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Tumori: poca chiarezza sulle cure palliative

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Ancora oggi i malati di cancro sono mal informati sulle cure che ricevono. Secondo due studi americani indipendenti, la maggioranza delle persone con una neoplasia incurabile sottoposte a chemioterapia o a radioterapia a scopo palliativo, è convinta di effettuare una terapia attiva in grado di modificare il decorso della malattia.

Nel primo studio, apparso su MEJM, è stata condotta un'indagine chiedendo a più di mille persone con tumore polmonare o del colon metastatico, quattro mesi dopo la diagnosi, di dire quale fosse il grado di veridicità ('molto presumibile', 'presumibile', 'poco presumibile', 'per nulla presumibile'), di tre affermazioni riguardo lo scopo della chemioterapia a cui erano stati sottoposti :“La terapia li aveva aiutati a vivere più a lungo”, “la terapia aveva alleviato alcuni disturbi indotti dalla neoplasia”, “la terapia aveva curato la neoplasia”. I risultati hanno rilevato che l’80% dei malati di tumore del colon e il 69 di quelli con tumore polmonare erano convinti che la chemioterapia avesse curato la neoplasia.

Nel secondo studio, presentato al meeting annuale dell'American Society for Radiation Oncology, le stesse domande sono state rivolte poi a quasi quattrocento malati con tumore polmonare in fase avanzata (stadio IIIb e IV) sottoposti non a chemioterapia, ma a radioterapia palliativa. Le risposte raccolte rivelano un atteggiamento analogo: il 64% dei malati era convinto che si fosse trattato di una terapia attiva in grado di modificare il decorso della malattia, un risultato che ha sorpreso gli stessi autori. In precedenza, in realtà, già altri studi avevano indagato la stessa questione e solo un terzo dei malati intervistati non aveva capito i veri scopi delle cure palliativa. In quei casi si trattava, tuttavia, di ricerche a cui avevano preso parte poche centinai di pazienti, tutti seguiti presso centri di terzo livello. La risposta alla domanda sullo scopo della terapia era, inoltre, di tipo dicotomico - che prevedeva cioè una semplice risposta "si o no".

“I risultati attuali sono molto più generalizzabili e rappresentano un’importante fotografia della realtà americana, perché le persone sono state reclutate attraverso i registri di popolazione di cinque aree geografiche degli Stati Uniti: nord California, contea di Los Angeles, nord Carolina, Iowa e Alabama”, ha spiegato Jane Weeks uno degli autori di entrambe le ricerche.

Gli studi avevano inoltre raccolto persone di età differenti dai ventuno a gli ottantaa anni (e passa) e appartenenti a gruppi etnici diversi. Gli individui di pelle scura e di origine ispanica, a parità di scolarità e di classe sociale, erano, ad esempio, coloro che più frequentemente avevano interpretato erroneamente lo scopo dei trattamenti.
Ai partecipanti era stato anche chiesto un giudizio sulla qualità della comunicazione con il medico: a non aver compreso il vero scopo delle terapie erano proprio i malati che definivano ottimali i colloqui con il personale sanitario.

“Dal modo di comunicare del medico dipende la riuscita del colloquio. Nella nostra ricerca soprattutto chi era affetto da tumore del colon avevano false aspettative riguardo alle terapie.  Poiché vi sono più chemioterapie efficaci contro il tumore del colon rispetto a quello del polmone, è probabile che durante il colloquio si sia finito col dedicare troppo poco tempo alla prognosi della malattia, per illustre in dettaglio le diverse possibilità di trattamento farmacologico, generando così un falso ottimismo”, ipotizza Jane Weeks.
Il falso ottimismo sembra però incontrare il favore dei malati: il medico capace di trasmettere una visione più favorevole della malattia, anche se erronea, viene in qualche modo giudicato come più capace di comunicare.
“Le conseguenze sono gravi sia per il paziente sia per il sistema sanitario. Se il malato non conosce con precisione lo scopo delle cure, non è in grado di valutare correttamente il peso degli effetti collaterali e quindi di decidere in modo consapevole il proprio futuro. Inoltre, in molti sistemi sanitari, compreso il nostro, il suo giudizio sulla capacità di comunicazione del medico viene utilizzato come sistema premiante per incentivare alcuni professionisti. Dobbiamo quindi spiegare ai medici che una comunicazione onesta è la strada migliore per costruire una relazione virtuosa tra malato e sistema sanitario, per aiutarsi a vicenda a comunicare in modo gentile ed efficace” ha concluso Jane Weeks.


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