fbpx Veronesi, la sicurezza e il nucleare | Scienza in rete

Veronesi, la sicurezza e il nucleare

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

Umberto Veronesi sembra dunque intenzionato ad accettare la proposta di dirigere l’Agenzia per la sicurezza nucleare. Lo ha ribadito nelle scorse ore con una serie di interviste e di articoli scritti di proprio pugno pubblicati sui più importanti quotidiani nazionali. Veronesi ha sottolineato che si tratta di un incarico tecnico e non politico. L’Agenzia – ha detto l’oncologo milanese – non fa la politica nucleare del paese, ma ha il compito di assicurare che tutto ciò che avviene e avverrà nel settore nucleare avvenga, appunto, in condizioni di massima sicurezza.

Diciamo subito che, da un punto di vista tecnico, non ci può essere scelta migliore. Anche se Veronesi non è un fisico esperto di nucleare, è certo uno scienziato che lavora nel campo della prevenzione del rischio, anche ambientale. L’Agenzia per la sicurezza nucleare è una necessità prioritaria, se la politica energetica del governo cessasse di essere un annuncio e iniziasse a diventare realtà. E nessuno meglio di Veronesi - per approccio scientifico e indipendenza - può garantire la nostra sicurezza.

Ma il problema politico è se l’Italia ha bisogno dell’opzione nucleare. Umberto Veronesi è convinto di sì, perché lo ritiene un modo non solo sicuro, ma anche economico per risolvere tre problemi: l’eccessiva dipendenza dall’estero del sistema energetico italiano; la necessità del «phase out» dai combustibili fossili sia per problemi di esaurimento delle risorse (il petrolio) che di inquinamento (petrolio, carbone e gas naturale producono gas serra); la mancanza di sufficienti ed efficienti alternative.

Ebbene, tutti questi argomenti sono attualmente oggetto di discussione. Perché se è vero che una parte considerevole della comunità scientifica la pensa esattamente come Veronesi, è anche vero che una parte non meno rilevante la pensa in maniera diversa. In realtà il problema energetico, compreso il nucleare, ha diversi aspetti. Ognuna delle quali affaccia in discipline diverse e tutte rimandano a un problema non ancora risolto di democrazia nell’"società del rischio" e ”della conoscenza”.

A vantaggio del nucleare ci sono tre aspetti indubbiamente positivi. Il primo è che è una fonte alternativa ai combustibili fossili. Il secondo è che è una fonte “carbon free”, non produce quasi carbonio. Il terzo punto a favore è che esistono già le tecnologie. L’insieme di questi motivi ha spinto una serie di paesi a “tornare al nucleare”: attualmente nel mondo vi sono in costruzione 44 nuove centrali. E anche gli Stati Uniti hanno espresso, con il presidente Obama, l'intenzione di un "ritorno all'atomo".

Restano, però, i punti critici. Che sono diversi. Molti li ha presi in esame un gruppo di esperti del MIT di Boston in un aggiornamento del rapporto sul Future of Nuclear Power del 2003. Uno dei punti critici riguarda, appunto, la sicurezza. Da questo punto di vista ha ragione Veronesi a sottolineare che oggi il rischio di un incidente grave a una centrale nucleare è ormai molto basso e che anche i rischi sanitari connessi a incidenti lievi, quando le norme di salvaguardia sono stringenti, risultano molto limitati.

Altri punti mostrano criticità meno risolte, secondo gli esperti del MIT. I principali sono quattro. Uno riguarda le scorie. Negli Stati Uniti, la massima potenza nucleare al mondo con 104 centrali ancora operative, non esiste ancora un piano per la gestione definitiva delle scorie più radioattive. Soprattutto dopo che l’opzione del deposito nella Yucca Mountain è stata cancellata dall’Amministrazione Obama. In realtà nessuno al mondo sa ancora come sistemare in maniera definitiva e sicura materiale altamente inquinante che resterà tale per migliaia di anni.

Un secondo problema riguarda la proliferazione delle armi nucleari. Il ciclo del nucleare civile può essere, con relativa facilità, esteso al militare. È per questo motivo che oggi si parla di un “problema nucleare iraniano”. L’Iran è intenzionato – in maniera legittima, anche secondo il Trattato di non proliferazione – a sviluppare un proprio autonomo “nucleare civile”. Ma i governi di Israele, degli Stati Uniti e anche dell’Italia sostengono che c’è concreto il rischio che il progetto dichiarato civile possa rapidamente trasformarsi in progetto militare. E allora la domanda che molti si pongono, anche in sede diplomatica, è: come minimizzare il rischio della proliferazione delle armi nucleari in uno scenario di forte sviluppo del nucleare civile?  Detta in altri termini: perché l’Italia sì e l’Iran no? E come impedire, in ogni caso, che gruppi di terroristi si impossessino di armi o ordigni atomici in un mondo che sviluppa il nucleare?

Un terzo punto riguarda la rinnovabilità della fonte. Le riserve di uranio facilmente accessibile sono relativamente poche. Nella sua ultima revisione il Red Book sull’uranio sostiene che nell’anno 2007 esistevano in miniera, estraibili a un costo non superiore a 130 dollari al chilo, almeno 5,5 milioni di tonnellate di uranio. Una quantità è sufficiente a soddisfare per 80 anni almeno il raddoppio della domanda mondiale per usi civili. In più è una quantità crescente. Nel 2005, infatti, le riserve stimate dai medesimi tecnici ammontavano a 4,7 milioni di tonnellate. Le valutazioni degli esperti del MIT non sono sostanzialmente diverse: le riserve sono sufficienti a soddisfare la domanda di 1.000 centrali (oggi nel mondo ce ne sono 400) entro i prossimi 50 anni.

Secondo Michael Dittmar, un fisico svizzero che lavora all’Istituto di fisica delle particelle di Zurigo e al CERN di Ginevra, invece i conti non tornano. Dittmar ha analizzato le risorse disponibili nelle miniere dei 10 paesi maggiori produttori al mondo, dove si concentra oltre l’82% delle riserve planetarie di uranio. E ha dimostrato le risorse disponibili a meno di 130 dollari al chilo sono decisamente inferiori a quelle previste dal Red Book e insufficienti ad alimentare, a costi accettabili, la prevista crescita della domanda.

Resta – ultimo, ma non ultimo – proprio il problema dei costi. Secondo gli esperti del MIT i costi dell’energia nucleare – tenuto conto di (quasi) tutto – sono aumentati negli ultimi anni nel mondo al ritmo del 15% l’anno. Cosicché negli Stati Uniti non risulterebbe conveniente costruire nuove centrali. E infatti non ne sono state costruite da molti anni. Al contrario – aggiungiamo noi – i costi di altre fonti di energia, come quella solare tendono a diminuire. Non è un caso che la Germania sembra fermamente intenzionata a investire in un consorzio misto pubblico/privato 400 miliardi di euro per il progetto Desertec (produzione con tecnologie già esistenti di energia solare nel Sahara e in Arabia, da trasferire anche in Europa) capace di soddisfare il 15% della domanda di energia elettrica dell’Unione.

Veniamo, dunque, all’Italia. Nel dibattito sul “ritorno al nucleare” occorre tenere in conto anche di altri due aspetti. Il nucleare è un’opzione valida per la produzione di energia elettrica, ma non per far muovere le auto o gli aerei. La dipendenza dal petrolio e dagli altri fossili non può essere risolta solo dal nucleare.

Secondo: la nostra dipendenza dall’estero non diminuirebbe. Per certi versi aumenterebbe. Nei progetti del governo, compreremo centrali nucleari chiavi in mano dalla Francia e dovremo approvvigionarci di uranio sul mercato internazionale. Con un trasferimento netto di risorse dall’Italia all’estero, dunque, ancora maggiore dell’attuale. Mentre infatti possediamo molte delle tecnologie per l’utilizzo del petrolio, del carbone e del gas dipenderemmo totalmente dall’estero per il nucleare.

Altro serebbe impegnarsi in un grande progetto di ricerca e di sviluppo nel nucleare cosiddetto di IV generazione con l'obiettivo di acquisre una completa autonomia tecnologica.

In conclusione, il nucleare attuale è certo a basso rischio. E se ci sarà Veronesi all’Agenzia per la sicurezza saremo tutti più tranquilli. Ma è una fonte che rischia di costare molto più e di  aumentare la nostra dipendenza dall’estero.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

L’allenamento musicale migliora la lettura di testi scritti

spartito

Uno studio pubblicato su NeuroImage Reports mostra che i musicisti attivano il cervello in modo diverso dai non musicisti durante la lettura, con un coinvolgimento bilaterale del giro occipitale medio. L'educazione musicale sembra migliorare le abilità di lettura e potrebbe proteggere da disturbi come la dislessia.

Immagine Pixabay

I musicisti leggono usando il cervello in modo diverso dalle altre persone. È il risultato di un recente studio uscito su NeuroImage Reports firmato da Alice Mado Proverbio e di Elham Sanoubari dell’Università Milano-Bicocca. Una delle principali conclusioni è la notevole differenza nell'attivazione cerebrale tra musicisti e non musicisti nel giro occipitale medio (MOG) durante la lettura di testi.