fbpx Crescono le emissioni di gas esilarante, c'è poco da ridere | Scienza in rete

Crescono le emissioni di gas esilarante, c'è poco da ridere

Primary tabs

Read time: 3 mins

Il protossido di azoto (N2O) è il terzo principale gas ad effetto serra dopo l’anidride carbonica e il metano. Oltre a trattenere il calore delle radiazioni solari, contribuendo al riscaldamento globale, danneggia la fascia di ozono che proteggere la biosfera terrestre. È anche conosciuto per i suoi effetti euforizzanti se inalato a basse concentrazioni. In passato veniva usato come blando anestetico, mentre oggi conosce nuova fama come droga a basso prezzo (un fenomeno sociale comunque irrilevante per gli equilibri dell’ecosistema).

Uno studio dell’UNEP pubblicato a novembre mette in guardia sul costante aumento delle emissioni di N2O, che potrebbero vanificare i benefici prodotti dalla messa al bando delle sostanze ozono-lesive con il Protocollo di Montreal e ostacolare il già difficile percorso per ridurre i danni dei cambiamenti climatici. 

Senza interventi di riduzione, scrive l’UNEP, i livelli di N2O aumenteranno in media dell’83% nel periodo tra il 2005 e il 2050. “Moderate” strategie di mitigazione permetterebbero di limitare l’aumento al 26%, mentre un approccio coordinato tra diversi settori ridurrebbe le emissioni del 22%.  

L’agricoltura produce circa due terzi delle emissioni totali di N2O. Il resto viene da processi industriali (soprattutto chimici), uso di combustibili fossili, incenerimento di biomassa, acque reflue, acquacoltura di pesci, crostacei e molluschi.

Nonostante venga emesso in quantità minori rispetto all’anidride carbonica, il protossido di azoto ha un potenziale di riscaldamento globale (GWP) 298 volte superiore. Il gas non è regolato dal Protocollo di Montreal, che nel 1987 stabilì il divieto di produrre e utilizzare sostanze nocive per l’ozonosfera (ODC, ozone-depleting substances) come i clorofluoricarburi. Rientra invece tra i gas ad effetto serra controllati dal Protocollo di Kyoto, a cui però aderiscono solo una minoranza di Paesi tra cui l’Unione Europea.

Il rapporto dell’UNEP ha stimato che la quantità di CFC non ancora rilasciata in atmosfera, stoccata in vecchi frigoriferi, impianti di raffreddamento, materiali isolanti tuttora in uso,  ammonta a 1550-2350 migliaia di tonnellate. Quantità che potrebbe essere compensata intervenendo sulle emissioni di N2O. Il potenziale di ridurne le emissioni nel 2020 è di circa 1.8 Tg N2O-N/yr, che corrisponde a quasi mille tonnellate di anidride carbonica (equivalente) all’anno.

Le strategie per abbattere i livelli di protossido di azoto sono state esaminate per settore: agricoltura, manifattura chimica, produzione di energia elettrica, gestione dei rifiuti, trasporti e produzione di pesce. In generale indicano la necessità di rendere più efficiente l’utilizzo e lo smaltimento della sostanza, ma includono anche ridurre la produzione e il consumo di carne, ridurre lo spreco di prodotti alimentari, installare sistemi di monitoraggio negli impianti chimici (in particolare quelli che producono acido adipico e acido nitrico, responsabili del 5% delle emissioni globali di N2O), ridurre il ricorso agli incendi per disboscare foreste, migliorare la raccolta e il trattamento delle acque reflue, riducendo la quantità di azoto disperso.

I risultati non andrebbero solo a beneficio dell’ozonosfera e del sistema climatico, ma garantirebbero anche raccolti e allevamenti più produttivi, progressi per la salute umana e riduzione del degrado ambientale. I vantaggi in termini ambientali, climatici e sociali sono stati stimati in 160 miliardi di dollari all’anno. 

Autori: 
Sezioni: 
Indice: 
Clima - Ozonosfera

prossimo articolo

Alimentazione sostenibile: imparare dalla preistoria

Dimostrazione cottura preistorica

Il progetto  Onfoods in prehistory ha voluto comprendere e ricostruire l’eredità di una agricoltura sostenibile nata nella preistoria, migliaia di anni, fa e in grado oggi di rappresentare un modello di riferimento. E lo ha fatto con particolare attenzione alla condivisione di questi valori con un pubblico più ampio possibile, sottolineando quanto si può imparare dalla ricerca archeologica e dalle comunità dell’età del Bronzo in termini di alimentazione sostenibile. Ce ne parla il gruppo di ricerca che ha portato avanti il progetto.

Nell'immagine: attività di archeologia sperimentale dimostrativa con cottura di una zuppa di lenticchie e una di roveja, con ceramiche riprodotte sperimentalmente sulla base dei reperti ceramici del villaggio dell’età del Bronzo di Via Ordiere a Solarolo (RA).

Pluridecennali ricerche sul campo, condotte da Maurizio Cattani, docente di Preistoria e Protostoria dell’Università di Bologna, e dal suo team, hanno permesso di riconoscere nell’Età del Bronzo il momento in cui si è definito un profondo legame tra la conoscenza del territorio e la sostenibilità della gestione delle sue risorse. Questa caratteristica ha infatti consentito alle comunità dell’epoca di prosperare, dando vita a villaggi sempre più stabili e duraturi nel corso del tempo.