coincide con l’insegnamento della biologia, ma per molti aspetti va oltre integrandola con nozioni di sanità pubblica, salute, prevenzione, epidemiologia, etica della salute, rapporto ambiente/salute, e altro ancora.

L’emergenza Covid-19 ha messo in luce quanto sia deprecabile l’assenza di un minimo di cognizione condivisa sui determinanti fondamentali della salute umana, su cosa sia la salute pubblica, su chi ne abbia la responsabilità, e sul ruolo che ognuno di noi può e in molti casi deve avere in prima persona per proteggere e promuovere la salute, sia la propria che quella altrui. L’insegnamento delle scienze della salute, che rappresenta un ambito per forza di cose interdisciplinare, potrebbe offrire un grosso aiuto per colmare queste lacune. Una popolazione più consapevole di cosa significhi salute pubblica avrebbe titolo ad essere coinvolta direttamente nella preparazione dei piani di prevenzione e contenimento delle epidemie future; sarebbe più pronta a mettere in atto tali piani; e potrebbe infine più efficacemente vigilare contro quelle decisioni politiche che portano all’indebolimento del sistema sanitario e dunque del diritto fondamentale alla salute. Le scienze della salute possono inoltre coprire temi da cui dipendono il benessere e il futuro della nostra comunità, come la salute sessuale e riproduttiva, le scelte alimentari e la salute mentale.

Si tratta di una semplice proposta che andrà sostanziata a livello scolastico da chi ha le competenze per inserirla in un quadro che non appesantisca inutilmente il già lungo curriculum delle materie di insegnamento. Potrebbe, per esempio, costituire in parte un allargamento del sillabo dell’insegnamento di biologia, dall’altra far parte di una proposta integrativa extra curriculare. Forse, prima ancora che gli studenti, tale proposta dovrebbe essere elemento di discussione e formazione dei docenti, perché questi contenuti vengano prima di tutto assorbiti da loro e solo in un secondo tempo trasmessi anche in modo più informale e trasversale dagli insegnanti delle diverse discipline (anche storia, geografia, letteratura, filosofia, potrebbero avvantaggiarsene).

Questa epidemia ha messo in luce alcune pericolose vulnerabilità che affliggono la nostra comunità e che si manifestano nei termini di un possibile corto-circuito tra decisione pubblica, conoscenza scientifica e cittadinanza. Ma l’epidemia passerà prima o poi. Quelle vulnerabilità invece, se non ce ne occupiamo, resteranno dove sono. Cogliamo allora questa occasione infausta e cerchiamo di uscirne più pronti e più forti di come ci siamo fatti trovare. Insegnare la salute serve a questo. Spero che in molti vorranno sottoscrivere questo appello.

 


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