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La traduzione scientifica al tempo dell’intelligenza artificiale

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Nelle traduzioni (come in altri campi), “la possibilità d'errore si annida in ogni riga”. In quest'articolo, il filosofo Luca Guzzardi riflette sul lavoro di traduzione oggi, e in particolare quelle dei saggi e delle opere di divulgazione scientifica, partendo dall'esempio della traduzione di Robert Oppenheimer. L’uomo che inventò la bomba atomica di Ray Monk, ragionando su come, pur senza abbandonare il ruolo umano, le IA possano darci una mano in questo tipo di lavoro.

Immagine di copertina generata con DALLE

Sosteneva Jorge Luis Borges, in un saggio del 1932 intitolato Le versioni omeriche, che «nessun problema è altrettanto consustanziale con le lettere e con il loro modesto mistero di quello che propone una traduzione». Borges aveva in mente la grande letteratura, ma mi chiedo se, nell’epoca di ChatGPT e dell’inglese come lingua globale, la questione non sia applicabile anche alla traduzione di saggi scientifici. Alla domanda sono spinto dalla recente lettura della biografia di Ray Monk, Robert Oppenheimer. L’uomo che inventò la bomba atomica (tr. it. di Giuseppe Bernardi, Bompiani, Milano 2014, ristampa luglio 2023).

Ho visto il quasi omonimo film di Christopher Nolan lo scorso settembre, e questo ha avuto l’effetto di farmi cercare una biografia che colmasse ciò che non è giunto sullo schermo. Per ricchezza, dettagli e narrazione l’Oppenheimer di Monk non mi ha deluso, ed è stata una buona idea da parte di Giunti/Bompiani aver ristampato, nel luglio 2023, la biografia scritta da Monk, visto il prevedibile successo della pellicola al cinema. Tuttavia sarebbe stata l’occasione per rivedere a fondo una traduzione che, per usare un eufemismo, zoppica in più parti.

Ci sono tutti gli ingredienti di una cattiva resa. Sciatteria (il nitrogen inglese, cioè l’azoto, rimane per assonanza “nitrogeno”, termine più che obsoleto; e che dire di to be instrumental, riferito a una persona, cioè “rivelarsi fondamentale, essenziale”, tradotto con “essere lo strumento di”, p. 672, o for all our futures reso con un fantascientifico “per tutti i nostri futuri”, p. 1017); scelte lessicali infelici (“sviluppi teoretici” della fisica, p. 791, anziché “teorici”; “popolarizzazione della scienza”, pp. 993-995, anziché “divulgazione scientifica”; conference, cioè congresso o convegno, tradotto quasi invariabilmente con “conferenza” — tanto che a p. 937 si legge che Oppenheimer, evidentemente oratore d’instancabilità castrista, doveva “tenere la quarta di una serie di conferenze” e “la conferenza durò tre giorni”!); improprietà di linguaggio scientifico (meccanica “ondulare” anziché “ondulatoria”, p. 174; “funzione ondulatoria” anziché “funzione d’onda”, p. 218; “mu-mesone” e “pi-mesone” anziché le forme standard “mesone mu” e “mesone pi”). A volte poi la svista si trasforma in un vero e proprio errore di fisica: a p. 246, leggiamo che con la relatività «energia e materia non venivano più [enfasi mia] considerate come equivalenti» — che è esattamente l’opposto di ciò che l’equazione E=mc2 dice. Il fatto è che un now in inglese è stato letto come not, sicché “venivano ora considerate…” è diventato “non venivano più”. Che lo spin del fotone è una “integral unit” non significa che è “una unità integrale” (espressione priva di senso a p. 248) ma che è un numero intero e quel numero è 1. E la “potenza di un volt” della nota 4 a p. 264 è ovviamente il potenziale.

Ho qualche esperienza diretta di traduzione (e di errori), e so bene che la possibilità di sbagliare si annida a ogni riga, soprattutto in un libro lunghissimo come quello di Monk. Per svariate cause, tutte comprensibili: l’incompetenza, perché nessun traduttore può essere competente su tutto; la distrazione; la stanchezza che ti prende dopo pagine e pagine; la fretta e i tempi sempre troppo stretti… E allora, ritornando alla domanda di partenza, in un’epoca in cui l’inglese è sempre più diffuso, i saggi scientifici o di alta divulgazione sono per lo più in inglese e i libri anglofoni sono facilmente reperibili sul mercato on-line, ha ancora senso tradurre? Non potremmo lasciare il faticoso splendore della traduzione alle “versioni omeriche” borgesiane e a pochi altri cimenti letterari? Tanto più nell’era di ChatGPT e dell’ascesa dell’IA, dove qualunque scimmia un tantino intelligente — come siamo noi umani — può chiedere alla macchina di tradurre ciò che non sa o non capisce. Per quanto fallibile anch’essa, nel tempo l’intelligenza della macchina tenderà a sbagliare meno del suo equivalente scimmiesco.

Eppure, credo che la traduzione di saggi scientifici abbia e continuerà ad avere senso. Dietro questa risposta ci sono anzitutto motivazioni personali. La lettura — anche quella di un saggio — è per me spesso uno svago, e niente può sostituire la mia lingua nell’accendere l’immaginazione. Credo che questa sia un’esperienza comune, che riguarda soprattutto le forme narrative — forme tutt’altro che estranee ai libri di divulgazione o a molti trattati scientifici. La scienza è talvolta la continuazione del romanzo con altri mezzi. Si pensi, per esempio, all’Origine delle specie di Darwin ma anche a non poche pagine dell’Ottica di Newton o dell’einsteiniana Esposizione divulgativa della relatività. Ciò consente di apprezzare quanto Borges diceva del tradurre. Ogni traduzione modifica l’originale; toglie qualcosa, ma aggiunge anche qualcos’altro in termini di ricchezza concettuale e linguistica, qualcosa che non è definibile in anticipo ma dipende dalla trama di significati in cui si trova la lingua di arrivo al momento della traduzione. Ciò che questa aggiunge può aprire mondi rimasti inespressi nell’originale.

La chiave d’accesso a tali mondi sono le buone traduzioni — e qui è questione di metodo e di procedure. Una traduzione che sfocia in un libro pubblicato, specie di un saggio scientifico, non è mai (o non è più da tempo) un confronto a due fra l’originale e il traduttore o la traduttrice. È, invece, un lavoro collaborativo fra molteplici figure: chi traduce, una varietà di consulenti (talvolta un curatore o una curatrice, ma anche esperte ed esperti cui è doveroso chiedere un parere), chi svolge il lavoro di redazione. Ciò che giunge a lettrici e lettori è il risultato mediato di questa rete di operazioni per lo più sommersa, solo a tratti formale e riconoscibile. La questione dell’“errore” diviene allora secondaria, perché controlli plurimi e competenze incrociate rendono possibile ridurne il numero; nella maggior parte dei casi si tratterà di scelte consapevoli entro il ventaglio di possibilità dischiuso a un tempo dalla lingua di partenza e da quella di arrivo.

Il problema dell’edizione italiana dell’Oppenheimer di Monk non è un traduttore che non si è dimostrato all’altezza, ma la mancanza di questo lavoro di equipe, che ha impedito di aprire il ventaglio. Non credo che in ciò l’impiego dell’intelligenza artificiale si potrà rivelare una scorciatoia. Invece, ChatGPT e altre chatbot di IA possono legittimamente entrare nella rete dei collaboratori alla traduzione finale, ottimizzando e rendendo più preciso il lavoro e riducendo ulteriormente le sviste. Ai perplessi che non vorrebbero concedere ai non umani il ruolo di attori entro le reti cognitive, rispondo ricordando che Arthur C. Clarke annoverava HAL 9000, “il cervello e sistema nervoso dell’astronave” di 2001: Odissea nello spazio, come il “sesto componente dell’equipaggio”. HAL viene trattato come un commilitone perché semplicemente lo è. Interagisce con gli umani e, se infine pare ribellarsi, è per eccessivo ossequio ai loro ordini. Fuor di metafora, non è che mi paia implausibile che una intelligenza artificiale possa diventare l’agente unico del tradurre; mi sembra, piuttosto, un fraintendimento della natura plurale della traduzione.

 


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