fbpx Tra regole e innovazione tecnologica: la Fastskin Revolution | Scienza in rete

Tra regole e innovazione tecnologica: la Fastskin Revolution

Primary tabs

Read time: 9 mins

Sin dai tempi degli antichi giochi olimpici gli atleti hanno cercato tutti i mezzi e gli strumenti per prevalere nelle competizioni sportive sugli altri concorrenti. Alcuni mezzi - è il caso dell’allenamento psicofisico e delle diete alimentari - sono stati sempre considerati ammissibili senza particolari limiti o controlli e quindi senza verificare se e in che misura essi potessero incidere sulla salute o sull’equilibrio mentale dell’atleta. Altri sono stati tollerati o vietati. L’individuazione degli strumenti non ammessi e dei destinatari dei divieti (per lungo tempo si è ritenuto che essi valessero solo per gli atleti professionisti) è cambiato nel corso del tempo, delle diverse competizioni, dei luoghi ove esse si svolgevano. 

Quali mezzi siano consentiti e quali siano vietati dipende poi da variabili ideologiche, culturali, etiche ed anche dalle tecnologie disponibili. È solo nel corso dell’ultimo secolo che l’affermarsi dello sport come fenomeno globale ha portato ad uniformare e progressivamente codificare le regole delle varie competizioni sportive e a fissare, per ciascuna competizione, ciò che è consentito agli atleti per migliorare le proprie performances e ciò che invece costituisce un miglioramento vietato. Tuttavia, la situazione è tutt’altro che definita e le regole sono tutt’altro che stabilizzate, per due motivi soprattutto.

Un motivo di carattere normativo. Resta impreciso il fondamento dei vari divieti, che ondeggia tra la tutela della salute dell’atleta da un lato e, dall’altro, l’interesse generale di garantire una fair competition e quindi  competizioni sportive in cui il migliore vince senza trucchi o pratiche non eticamente accettabili. 

Un secondo motivo di carattere tecnologico. Alla vittoria nelle gare più importanti (giochi olimpici o competizioni mondiali o europee) di molte specialità sportive conseguono non solo fama e notorietà, ma anche profitti economici assai consistenti, derivanti non tanto da eventuali premi previsti per il vincitore, ma dalle connesse possibilità di sfruttamento commerciale dell’immagine. I grandi campioni nel ciclismo, nel golf, nel baseball, nel tennis o nel calcio guadagnano somme enormi. E spesso la differenza tra la vittoria e la sconfitta dipende da pochi centesimi di secondo o da pochi centimetri. È quindi ben comprensibile che il miglioramento psicofisico delle prestazioni sportive sia divenuto un campo di ricerca scientifica e di innovazione tecnologica, con l’obiettivo di realizzare progressi nelle prestazioni dell’atleta che comportino vantaggi competitivi e non ricadano  nell’ambito degli strumenti vietati oppure riescano ad aggirare le regole esistenti  mettendo a punto miglioramenti che, proprio perché nuovi, non sono ancora oggetto di divieto.

In molte competizioni sportive assistiamo così da molti anni all'attuazione di una sorta del principio dell'evoluzione noto come il Red Queen Principle. L'espressione, tratta dall'episodio di "Alice nel paese delle meraviglie", quando Alice e la Red Queen corrono senza sosta e rimangono sempre allo stesso posto, indica il principio dell'evoluzione che regola il rapporto tra preda e predatore (tra leone e gazzella, per fare un esempio): ad ogni miglioramento delle prestazioni fisiche della preda corrisponde un miglioramento delle prestazioni del predatore, cosicché nessuno dei due prevale, determinando l'estinzione dell'altro. L'evoluzione mantiene il rapporto in equilibrio.
Ebbene, nelle competizioni sportive, al continuo evolversi nella ricerca e nelle modalità di uso di sostanze che migliorano le prestazioni psicofisiche corrisponde un parallelo continuo evolversi delle regole che ne valutano l’ammissibilità e dei sistemi per individuarle, nella incessante ricerca di scoprire chi non le rispetta. Un buon esempio dell’interagire di questi due profili, dell’incerto fluttuare delle regole e degli effetti dell’innovazione tecnologica nel settore sportivo è dato dalla vicenda, non del tutto ancora conclusa, dell’abbigliamento dei nuotatori, nota nel mondo dello sport come la Fastskin Revolution. La storia inizia nel 1992: ai Giochi Olimpici di Barcellona del 1992 Speedo, il produttore australiano di costumi da bagno, lancia nel mondo del nuoto agonistico  S2000 il Fastskin Swimsuit, un costume veloce aderente alla pelle (si veda in proposito Jennifer Craik, The Fastskin Revolution: From Human Fish to Swimming Androids in Culture Unbound, 2011, pagg. 71-82 qui consultabile). Si avvia così una fase di ricerche scientifiche e innovazioni tecnologica senza precedenti tra produttori di costumi da bagno, sia quelli già da tempo presenti sul mercato sia nuovi attirati dalle nuove possibilità offerte dal ribaltamento della consolidata idea che riducendo il più possibile il costume il corpo umano offriva il minor attrito possibile all’acqua.

Speedo resta il leader incontrastato del settore: ai Giochi olimpici di Atlanta del 1996 presenta il nuovo modello, denominato Aquablade  Jammer: lo indossano oltre il 75% dei vincitori delle gare di nuoto. Seguono il modello FSII, preparato per i Giochi olimpici di Atene nel 2004 dopo accurati studi di fluidinamica e di biologia, con diverse versioni per le diverse gare e i diversi stili, e poi i modelli FS-Pro nel 2007 e LZR Racer nel 2008. Secondo Speedo questo modello – sviluppato in Australia con la consulenza della statunitense NASA e brevettato in Portogallo - riduce la resistenza del corpo umano all’acqua del 10% rispetto al precedente modello FSII. 
Nel frattempo i costumi veloci divengono oggetto di dibattito tra coloro che li considerano un semplice miglioramento dell’abito indossato dagli atleti e coloro che invece li considerano uno strumento tecnologico da vietare perché migliora artificialmente le prestazioni atletiche. I sostenitori della prima tesi prevalgono: nel 1999 i fastskin sono approvati dall’organismo internazionale che controlla il nuoto agonistico, la FINA (la Fédération Internationale de Natation), che li ritiene compatibili  con la disposizione del regolamento internazionale che vieta l’uso di abbigliamenti o strumenti che possono incrementare la sua velocità, il suo galleggiamento o la sua resistenza durante la competizione (art.10.8). Ai Giochi Olimpici di Sydney del 2000 gli atleti che indossano fastskin ottengono l’83% delle medaglie e stabiliscono 13 dei 15 record mondiali. La decisione della FINA non placa lo scontro. Anzi, in un mercato ove i produttori di Fastskin sono divenuti ormai varie decine ( tra i principali possiamo ricordare  TYR, Nike, Mizuno, Asics, Blueseventy, Descente and Adidas), aumentano le voci che qualificano i Fastskin come “doping  tecnologico”, alimentate sia da produttori di abbigliamento sportivo che non possono mettere in campo gli investimenti tecnologici necessari e vengono quindi progressivamente marginalizzati, sia da federazioni di nuoto nazionali che intendono frenare lo straripare di paesi ove queste tecnologie si sviluppano (Australia e Stati Uniti in primo luogo). Le proteste aumentano di intensità dopo i Giochi olimpici di Pechino del 2008 ove pressoché tutti i vincitori indossano il Fastskin LZR Racer. Così, dopo che oltre 130 record mondiali sono stabiliti in pochi mesi usando gli LZR-Racer, la FINA nel 2009 cambia rotta e mette al bando, a partire dal gennaio 2010, i costumi che coprono tutto il corpo o comunque prodotti con poliuretano: una decisione che a sua volta non è esente da critiche in quanto non definisce con esattezza i materiali ammessi e quelli vietati e lascia quindi aperte le discussioni e i tentativi di creare nuovi modelli di Fastskin. Dopo diciotto anni e centinaia di record mondiali stabiliti, i costumi ad alta tecnologia escono dalla scena. Le conseguenze della decisione sono significative: nel 2010, solo due nuovi record mondiali sono stabiliti.

La vicenda della Fastskin Revolution offre un’ampia materia di riflessione.

Prima di tutto, è un esempio della correlazione nello sport contemporaneo tra innovazione tecnologica e prestazioni sportive. Il semplice mutamento delle dimensioni e della fibra utilizzata per l’abito indossato nelle gare di nuoto ha prodotto un impressionante miglioramento delle prestazioni atletiche rese. Il miglioramento è cessato allorché l’abito in precedenza ritenuto ammissibile è stato vietato. È anche il segno della stretta correlazione tra sport e mercato. I consistenti investimenti necessari per sviluppare una rivoluzionaria tecnologia dimostrano che anche uno sport tutto sommato non di primo piano come il nuoto può diventare  il motore di profitti su un mercato globale dove milioni di appassionati seguono le varie discipline sportive. La vicenda dei fastskin è però anche il segno della indeterminatezza delle regole che governano le competizioni sportive nella materia del miglioramento delle prestazioni. La stessa disposizione è stata infatti interpretata in modo opposto, prima come non idonea a limitare le dimensioni e la fibra dei costumi, poi nel senso di vietarli: un mutamento interpretativo che ha prodotto un dissesto nel mondo del nuoto consentendo di raggiungere prestazioni che ora paiono difficilmente eguagliabili. D’altro canto, i fastskin non sono l’unica innovazione tecnologica che ha modificato in profondità le prestazioni sportive in una determinata disciplina. Dopo l'era delle aste in bambù, che consentivano di valicare quote di mezzo metro superiori all'altezza dell'impugnatura, e dopo l’era delle aste in metallo, inizialmente di alluminio poi di acciaio (piu' flessibili), durante la quale il record mondiale raggiunge i 4,80 metri (stabilito nel 1960), si verifica la rivoluzione con l’affermarsi delle aste in fibra di vetro, la cui elasticità permette all’atleta di lanciarsi verso l’alto, con una modifica radicale  della tecnica da seguire per il salto e delle stesse capacità atletiche da sviluppare. In poco più di venti anni il record mondiale si innalza di oltre un metro. L’innovazione tecnologica è resa possibile e considerata ammissibile in quanto il regolamento della disciplina non stabilisce il materiale con il quale le aste debbono essere costruite (è solo fatto divieto di spostare le mani verso l'alto arrampicandosi sull'asta, dopo lo stacco da terra). Ma, come si è visto, neppure il regolamento del nuoto stabilisce con quale materiale debbono essere realizzati gli abiti degli atleti.

Un altro buon esempio è offerto dal tennis: alle racchette in legno sono state sostituite racchette in leghe leggere, e poi racchette  in grafite pura o mista a kevlar, fibra di vetro, tungsteno o basalto. È stato modificato anche il materiale utilizzato per le corde, passato dal budello alla attuale corda monofilamento o multifilamento congiunta in diversi punti in modo da formare una rete. Sono tutte innovazioni sempre più tecnologicamente sofisticate che hanno prodotto una modifica sostanziale della tecnica da impiegare ed anche delle modalità di gioco. Anche in questo caso, la nuova tecnologia è stata accettata e ritenuta compatibile con le regole del gioco. Questi esempi (ma molti altri potrebbero farsi) dimostrano che le diverse reazioni di fronte a modifiche della tecnologia che incidono in modo rilevante sulle prestazioni sportive non dipendono di per sé dagli effetti migliorativi della tecnologia sulle prestazioni. Non dipendono neppure dal fatto che la tecnologia migliorativa determina un vantaggio per l’atleta che ne fa uso rispetto a chi fa uso della tecnologia tradizionale: nessun saltatore con l’asta che utilizzi un’asta di bambù potrebbe oggi vincere una gara con un concorrente che impieghi un’asta in fibra di vetro. Lo stesso può dirsi, sia pure in misura più contenuta, per il tennis. Non vi sono neppure ragioni di carattere etico che spiegano le diverse reazioni: tutte le innovazioni tecnologiche cui abbiamo accennato, pur migliorando le prestazioni atletiche, sono – a differenza per esempio del doping - eticamente “neutre”. Tuttavia, mentre per il salto con l’asta si è deciso che ciò che conta è chi salta più in alto e lo strumento non conta, per il nuoto si è deciso che ciò che conta non è semplicemente chi nuota più veloce, ma chi nuota più veloce indossando un abito ammesso.

E allora? Perché alcune innovazioni tecnologiche che producono miglioramenti delle prestazioni sono considerate ammissibili e altre sono vietati? La risposta, per quanto curiosa possa sembrare, è che per decidere se un miglioramento sia ammesso o sia vietato assumono rilievo fattori diversi da quelli che comunemente si considerano decisivi: sono le reazioni dei cultori della disciplina, professionisti o dilettanti, le reazioni del pubblico e dei tifosi, le reazioni dell’opinione pubblica e, in qualche misura, anche le reazioni del mercato e dei produttori. 



Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: