E’ stato appena pubblicato su Science Translational Medicine un lavoro paradigmatico di due temi tra i più ricorrenti oggi nel mondo della scienza biomedica: da un lato il drug repositioning, cioè la possibilità di utilizzare farmaci già esistenti per indicazioni nuove, emerse in laboratorio; dall’altro, l’opportunità di curare condizioni molto comuni partendo dallo studio dei meccanismi alla base di malattie rare. La malattia studiata in questo caso dal gruppo di Nicola Brunetti-Pierri del TIGEM di Napoli è il deficit di piruvato deidrogenasi, un enzima essenziale per il metabolismo della cellula, in assenza del quale si accumulano nell’organismo grandi quantità di acido lattico, con gravi conseguenze soprattutto a livello del sistema nervoso centrale. «L’aggiunta di gruppi fosfato blocca la funzione dell’enzima» spiega il giovane ricercatore dell’Istituto Telethon, «che quindi nell’organismo è presente in un equilibrio tra forma attiva e inattiva».
Una piccola quantità di piruvato deidrogenasi è comunque sempre presente anche nei malati più gravi di questo deficit ereditario: la sua totale mancanza è probabilmente incompatibile con la vita. Per questo i ricercatori hanno pensato di provare a spostare l’ago della bilancia, riducendo al minimo la quantità della forma fosforilata, e quindi inattiva, e sfruttando al massimo quella esistente.
Per fare questo hanno usato un farmaco già utilizzato in altre malattie metaboliche, il fenilbutirrato, che si lega all’enzima responsabile della fosforilazione, la piruvato deidrogenato chinasi, impedendogli di agire. «Abbiamo dimostrato che l’aggiunta del farmaco aumenta l’attività dell’enzima nelle colture cellulari, ma anche in modelli animali della malattia, dai topi ai zebrafish, i quali galleggiano inerti ma, assunto il medicinale, ricominciano a nuotare» racconta Brunetti-Pierri.
La terapia non è ancora stata provata sugli esseri umani, ma il fatto che il farmaco sia già stato approvato e registrato per altre indicazioni potrebbe accelerare i tempi della sperimentazione clinica sui portatori di questa rara malattia metabolica.
«Ma non sono solo loro i possibili fruitori di questa scoperta» aggiunge il ricercatore. «L’importanza del nostro studio sta anche nel fatto che lo stesso trattamento si è dimostrato in grado di ridurre l’acidosi lattica in animali privati del fegato, in cui quindi il fenomeno non era provocato da difetti congeniti, ma da un problema acquisito».
Il dato fa quindi ben sperare che l’osservazione si possa estendere ad altre condizioni molto diffuse, per esempio l’infarto, in cui è dimostrato che l’acidosi lattica conseguente all’evento ne peggiora l’evoluzione.
