Il 2 ottobre scorso 100 ricercatori russi, che ormai lavorano in maniera permanente in istituzioni scientifiche all’estero, hanno pubblicato sul quotidiano economico Vedomosti una lettera aperta alle autorità politiche in cui denunciavano «la disastrosa situazione della ricerca di base nella Federazione russa». Poco finanziata dal governo e, di conseguenza, sempre meno capace di partecipare in maniera significativa alla produzione globale di nuova conoscenza (si veda articolo su Science).
L’analisi dei “cervelli in fuga” dal grande paese eurasiatico ha trovato un’indiretta conferma nel Global Research Report pubblicato di recente dalla Thomson Reuters, in cui si mostra come la Russia sia l’unico tra i paesi a economia emergente del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) in cui la quantità delle pubblicazioni scientifiche negli ultimi tre decenni (tra il 1981 e il 2008, per la precisione) non è cresciuta ma è stagnante, intorno al valore medio annuo di appena 25.000 articoli firmati da almeno uno scienziato russo.
Tutto ciò malgrado il numero dei ricercatori che vivono e lavorano in Russia sia piuttosto alto: quasi 480.000, secondo l’OCSE, nel 2004. Malgrado gli investimenti russi in ricerca e sviluppo (R&S) non siano del tutto trascurabili: 23,4 miliardi di dollari (calcolati a parità di potere di acquisto delle monete) nel 2008 secondo la rivista R&D Magazine, pari all’1,1% del Pil. Malgrado, soprattutto, una grande tradizione, ereditata dalla scienza dell’Unione Sovietica.
Nella diagnosi dei 100 ricercatori che lavorano all’estero le cause di quello che definiscono un vero e proprio collasso della ricerca di base, sono da ricercare non solo nell’inadeguatezza dei finanziamenti pubblici, ma anche nella mancanza di un piano strategico, nel declino del prestigio sociale di cui gode la professione dello scienziato tra la popolazione russa e, ultimo ma non ultimo, nel caduta degli standard dell’insegnamento delle scienze nelle scuole e nelle università della federazione.
Si deve parlare di declino. Anzi, di un declino di lungo periodo, malgrado la Federazione russa esista da solo venti anni, perché la Russia è la grande erede dell’Unione Sovietica. E l’Unione Sovietica, come ricorda un editoriale di Nature di qualche tempo fa, è il paese che, lanciando lo Sputnik nel 1957, non ha solo dato avvio alla “corsa allo spazio”, ma ha aperto una nuova era globale negli investimenti pubblici in scienza e tecnologia. È infatti dopo il 1957 che gli stati a economia industriale – a Est come a Ovest – iniziano a investire una quantità sempre più importante di risorse in ricerca, compresa un’importante quota parte di investimenti in ricerca di base.
L’Unione Sovietica e gli Stati Uniti furono di gran lunga i capifila di quella “corsa alla scienza”. In entrambi i paesi il numero di ricercatori si attestò presto intorno al milione e gli investimenti pubblici raggiunsero una quota vicina all’1% del Pil (e, tenendo conto degli investimenti in ricerca militare, superarono largamente quell’indice di intensità di investimento). Per molti anni, a parità di dimensioni e di interessi disciplinari, un istituto di ricerca a Mosca o a Leningrado non aveva molto da invidiare, anche in termini di budget, a un istituto di ricerca a New York o a Los Angeles. Oggi, ricorda il rapporto della Thomson Reuters, a parità di dimensioni, un istituto scientifico russo può contare sul 3% o, al massimo, sul 5% delle risorse finanziarie in dotazione a un gemello americano.
Il primo dato, dunque, è che in Russia sono crollati gli investimenti pubblici in ricerca scientifica. Ormai ammontano a poco più dello 0,2% del Pil (un’intensità di ricerca che è quattro volte inferiore a quella americana). La gran parte degli investimenti russi in R&S (circa l’80%) viene dalle imprese private ed è indirizzata verso lo sviluppo tecnologico più che verso la ricerca curiosity-driven.
Il crollo dei finanziamenti pubblici ha determinato una forte riduzione del numero dei ricercatori. Nel 1995 la Federazione russa poteva contare ancora su 610.000 ricercatori. Dieci anni dopo si erano ridotti a 470.000. Si calcola che solo negli anni ’90 del secolo scorso circa 80.000 scienziati russi, spesso i più bravi, abbiano trovato lavoro all’estero. Quelli che sono rimasti non hanno avuto ricambio, la loro età media è aumentata (ormai tra i membri della Accademia russa delle scienze supera i 50 anni) e nel medesimo tempo hanno perso ruolo sociale: in un sondaggio d’opinione solo l’1% dei russi considera prestigioso il lavoro dello scienziato; al contrario negli Usa o in Europa almeno la metà della popolazione lo considera tale.
È in questo contesto, dunque, che la produzione scientifica russa langue. Mentre quella di altri paesi del BRIC sembra avere le ali ai piedi. Un esempio? Nel 1998 gli scienziati russi produssero poco più di 27.000 pubblicazioni, contro le 20.000 dei colleghi cinesi. Dieci anni dopo, nel 2008, gli scienziati russi hanno prodotto il medesimo numero di pubblicazioni, mentre i cinesi sono saliti a 122.000 (un aumento del 560%).
Con questo numero di pubblicazioni, pari allo 2,6% del totale mondiale, la Russia ha visto fortemente ridimensionato il ruolo che la scienza sovietica aveva nel panorama mondiale solo mezzo secolo fa. Eppure alcune vestigia di quel periodo aureo restano. Tuttora nel campo della fisica nucleare, della mineralogia, della fisica delle alte energia le pubblicazioni firmate da russi sono il 10% del totale mondiale. È nelle discipline emergenti che i russi sono pressoché assenti: nella computer science o nella medicina clinica gli articoli firmati da scienziati russi non raggiunge neppure l’1% del totale mondiale.
Avevano dunque ragione i 100: la scienza di base russa è in forte declino. Sopravvive ancora sull’onda del passato, ma sembra incapace di afferrare il futuro. La situazione, tuttavia, non è irreversibile. Il grande numero di scienziati ancora attivi, l’antica tradizione e una notevole rete di rapporti con il sistema scientifico di altri paesi (Stati Uniti e Germania, in primo luogo, ma anche Italia) sono una ricchezza potenziale pronta al rilancio, se solo qualcuno al Cremlino ritornerà a credere che lo sviluppo della Russia passa anche attraverso la ricerca di base o, come si dice oggi, curiosity-driven.