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Piante transgeniche: fabbriche verdi per la salute umana

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“Imagine a world in which any protein, either naturally occurring or designed by man, could be produced safely, inexpensively and in almost unlimited quantities using only simple nutrients, water and sunlight. This could one day become reality as we learn to harness the power of plants for the production of recombinant proteins on an agricultural scale.”

Julian K-C. Ma, Pascal M. W. Drake & Paul Christou (2003) Nature Reviews Genetics 4, 794-805

Le terapie a base di proteine sono aumentate notevolmente in numero e frequenza di utilizzo dopo l'introduzione della prima proteina terapeutica ricombinante l'insulina umana, trentotto anni fa.
Vaccini, anticorpi, ormoni, enzimi, proteine del sangue e altre biomolecole d’interesse farmacologico venivano un tempo estratti da cadaveri o isolate da animali e microrganismi; questo processo comportava un alto rischio di contaminazione del farmaco da parte di virus o batteri che infettavano i tessuti dell’animale da cui era estratto. In seguito si è iniziato a produrre queste molecole in organismi geneticamente modificati, trasferendo cioè il gene che codifica per la proteina di interesse in cellule procariotiche (batteri) o eucariotiche (lieviti, cellule di insetto o di mammifero) in coltura. Le cellule sono coltivate in un terreno appropriato in modo che esprimano e accumulino la proteina che è poi estratta e purificata. Il primo farmaco ricombinante derivato da un organismo geneticamente modificato è stato l’insulina umana.
Dal 1922 l’ormone era estratto dal pancreas di maiale ma nel 1977, con l’avvento delle tecniche di DNA ricombinante, il batterio Escherichia coli è stato ingegnerizzato per produrre l’insulina umana. Il secondo farmaco ricombinante è stato il vaccino contro l’epatite B (sempre prodotto nel batterio E. coli), con i quali tutti i bambini italiani sono vaccinati nei primi mesi di vita.
La ricerca di nuove strategie per la produzione di proteine ​​ricombinanti per uso terapeutico sta acquisendo sempre maggiore importanza: un aumento della resa e dell’efficienza di produzione ha come conseguenza un abbattimento dei costi del prodotto finale al quale possono quindi accedere un maggior numero di persone. Se pensiamo per esempio a un vaccino contro la malaria o contro l’AIDS o la tubercolosi, malattie endemiche nei paesi in via di sviluppo, è chiaro che i costi devono poter essere sostenibili.

Le piante come bioreattori: quale vantaggio?

Da migliaia di anni le piante sono utilizzate come fonte di agenti terapeutici. L’ingegneria genetica ha aperto la possibilità di estendere la varietà di molecole d’interesse farmacologico prodotte dalle piante. Le piante possono funzionare come bioreattori per la produzione di farmaci e terapeutici ricombinanti per la salute umana, essere quindi fabbriche “verdi” in miniatura, piccole industrie farmaceutiche.
L’utilizzo delle piante come bioreattori per la produzione di molecole e proteine ricombinanti d’interesse farmaceutico per la salute umana è chiamato “Plant Molecular Pharming”, che significa Agricoltura Farmaco-Molecolare ed è parte della cosiddetta “Red Biotechnology”, che raggruppa tutte le biotecnologie applicate alla farmaceutica. Il vantaggio nell’utilizzare le piante come bioreattori è di ottenere una vasta gamma di proteine d’interesse farmaceutico aventi la massima specificità e una ridotta possibilità di reazioni immunogeniche. Inoltre, poiché i patogeni delle piante non sono dannosi per noi umani, non c’è quindi nessun rischio di contaminazioni pericolose ed è quindi un sistema più sicuro rispetto alla produzione in batteri o cellule umane in coltura.
Dal momento in cui si ha disposizione prima pianta transgenica che produce per esempio un vaccino, il cosiddetto scale-up è molto facile e rapido, perché non si fa altro che seminarne quante servono, fino a coltivare interi campi: la quantità di proteina prodotta è quindi potenzialmente illimitata. Viceversa, i fermentatori batterici o a cellule di mammifero hanno delle dimensioni limitate che non permettono una produzione illimitata. I costi sono poi notevolmente ridotti rispetto un’industria tradizionale, perché per coltivare le piante servono semplicemente acqua, luce solare e qualche nutriente minerale.
Per esprimere il farmaco ricombinante, le piante sono geneticamente modificate con le tecniche d’ingegneria genetica. Il primo farmaco ricombinante prodotto in pianta è stato l’ormone della crescita umano (HGH), espresso in piante di tabacco (Nicotiana tabacum) e tessuti in coltura di girasole (A. Barta et al. Plant Molecular Biology, 1986).
La tecnica di trasformazione sfrutta un batterio, l’Agrobacterium tumefaciens, che vive normalmente nel terreno e infetta molte specie vegetali. L’agrobatterio è un ingegnere genetico naturale: quando attacca i tessuti vegetali è in grado di trasferire alcuni suoi geni nel corredo genetico della pianta stessa. Il trasferimento di questi geni fa produrre alla pianta proteine utili al batterio, in pratica fa fare alla pianta quello che vuole lui. La pianta infettata non muore, ma nelle zone d’infezione si formano dei veri e propri tumori, da qui Il nome “tumefaciens”.
Gli scienziati hanno quindi sfruttato a loro vantaggio le capacità di questo batterio, disarmandolo dei geni che inducono il tumore nella pianta, che possono essere rimpiazzati con i geni che codificano per la proteina-farmaco.
In questo modo, a seguito dell’infezione con l’agrobatterio modificato, il gene per un vaccino o un anticorpo o una bio-molecola farmaceutica (transgene) è integrato in maniera stabile nel genoma della pianta.
Questo processo si chiama transgenesi e la pianta trasformata funzionerà come un bioreattore mettendosi a produrre grandi quantità della bio-molecola d’interesse. Il farmaco è poi estratto dalla pianta, purificato e messo in pillole, preparati o formulati per essere poi venduto in farmacia.
La localizzazione e la stabilità della proteina ricombinante sono uno dei problemi fondamentali da affrontare quando si vuole produrre in un sistema eterologo. Ogni proteina ha un suo livello di sintesi e, a seconda della sua funzione può essere più o meno stabile nel comparto di destinazione, avere cioè un‘emivita molto breve oppure più lunga. L’equilibrio fra sintesi e degradazione è chiamato turnover proteico e determina i livelli di accumulo finale della proteina stessa. Se una proteina è espressa in un sistema eterologo, non è detto che il suo turnover sia lo stesso che nell’ambiente nativo e quindi i livelli di accumulo possono variare. Le membrane e i comparti intracellulari possono offrire protezione alle molecole d’interesse farmacologico.

Qual è il comparto cellulare migliore per ottenere tanto prodotto?

Tutte le cellule eucariotiche contengono diversi comparti che hanno caratteristiche differenti.

La compartimentalizzazione migliora la regolazione delle funzioni cellulari, evitando interferenze negative fra le varie reazioni biochimiche. Ogni comparto cellulare possiede il proprio corredo di proteine e ha uno specifico ambiente chimico-fisico. Le proteine sono portate al corretto comparto perché hanno specifici segnali di smistamento. La compartimentalizzazione migliora la regolazione delle funzioni cellulari, evitando interferenze negative fra le varie reazioni biochimiche. Ogni comparto cellulare possiede il proprio corredo di proteine e ha uno specifico ambiente chimico-fisico che può anche essere degradativo. Le proteine sono portate al corretto comparto perché hanno specifici segnali di smistamento chiamati “segnali di targeting”, che funzionano esattamente come gli indirizzi postali. Una proteina che non ha nessun segnale di targeting non è indirizzata in nessun comparto e rimane nel citoplasma.

A seconda del segnale di targeting che è messo sulla proteina da esprimere è possibile indirizzarla esattamente in un comparto cellulare dove possa mantenersi nella struttura corretta (nativa) e al tempo stesso non sia degradata e si accumuli in quantità elevata. In generale, al gene che codifica per la proteina si aggiunge il frammento di DNA che codifica per il segnale di targeting. La destinazione finale della proteina, e di conseguenza “l’indirizzo postale” che sarà aggiunto, dipende dalle caratteristiche della proteina stessa.
Il reticolo endoplasmatico delle cellule vegetali, per esempio non è un comparto degradativo ed è in grado di accumulare grandi quantità di proteine senza mostrare segni di sofferenza.
A seconda del segnale che aggiungiamo, la proteina può essere indirizzata o all’interno del Reticolo Endoplasmatico, o sulla sua superficie esterna.
Quest’ultima strategia, chiamata tail-anchor (àncora di coda) è stata sviluppata all’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR di Milano nell’ambito del progetto EU Pharma-Planta e utilizza un segnale di targeting ottenuto dal gene per il citocromo b5, che àncora la proteina alla membrana dal lato citoplasmatico, dove si accumulata in grandi quantità senza essere degradata. La strategia tail-anchor ha portato a una resa di tre volte superiore nella produzione di un antigene del virus HIV e del Mycobacterium bovis (agente della tubercolosi bovina) in piante di tabacco transgenico.

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Nel 2012 negli USA e in Israele, e a seguire in Brasile e in Canada (2013 e 2014) è stato approvato per uso umano dalle autorità competenti il primo farmaco ricombinante prodotto in cellule vegetali transgeniche di carota in coltura. E’ l’enzima glucocerebrosidasi (nome commerciale è Elelyso, prodotto da Protalix Biotherapeutics, Israele) che serve per trattare la malattia di Gaucher di tipo I, una malattia genetica recessiva del metabolismo lipidico.


Bioreattori a cellula di carota


Nell’estate 2014 un "cocktail" di anticorpi monoclonali prodotti in piante di tabacco infettate con un virus GM è stato somministrato in via sperimentale, negli USA, ai due medici infettati da Ebola in Liberia salvando loro la vita. Tuttavia, il farmaco, che si chiama Zmapp, è ancora in attesa di approvazione da parte dell’FDA.
La versatilità e la diversità delle specie vegetali che possono essere utilizzate come bioreattori, rispetto al numero limitato di sistemi microbici e di cellule animali, possono essere considerate un punto di forza in termini d’innovazione, ma anche uno svantaggio in termini di standardizzazione e armonizzazione normativa. Sarà quindi necessario decidere quali specie sono più promettenti e creare delle piattaforme a bioreattori vegetali secondo le Good Manufacturing Practice (GMP).
Visti i sempre più incoraggianti risultati, i farmaci ricombinanti prodotti nelle piante stanno finalmente raggiungendo un buon consenso da parte della società e il numero dei prodotti che hanno raggiunto le fasi di studio clinico sta via via aumentando. Sono moltissime le piante transgeniche che producono vaccini, anticorpi, bio-molecole che giacciono nei laboratori di ricerca e ci si augura che in un futuro potranno essere utilizzate tenendo sempre presente che per sfruttare appieno le potenzialità delle piante come bioreattori è fondamentale comprendere nei dettagli i meccanismi molecolari di base che governano l'omeostasi e l'architettura della cellula vegetale.

Emanuela Pedrazzini sarà tra i relatori Pillole di scienza. Cinque formule di sostenibilità, in programma il 3 ottobre a Expo 2015 

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