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Tasse e benefici universitari: una risposta a Roars

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Francesca Coin e Francesco Sylos Labini (CSL), in un intervento su roars.it, formulano numerose critiche a un nostro articolo sul Corriere della Sera del 10 dicembre: alcune di queste riguardano aspetti fattuali e valutazioni empiriche contenute in quell’articolo, altre si appuntano su questioni di principio riguardanti una nostra proposta sul finanziamento dell’università, circolata precedentemente in rete. Nell’articolo sul Corriere, dati anche i vincoli di spazio, avevamo deliberatamente evitato di riprendere quella proposta, proprio perché volevamo prima sgombrare il campo da dissensi su aspetti meramente fattuali, in modo che la legittima discussione su aspetti più rilevanti non fosse complicata da contrapposizioni inutili. Non abbiamo infatti alcuna remora, contrariamente a quel che pensano CSL, a mettere in dubbio quanto detto da Francesco Giavazzi, così come peraltro le affermazioni opposte di Marco Meloni. Per questo abbiamo provato a calcolare se il finanziamento dell’università mediante la fiscalità generale produca o no un trasferimento dai poveri ai ricchi. Crediamo di essere i primi ad aver provato a stabilire come stiano i fatti, prescindendo da petizioni di principio. Vediamo quindi con favore che CSL ci seguano su questa strada, non certo facile data la difficoltà di integrare le diverse fonti di informazioni che servono allo scopo. Sarebbe un risultato davvero positivo se, alla fine, potessimo concordare almeno sui fatti. Poi ognuno farà le sue valutazioni e trarrà le sue conclusioni. Ma andiamo con ordine, considerando prima le contestazioni di CSL sul piano fattuale.
     Secondo CSL avremmo fatto riferimento, nei nostri conti sul trasferimento dai poveri ai ricchi, a un numero sbagliato per l’FFO, 9 miliardi invece di 6,8. I dati, riportati sul Corriere provengono dalla nostra precedente proposta riguardo alla quale proprio con Francesca Coin abbiamo avuto uno scambio molto vivace ma, almeno per noi, proficuo. In quel lavoro, da cui origina un libro che uscirà tra pochi giorni (“Facoltà di Scelta”, Rizzoli), abbiamo utilizzato per la spesa pubblica a favore dell’università dati riferiti al 2009: gli ultimi di cui disponevamo mentre scrivevamo. È un riferimento che avremmo dovuto menzionare anche nell’articolo sul Corriere (lo spazio era poco, ma 4 caratteri in più ci stavano) e di questo ci scusiamo. In quell’anno l’FFO era 7.4 miliardi di euro, ma ammontava in totale a 9 miliardi il finanziamento pubblico complessivo agli atenei Italiani, e quella è la cifra che (come chiaramente affermato nel lavoro che Francesca conosce) abbiamo usato nei nostri calcoli. Si rassicurino quindi CSL, quando considerano “grave che la formulazione di politiche universitarie venga affidata a specialisti che non sanno esattamente a quanto ammonta l’FFO”: siamo meno incompetenti di quanto loro pensino, e comunque non ci è stato affidato da nessuno il compito di formulare politiche universitarie.
     CSL presentano poi dei numeri dai quali risulta che i contribuenti più ricchi sovvenzionerebbero i più poveri, contrariamente a quanto da noi affermato. In particolare affermano che i contribuenti con reddito superiore a 100˙000 euro contribuirebbero attraverso l’Irpef al costo annuo procapite di uno studente universitario (da loro valutato in 3800 euro al netto delle tasse universitarie), con circa 1500 euro; quelli con reddito fino a 40˙000 euro contribuirebbero con circa 400 euro; quelli con reddito fino a 20˙000 euro con circa 100 euro. Confessiamo di non aver capito come CSL abbiano ottenuto le cifre che presentano. Ci sembra che il modo corretto di calcolare quello che loro vogliono misurare è moltiplicare il costo procapite (3800) per la frazione dell’Irpef totale pagata da questi vari gruppi di contribuenti. Sulla base dei dati del Dipartimento delle Finanze (DF) da loro stessi citati (tra l’altro riferiti alle imposte pagate nel 2009, non a quelle dell’anno 2012 di cui considerano l’FFO), i primi (quelli con reddito superiore a 100˙000 euro) pagano, in complesso, il 18% circa del totale dell’imposta netta; i secondi ne pagano il 54%; i terzi ne pagano il 16%. In proporzione dei 3800 euro, i primi pagherebbero quindi circa 680 euro, i secondi poco più di 2000 euro, i terzi circa 600 euro. Sulla base di quale conto CSL ottengono invece i loro risultati?
     A onor del vero, comunque, dobbiamo riconoscere che cercare di misurare il trasferimento tra gruppi di contribuenti implicito nell’attuale meccanismo di finanziamento dell’università non è cosa facile. In particolare, per quel che riguarda i calcoli da noi fatti in precedenza, non è ovvio come integrare i dati sulle imposte del DF e quelli sugli studenti universitari disponibili nell’indagine della Banca d’Italia (la quale ha solo i redditi netti dalle imposte). Questa integrazione (i cui risultati abbiamo riportato sul Corriere) è di complessa interpretazione perché mentre l’Irpef è pagata dai singoli percettori di reddito (e quindi a loro si riferiscono i dati DF),  gli studenti universitari sono naturalmente associati a una famiglia, e di questa possono fare parte numerosi percettori: non è quindi immediata una corrispondenza tra le due fonti che consenta di associare univocamente gruppi di studenti e gruppi di contribuenti. 
     Un passo avanti significativo si può tuttavia fare utilizzando nuovi dati per il 2010 che solo recentemente la Banca d’Italia ha prodotto (tardi purtroppo anche per il nostro libro), e che contengono una ricostruzione analitica dei redditi familiari e personali al lordo dell'imposta progressiva sul reddito, tenendo conto della composizione familiare (pur con gli inevitabili margini di approssimazione, la ricostruzione risulta coerente con i dati ufficiali del Dipartimento delle Finanze per gli aggregati confrontabili). Questi nuovi dati consentono di superare il problema, presente anche nelle nostre precedenti stime, di integrare due fonti in cui l’unità di osservazione è differente. Che cosa ci dicono? 
     Definiamo poveri quei percettori di reddito che guadagnino meno di 31˙000 euro lordi all’anno e appartengano a famiglie in cui nessun percettore guadagni più della stessa cifra. La soglia corrisponde a circa 1600 euro netti mensili su 13 mensilità per un lavoratore dipendente senza familiari a carico. Questi percettori sono poco meno dell’80% di coloro che pagano l’Irpef in Italia; una parte consistente di essi (l’87% dei poveri, che corrisponde al 70% del totale dei contribuenti Irpef) vive in famiglie di cui non fanno parte studenti universitari. Quindi, il 70% dei contribuenti sono relativamente poveri e non ricevono alcun servizio diretto dagli atenei italiani. D’altro canto, essi pagano il 37% dell’Irpef (e si noti che ne pagano solo il 37%, pur generando il 51% del reddito complessivo, proprio perché l’Irpef è un’imposta fortemente progressiva). Contribuiscono perciò, per il 37%, a finanziare tutta la spesa pubblica, anche quella per l’università (trascuriamo qui un pezzo importante, e cioè le imposte indirette; ma essendo le imposte indirette sostanzialmente proporzionali, il considerarle renderebbe i nostri risultati ancora più netti). Se supponiamo, come CSL ci invitano a fare, che lo Stato spenda 6.8 miliardi di euro all’anno per gli atenei, possiamo allora concludere che il 37% di questa spesa, ossia circa 2.5 miliardi, è finanziata da contribuenti poveri che non usufruiscono dell’università.
     E chi beneficia di questo finanziamento? Una parte dei beneficiari sono gli studenti universitari appartenenti alle famiglie relativamente più abbienti, ossia quelle in cui almeno un percettore di reddito guadagna più di 31˙000 euro lordi. Questi studenti sono circa il 36% del totale e quindi le loro famiglie ricevono quasi 1 miliardo di euro all’anno dai percettori poveri che pagano l’Irpef e non hanno figli (o altri parenti conviventi) all’università. 
     La restante parte dei 2.5 miliardi pagati dai contribuenti poveri senza figli all’università va a finanziare gli studenti universitari provenienti invece dalle famiglie composte da contribuenti altrettanto poveri ma con figli all’università; da queste famiglie proviene il 64% degli studenti universitari. Si tratta, in questo caso, di un trasferimento “tra poveri”: da quelli senza figli all’università a quelli con. Ma, alla luce di quanto illustriamo nel nostro libro (e come confermano le analisi dell’OCSE a cui CSL fanno riferimento), gli “universitari poveri” che (indirettamente) ricevono il trasferimento stanno facendo un investimento che, con buona probabilità, consentirà loro di diventare i ricchi di domani. In definitiva, quindi, la scelta di finanziare l’università in misura preponderante attraverso la fiscalità generale si traduce, nelle condizioni odierne, in un trasferimento di circa 2.5 miliardi l’anno dai poveri ai ricchi, di oggi o di domani. 
     Si noti, per inciso, che al complesso costituito dal 20% di percettori abbienti è associato il 36% degli studenti universitari, mentre il restante 64% è associato al complesso costituito dall’80% di percettori poveri. Questo conferma che l’università è frequentata in proporzione nettamente maggiore da chi proviene da famiglie benestanti
     Se poi considerassimo l’aggregato più ampio dei finanziamenti dello Stato all’università, o comunque auspicassimo un ritorno al periodo precendente ai tagli del Ministro Gelmini, l’entità del trasferimento aumenterebbe. Se il finanziamento pubblico per l’università tornasse ancora a essere di 9 miliardi di euro, il trasferimento dai poveri che non usufruiscono dell’università ai ricchi di oggi o di domani crescerebbe a 3.3 miliardi di cui 1.1 ai primi e il resto ai secondi. 
     CSL ci accusano infine di trascurare nei nostri conti le rette universitarie, e di affermare erroneamente che esse per legge non possono superare il 20% dell’FFO. Non ci risulta che le rette universitarie siano state davvero liberalizzate dal governo Monti, ma se così fosse aspettiamo a vedere che configurazione avranno nel nuovo regime. Per ora lo sforamento che si è in passato verificato rispetto al limite del 20%, ricordato da CSL, è modesto, dell’ordine di 3 punti percentuali. Ma cambierebbero in modo sostanziale le conclusioni dei nostri conti tenendo presenti le tasse universitarie così come oggi si configurano? Crediamo di no. Innanzitutto, la loro struttura attuale è marcatamente regressiva. Considerando le medie nazionali che abbiamo derivato da un Rapporto di Federconsumatori (vedi il libro per ulteriori dettagli), a un reddito di 3000 euro (Isee) corrispondono tasse universitarie pari al 15.6%; per 15˙000 euro esse incidono per il 5.8%; ancora meno, per il 4.3%, su un reddito di 40˙000 euro, fino a quasi annullarsi in percentuale per livelli ancora più alti. 
     In secondo luogo, anche tenendo conto dello sforamento, una parte troppo piccola del costo viene coperta dalle rette universitarie, e quindi da chi usufruisce del servizio: la quota di finanziamento diretto, ovvero i soldi che versa chi davvero usufruisce dell’università, è per ora modesta, e non può modificare in modo sostanziale i conti esposti in precedenza. Anche perché, a parità di finanziamento statale, la dimensione e la distribuzione tra le famiglie delle tasse universitarie non modifica l’entità del trasferimento dai contribuenti senza figli all’università a quelli che invece ne hanno, indipendentemente dalla ricchezza o povertà dei primi e dei secondi; influenza solo la distribuzione tra questi ultimi.

Ma abbandoniamo ora i rilievi fattuali e consideriamo quello che ci sembra essere un punto molto rilevante sollevato da CSL: secondo loro l’università è un bene pubblico da cui traggono vantaggio anche i contribuenti che pagano le tasse senza avere in famiglia alcuno studente universitario. Qui l’economista ha un piccolo moto di ribellione. Strettamente parlando, l’università non è un bene pubblico: non possiede né la caratteristica della “non escludibilità dal consumo” né quella della sua “non rivalità”, che definiscono tecnicamente un bene pubblico propriamente detto. Ma probabilmente quello che CSL hanno in mente è un concetto più ampio, quello che in gergo si chiama esternalità: affermano cioè che l’università genererebbe benefici per la collettività maggiori della somma dei benefici di cui si appropriano i singoli. Se questo è ciò che intendono, e se finalmente concordiamo sull’entità del trasferimento, sopra descritto, la domanda rilevante è se davvero il beneficio collettivo, aggiuntivo rispetto a quello privato, sia tale da giustificare l’onere considerevole che i poveri sopportano per finanziare l’istruzione dei ricchi.
     Qui ci fermiamo, per rimandare al nostro libro in uscita, dove (nel capitolo 1) richiamiamo studi secondo i quali il beneficio collettivo dell’istruzione universitaria coincide sostanzialmente con la somma dei benefici individuali (il beneficio aggiuntivo è cioè praticamente nullo). E questo crediamo è il motivo per cui anche l’OCSE, citata da CSL, calcola il beneficio per il settore pubblico (che tra l’altro non è la stessa cosa del beneficio collettivo) come: “... additional tax and social contribution receipts associated with higher earnings and savings on transfers, i.e. housing benefits and social assistance that the public sector does not have to pay because of higher levels of earnings.” (Vedi pag. 172 di OCSE Education at a glance). Si tratta cioè di un calcolo che prende in considerazione solo le retribuzioni lorde dei laureati, aggiuntive rispetto a quelle dei diplomati (da cui derivano le maggiori imposte e contributi pagati), e non fa menzione di “effetti esterni” sul resto della collettività. Peraltro, questo spiega come mai l’OCSE stimi un beneficio pubblico derivante dalle donne laureate pari a circa la metà di quello derivante dai laureati maschi (un apparente paradosso rilevato da uno dei lettori di ROARS, che si chiede come sia possibile che le donne laureate diano un contributo sociale che è la metà di quello degli uomini). È la metà perchè le retribuzioni lorde delle donne sono parecchio inferiori.
     La realtà è che il rendimento privato di una laurea, perfino in Italia dove è relativamente basso, è comunque sufficiente a rendere gli studi universitari un investimento mediamente conveniente, anche senza bisogno di alcun sussidio pubblico. Il vero problema è evitare che vincoli finanziari impediscano di realizzare questo investimento; e, soprattutto, introdurre opportuni meccanismi assicurativi che consentano di attutirne l’incertezza. Questo richiede non uno Stato finanziatore a fondo perduto degli studi universitari, ma uno Stato assicuratore dei rischi a essi connessi. 
     Nel nostro libro spieghiamo come questo diverso ruolo dello Stato si possa realizzare, e quindi rimandiamo ad altra occasione, dopo che il libro sarà uscito, una discussione approfondita delle nostre proposte.
     Prima di concludere, però, abbiamo tre precisazioni importanti.

1) Quando nel libro (così come nel nostro precedente articolo) si leggerà l’espressione “prestiti condizionati al reddito”, si dovrà prestare attenzione al fatto che questa tipologia di prestiti non ha nulla a che fare con i “prestiti d’onore” che affliggono i giovani americani (e di cui si è talvolta parlato per il nostro Paese). Lungi dall’essere come mutui per la casa, a rata fissa da pagare comunque in ogni periodo, questi prestiti sono restituiti dagli studenti solo se ne avranno la possibilità e comunque in proporzione al loro reddito. Quindi sarebbe forse meglio chiamarli Borse Restitutibili. CSL concorderanno con noi che se un brillante studente di medicina diventa un medico affermato, chiedere a lui o lei di restituire almeno in parte il finanziamento che gli ha consentito di studiare, perchè possa servire ad altri, non è un’idea così peregrina

2) In secondo luogo, con particolare riferimento al commento di Andrea Bellelli, che pure dovrebbe conoscere bene quel che abbiamo scritto, la nostra proposta prevede un aumento delle rette universitarie differenziato per reddito della famiglia di origine. Non sappiamo dove Andrea abbia letto che la nostra idea è “ far pagare a tutti tasse della stessa entita”. Nè sappiamo dove CSL abbiano letto che la nostra proposta è di aumentre  “le tasse universitarie a circa 10˙000 euro a tutti gli studenti, abbienti e non.” Nelle nostre simulazioni consideriamo un aumento medio delle rette universitarie di 7500 euro, perché ai fini del calcolo della sostenibilità è la media che conta, ma niente esclude che i ricchi paghino molto più del costo della loro istruzione universitaria e i poveri meno, e così diciamo esplicitamente che debba essere. Questo non piace a Andrea Bellelli (chissà perché?), ma così deve essere proprio per ottemperare all’Art. 34 della Costituzione in modo molto più efficace di quanto fatto attraverso la fiscalità generale.

3) Crediamo infine che chi sostiente che “L’equità di uno schema di cooperazione sociale deve essere valutata nel suo complesso, non in maniera selettiva” dimentichi che in questo modo diventa assai poco trasparente discernere chi paga e chi riceve. Noi preferiamo la trasparenza, e quindi preferiamo che progressività ed equità fiscale siano valutate proprio in relazione a ciascun servizio (se ciascuna prestazione è equa e finanziata in modo progressivo lo sarà anche il totale, mentre il fatto che queste caratteristiche siano vere per il totale non garantisce che non si determinino sperequazioni e distorsioni per le singole prestazioni). Peraltro, mentre tutti usano (o desiderano poter usare in caso di bisogno) la sanità o la scuola elementare (e semmai sono i più poveri a usare questi servizi in modo più intenso), l’università è usata prevalentemente dai ricchi. E, come dice la Costituzione, l’università non è per tutti ma solo per i capaci e meritevoli

Infine, chi si preoccupa per le nostre proposte, non ha molto da temere: nel libro non chiediamo un cambiamento generalizzato per l’intero sistema universitario: suggeriamo solo che sia permesso ai dipartimenti universitari che lo vorranno, di operare in modo diverso.
Gli altri, se preferiscono, potranno continuare come prima.

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Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

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