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Storie di epidemie e di Covid-19: meno narrazioni e più storie naturali

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La pandemia di Covid-19 ha portato a riparlare delle grandi epidemie del passato, prime tra tutte quelle di peste e di influenza spagnola. Ma ogni epidemia è diversa, anche nel contesto storico, sociale ed economico in cui si svolge, e fare paragoni può essere ingannevole.
Nell'immagine: rappresentazione della peste bubbonica che colpì Tournai nelle cronache di Gilles Li Muisis (1272-1352), abate del monastero di San Martino dei giusti. Crediti: Wikipedia. Licenza: dominio pubblico

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Il feed di Google News mi segnala ogni giorno articoli nazionali e internazionali sulla storia delle epidemie e delle pandemie. Negli ultimi mesi siamo stati inondati come mai prima, e come non accade per catastrofi quali terremoti e tsunami da racconti che, partendo della situazione in corso, rammentano la cosiddetta peste di Atene, quelle Antonina e di Cipriano, la vera Peste di Giustiniano; la Morte Nera del Trecento o la peste del Seicento, le stragi e deturpazioni fisiche causate dal vaiolo dal Settecento, le devastazioni del colera, della febbre gialla o del tifo, fino ad arrivare all’influenza spagnola e a quella Asiatica, alla SARS, all’influenza suina del 2009 e così via. In mezzo un po’ di Ebola, Lassa, Aids, Dengue, tubercolosi, eccetera. Le narrazioni storiche delle pestilenze sono spunti intriganti di riflessione e di intrattenimento culturale.

Ma perché raccontarcele adesso? Aiutano anche a capire, come di fatto ci aspettiamo, cosa sta accadendo e cosa ci attende nei prossimi mesi/anni come conseguenza della diffusione di SARS-CoV-2? Oppure è come fischiare nel buio per farsi coraggio? La seconda, forse, è quella giusta. Le storie delle epidemie/pandemie del passato sono come favole, a meno che non portino alla luce o esplicitino elementi comparativi plausibili, definendo la cornice naturalistica dei fenomeni epidemici/pandemici. Se non parlano delle diverse biologie ed epidemiologie che caratterizzano fenomeni ecologicamente sempre diversi, spiegandone le dinamiche causali, questi racconti non contribuiscono a farci capire in quale guaio ci troviamo. Anzi, possono ingannarci. Un aiuto alla comprensione del problema, da parte della ricerca o divulgazione storica, si può avere se la chiave di lettura comparativa è integrata con le conoscenze scientifiche riguardanti non solo gli agenti patogeni, e i determinanti genetico-molecolari del valore di un parametro NON biologico quale R0, ma anche l’ospite umano, per quanto concerne la psicologia della percezione dei rischi, le reazioni alla minaccia del contagio, le intuizioni pseudoscientifiche sulla natura dei rapporti parassita/ospite eccetera.

La peste, tra quarantena ed ecologia dei ratti

Tra i paragoni storici più frequenti ci sono la peste e l’influenza spagnola. Della peste nera si parla anche perché contro la Morte Nera fu inventata circa nel 1377 la quarantena. Che si sta utilizzando, con le varianti che cambiano a seconda se si vive in una democrazia liberale o in una dittatura, anche nel presente frangente. In realtà, la peste è un improbabile termine di confronto come malattia/pandemia, anche senza tirare in ballo le differenze siderali con la medicina, l’economia, la società e la psicologia individuale nel medioevo all’alba dell’età moderna. Si tratta di una malattia infettiva che ha nel ratto l’ospite vertebrato d’elezione, e il parassita è un batterio e non un virus. La peste colpiva l’uomo quando i ratti morivano per l’infezione e le pulci affamate si spostavano per cercare cibo. A quel punto, dato che ratti e uomini vivevano a stretto contatto, le pulci pungevano l’uomo per prendere sangue, rigurgitando in concomitanza intorno al luogo della puntura coaguli di sangue contenenti l’agente Yersiania pestis (sviluppatosi nello stomaco dell’insetto al punto da chiuderlo e impedirgli di alimentarsi). La pulce non inoculava il parassita: quando l’uomo si grattava per la puntura, apriva varchi nella pelle per il patogeno. A seconda di dove entrava, il parassita causava forme cliniche diverse (bubbonica e setticemica) e a loro volta gli individui affetti dalla forma polmonare trasmettevano per aereosol direttamente ad altre persone la malattia (anche il contatto trasmetteva l’infezione). Paleomicrobiologi ed eleganti esperimenti hanno dimostrato che non erano solo le pulci dei ratti, ma anche quelle dell’uomo (Pulex irritans) e i pidocchi – che abitavano l’85% delle persone nel Medioevo - a trasmettere l’agente della Morte Nera.

La quarantena funzionava relativamente perché quaranta giorni sono sufficienti perché si manifesti la malattia nei contagiati, cioè che topi e uomini muoiano o guariscano (negli uomini dopo 3-7 giorni compaiono segni e sintomi, e senza cura si muore in qualche giorno). Inoltre, le pulci dell’uomo e i pidocchi quando infettati muoiono in alta percentuale. Il parassita a sua volta all’esterno vive circa 25 giorni. Una dinamica che allo stato delle conoscenze odierne si stoppa in pochi giorni, oltre che si possono curare i malati con gli antibiotici. La peste scomparve dall’Europa non solo perché migliorarono igiene (cioè pulizia del vestiario e del corpo) e le condizioni abitative (i ratti smettevano di essere accolti con disponibilità nelle case). Un fattore decisivo fu un cambiamento ecologico nella popolazione di ratti in Europa. Le microglaciazioni che colpirono l’Europa del Seicento favorirono la discesa del Rattus norvegicus, che sostituì il Rattus rattus, o ratto orientale. Il primo era più resistente alla malattia, quindi moriva di meno e le pulci non avevano bisogno di ricorrere all’uomo per nutrirsi.

La quarantena, o distanziamento sociale che dir si voglia, è stata pensata come una misura universale per le malattie trasmissibili anche da prima della Morte Nera. Ma non lo è. Per esempio, quando è stata tentata contro la febbre gialla, non sapendo che l’agente causale è un arbovirus (trasmesso da zanzare) o contro il colera, non sapendo che è veicolato dall’acqua, fu un fallimento. Agli inizi del Novecento, si diceva che la quarantena è solo la prova dell’ignoranza della medicina sulle cause e i rimedi contro epidemie e pandemie. Il giudizio vale ancora?

In conclusione, nessun fattore in gioco nella trasmissione di SARS-CoV-2 somiglia alla peste. Che dire dei paragoni con l’influenza spagnola?

Le misure non farmacologiche per il contenimento della Spagnola

Stante che di molte delle epidemie/pandemie del passato sappiamo poco o niente per quanto riguarda la biologia del parassita, ogni pandemia è unica, sia perché è filogeneticamente unico l’agente infettivo sia perché il contesto tecno-scientifico, sociodemografico, economico, ecologico, etccetera dell’ospite umano cambia in continuazione. Fino al 1880 circa non era possibile stabilire la causa delle malattie infettive, mentre oggi in pochi giorni sequenziamo e determiniamo la biologia molecolare del parassita, la biofisica della trasmissione, le variabili epidemiologiche in gioco... Senza dimenticare che i nostri antenati non affrontavano le epidemie all’interno di sistemi democratici e liberali o di un’economia di mercato globale. Fino a metà Ottocento le politiche sanitarie di fatto sceglievano le ipotesi causali per impostare le risposte alle epidemie, spesso sulla base della filosofia economica prevalente in un paese.

Qualche indicazione più utile la possiamo avere interrogando la storia naturale del virus e della specie umana: quali sono le sue origini zoonotiche? Esistono e, se sì, quali serbatoi animali? Quali sono i tratti fenotipici che danno al virus un vantaggio selettivo e modulano la ricerca di un compromesso tra trasmissione e virulenza? In che modo il profilo fenotipico dell’ospite consente, favorisce e limita la replicazione e la trasmissione del vettore? In che modo i parametri epidemiologici sono modulati dalle misure sanitarie e sociali? Quale ruolo gioca l’immunità acquisita naturalmente nel condizionare l’evoluzione dell’epidemia?  Ma per quanto riguarda Covid-19 sappiamo troppo poco al momento. Perché non provare con la storia di una vicenda storica ritenuta simile?

La clioepidemiologia ha provato a studiare l’efficacia delle misure non farmacologiche - come la chiusura dei luoghi pubblici, il distanziamento sociale, l’uso delle mascherine – per il contenimento della trasmissione e della mortalità di una pandemia specifica, nel caso dell’influenza spagnola. Si trovano in rete centinaia di articoli specialistici o giornalistici che cercano di fare previsioni su Covid-19 basandosi sull’andamento e le misure di contenimento della spagnola.

Studi quantitativi sono stati condotti partendo da esperimenti naturali, cioè dalle differenze di misure sanitarie non farmacologiche, di tempistiche e di durata degli stessi in diverse città statunitensi, mettendole in relazione con mortalità e morbilità1, 2. Questi mostrano che le città degli Stati Uniti che introdussero prima il distanziamento sociale e che lo interruppero dopo, hanno avuto meno malati e morti. Ma alcune città che hanno tenuto chiuso più a lungo hanno visto una ripresa più rapida della trasmissione. Le città non erano peraltro il luogo più rischioso ai tempi della spagnola. Uno studio quantitativo condotto sui documenti sanitari di una prefettura giapponese ha inoltre confutato l’ipotesi, difesa ragionando su dati neozelandesi, che nelle aree rurali l’influenza spagnola colpisse meno. In realtà, i villaggi ebbero più morbilità delle città e questo si spiega col fatto che le misure non farmacologiche potevano essere implementate più efficacemente nei contesti urbani 3.

Riferimenti da adottare con cautela

Il virologo Stephen Morse ha commentato questi risultati nel 2008 e ha suggerito cautela nell’adottarli come riferimenti per interventi di sanità pubblica di fronte a una situazione epidemiologica analoga che si verificasse oggigiorno4. Quindi anche nel caso di Covid-19. Nonostante il caveat, giornalisti su giornalisti raccontano la favola che possiamo imparare dalla Spagnola. Anche se alcuni parametri epidemiologici, come il tasso di trasmissione, rendono plausibili eventuali paragoni, vi sono importanti differenze, politiche, sociali, demografiche, mediche ed economiche tra la Spagnola del 1918 e Covid-19. Paradossalmente l’emergenza che sta causando Covid-19, ignorando quelli economico-finanziari e sociali dei prossimi mesi, dipendono da un eccesso di capacità di intervento medico e l’uso degli ospedali (almeno in Italia), senza però avere alcun mezzo per agire sul virus. Consideriamo anche il cosiddetto distanziamento sociale, per cui sembrerebbe che quanto più tempestivo e lungo fu il distanziamento sociale negli Stati Uniti del 1918, minore fu il costo in mortalità. Nel caso della pandemia da Covid-19 assistiamo a strategie diverse da parte di diversi paesi, che dipendono da diverse sensibilità politico-culturali e da una diversa efficienza dei sistemi sanitari, dato che a differenza del 1918 oggi, per esempio, esistono le tecnologie per la ventilazione assistita. Insomma, come dice John Ioannidis un po’ seccato, non esistono dati plausibili per stabilire un confronto scientificamente attendibile. I confronti si riducono a esercizi speculativi.

La biologia molecolare di SARS-CoV-2 determina il fatto che esso risulti in grado di intercettare, attraverso il recettore ACE2, persone più anziane o con patologie cardiovascolari e metaboliche. Ne consegue che, a differenza di quanto accadde nel 1918, l’esistenza oggi di presidi medici come la terapia intensiva determini un carico diverso e mai visto prima della pandemia sui sistemi sanitari. Peraltro, nella pandemia di spagnola del 1918 erano a rischio di malattia e morte i giovani adulti, a causa delle tempeste citochiniche indotte dal virus, mentre le persone anziane avevano una qualche forma di immunità dovuta alle influenze contratte negli anni precedenti. Nel caso di Covid-19, lo scenario è apparentemente invertito, nel senso che la patogenesi della malattia, nonché le vie di trasmissione, sono più complesse.

L’influenza spagnola non può quindi costituire una lezione storica utile. Questo non significa che la “clioepidemiologia” non abbia una sua utilità. Le differenze non sono meno importanti delle somiglianze, anche negli studi non controllati. Morse sottolinea l’ironia del fatto che i dati storici sulla pandemia del 1918 forniscano qualche indicazione sul presente, ma non proprio esaltanti: “quasi 90 anni [100 ndr] dopo la peggiore pandemia della storia conosciuta, abbiamo ancora poca comprensione di molti aspetti fondamentali della trasmissione dell'influenza che dobbiamo ricorrere a risultati empirici vecchi [di quasi] un secolo”.

Le trappole della narrazione storica

Volendo provare a immaginare come si evolverà la pandemia di Covid-19 in corso, fino a quando durerà, quanti morti grosso modo farà, se diventerà stagionale, se manterrà queste caratteristiche cliniche o cambieranno i segni considerati patognomonici, quando avremo un farmaco o un vaccino sicuro ed efficace, e così via, scordiamoci di trovare risposte precise in fatti accaduti nel contesto di epidemie del passato. La storia delle epidemie, in linea di principio, è un formidabile ambito di ricerca e formazione culturale per diffondere una visione più realistica del mondo nel quale viviamo e per fornire un quadro teorico unificativo alla medicina: il darwinismo (ne abbiamo parlato qui), più che l’evoluzionismo, che è un’idea scientificamente un po’ vaga, potrebbe essere la base comune o il massimo comune denominatore per definire comprensivamente processi e meccanismi implicati nella salute e nelle malattie della specie.

Gli storici in generale sono refrattari a seguire un suggerimento che proveniva da Jared Diamond già diversi anni fa, cioè trattare la storia dell’umanità come scienza, alla pari di scienze a carattere storico come la geologia o la biologia evoluzionistica6. Ha fatto scalpore il libro del filosofo Alexander Rosenberg, How history get things wrong (MIT Press 2018), dove l’autore sostiene che noi umani siamo biologicamente dipendenti dalle narrazioni, incluse quelle storiche, che sono inevitabilmente false perché basate sulla cosiddetta teoria della mente, che ci fa credere di potere entrare nella testa degli altri. Siccome questo non è davvero possibile, checché dicano i cantori dei neuroni specchio, inventiamo storie seducenti nelle quali attribuiamo motivi, intenzioni e valori a persone del passato, e così siamo gratificati emotivamente ma crediamo cose non più vere di un romanzo. Cioè che sono cognitivamente vuote o, peggio, fuorvianti. Che non è un giudizio morale o ideologico, ma un’ipotesi di lavoro molto verosimile.

Ci sono prove neuroscientifiche e di psicologia cognitiva, da cui si evince che i bias di narrazione, che chiamano sistematicamente in causa la teoria della mente, ovvero la costruzione di narrative schematiche6 e la struttura cognitiva del bias di narrazione, sono costitutivi del nostro modo di organizzare funzionalmente le informazioni e percepire rischi7. Anche quelli relativi alle malattie. Una storia narrativa per definizione lascia da parte i determinanti scientificamente conosciuti o conoscibili, per privilegiare aspetti che vadano a conferma delle nostre personali e sociali strategie di autoinganno. La teoria dell’autoinganno di Robert Trivers prevede che noi creiamo continuamente false narrative personali e false narrative storiche8. L’unica strada per abbattere il tasso di falsità delle narrative è ricorrere alla conoscenza e ai metodi della scienza.

Una storia delle epidemie che applichi i concetti e le teorie della storia naturale, biologica e cognitiva, dei rapporti tra specie umana e parassiti può fornire elementi di lettura dell’epidemia in corso, ma solo riconoscendo in premessa che questo virus sta spazzando e spazzerà il pianeta in lungo e in largo evolvendo sotto il controllo di due unici fattori: il caso e la selezione naturale. Noi umani, dal punto di vista del virus, facciamo parte della selezione naturale, e tutte le misure che stiamo adottando e adotteremo servono per interferire con la biologia di tre parametri che entrano in R0: l’intensità di trasmissione (al numeratore) e, al denominatore, la rapidità di guarigione e la virulenza. È iniziata una partita con il virus, con questo virus che è unico, che non è un gioco di scacchi, ma un gioco evoluzionistico. Al di là del piacere intrinseco che produce lo studio della storia delle epidemie9, riflettere sulle epidemie del passato può stimolare un pensiero critico sul presente, se le usiamo anche per capire quando, in che modo e con quali effetti le pressioni selettive culturali hanno spinto dei parassiti a evolvere verso fenotipi meno dannosi per l’ospite. O il contrario.

 

Riferimenti bibliografici
1. Richard J. Hatchett, Carter E. Mecher, and Marc Lipsitch, Public health interventions and epidemic intensity during the 1918 influenza pandemic, PNAS May 1, 2007 104 (18) 7582-7587
2. Martin C. J. Bootsma and Neil M. Ferguson, The effect of public health measures on the 1918 influenza pandemic in U.S. cities, PNAS May 1, 2007 104 (18) 7588-7593
3. Hiroshi Nishiura and Gerardo Chowell, Rurality and pandemic influenza: geographic heterogeneity in the risks of infection and death in Kanagawa, Japan (1918–1919), NZMJ 17 October 2008, 121 (1284) 6-10
4. Stephen S. Morse, Pandemic influenza: Studying the lessons of history PNAS May 1, 2007 104 (18) 7313-7314
5. Jared Diamond, Guns, Germs and Steel. The Fate of Human Societies, W.W. Norton & Company, New York, 1997
6. Christopher Baldassano, Uri Hasson and Kenneth A. Norman, Representation of Real-World Event Schemas during Narrative Perception, Journal of Neuroscience 2018, 38 (45) 9689-9699
7. Cornelia Betsch, Niels Haase, N., Frank Renkewitz, & Philip Schmid, P., The narrative bias revisited: What drives the biasing influence of narrative information on risk perceptions? Judgment and Decision Making 2015, 10(3), 241–264
8. Robert Trivers, The Folly of Fools: The Logic of Deceit and Self-Deception in Human Life. Basic Books, New York 2011.
9. Frank Snowden, Epidemics and Society: From the Black Death to the Present, Yale University Press, New Haeven, 2019

 


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