fbpx Sistema alimentare mondiale, ambiente e cambiamento climatico | Scienza in rete

Sistema alimentare mondiale, ambiente e cambiamento climatico

Primary tabs

Read time: 29 mins

Il sistema alimentare mondiale (World Food System nella letteratura anglosassone) è da qualche anno al centro dell’attenzione da parte di scienziati, economisti, giuristi e esperti di politica e relazioni internazionali; restano tuttavia incerte le caratteristiche, i contenuti e il significato stesso dell’espressione. In particolare, oggetto di studio e di dibattito, oltre che la stessa definizione del  sistema alimentare mondiale, è la sua capacità di soddisfare in futuro la domanda di cibo: così, in poco più di un decennio sono stati formulate diecine di modelli matematici, di scenari e di simulazioni per prevedere l’evoluzione della domanda e dell’offerta di cibo nel corso di questo secolo[1].
Nel solo anno in corso sono stati organizzati due importanti convegni internazionali sull’argomento: a Zurigo il convegno organizzato dal World Food System Center di Zurigo[2] e in questo mese di ottobre il Summit organizzato dalla Cornell University[3]. 
Con questo articolo, dopo alcune osservazioni sulle attuali caratteristiche del sistema alimentare mondiale, intendo soffermarmi sulle previsioni in merito alla sua capacità di soddisfare la futura domanda di cibo, toccando due temi tra i più controversi, l’agricoltura biologica e gli OGM; infine tratterò brevemente la triplice, complessa relazione intercorrente tra sistema alimentare globale, ambiente e cambiamento climatico.

Il sistema alimentare mondiale: un tentativo di ricostruzione

Il sistema alimentare mondiale attuale è il risultato della globalizzazione[4] e riguarda tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione e consumo di prodotti alimentari.
È costituito dall’interconnessione di sistemi nazionali e sovranazionali (l’Unione europea, il Nafta), di sistemi regionali e talvolta anche locali.
Nell’ambito di questi sistemi operano società multinazionali, imprese nazionali soggetti pubblici e soggetti privati – tra cui gli agricoltori che costituiscono circa la metà della popolazione mondiale – e poi la massa dei consumatori (anche se non tutti sono d’accordo nell’includere questa categoria).
Tutti questi sistemi sono in continuo cambiamento per adattarsi a eventi naturali, meteorologici e ambientali, a eventi politici e bellici, e poi per tener conto delle previsioni demografici, per adeguarsi alle politiche economiche e doganali, ai meccanismi fiscali, istituzionali, normativi, per coordinarsi con le innovazioni tecnologiche e infine per rispettare o indirizzare le preferenze dei consumatori.
Tutti questi sistemi risentono infine dell’andamento di mercati collaterali dai quali la produzione e il trasporto di prodotti alimentari dipende; primo fra tutti il mercato delle fonti energetiche: una rilevante quota del costo di molti prodotti dipende dal petrolio; questo spiega perché i prezzi delle principali coltivazioni, dopo anni di aumenti, stanno diminuendo rapidamente[5].
Nonostante ciò e nonostante la diversità e spesso la conflittualità degli interessi tra le varie aree territoriali e tra i diversi attori pubblici e privati, il sistema alimentare mondiale si è sinora mantenuto in uno stato di equilibrio fragile ma tutto sommato stabile[6]: così, non hanno provocato gravi crisi né la crescita della domanda di cibo determinata dall’aumento della popolazione negli ultimi 50 anni, né la crescita dell’offerta di cibo per effetto della rivoluzione verde, né la straordinaria espansione della rete di distribuzione di prodotti alimentari come conseguenza della globalizzazione[7], né le politiche di protezionismo e contenimento delle esportazione adottate in questi ultimi anni da taluni paesi con pesanti conseguenze sui paesi importatori[8]; non ha provocato gravi crisi neppure il formarsi in taluni settori (soprattutto quelli della trasformazione agroindustriale) di forti concentrazioni oligopolistiche in capo a operatori privati.
Il sistema alimentare mondiale può apparire  così una sorprendente applicazione della smithiana teoria della mano invisibile secondo la quale un mercato è in grado di autoregolarsi sulla base delle iniziative dei singoli soggetti che vi operano: così eventi che si producono, casualmente o per scelte istituzionali o di politica economica, in uno dei sistemi nazionali vengono assorbiti dal sistema globale senza durature ripercussioni negative negli altri.
In realtà, a un esame appena più approfondito (cui peraltro possiamo solo accennare in questa sede), ci si accorge che l’insieme delle relazioni e delle interconnessioni del sistema alimentare è governato da una fitta rete di disposizioni di varia natura.
A un primo livello, più appariscenti, più noti e più studiati, ci sono i trattati internazionali con norme vincolanti che provengono da organizzazioni internazionali formalmente riconosciute (ONU, WTO, ILO, FAO, UNICEF, WIPO)[9].
Ci sono poi, in una progressione discendente dal pubblico e dalla trasparenza al privato e all’opacità, organismi e agenzie creati dalle organizzazioni internazionali (per esempio, l’IFAD Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, una istituzione finanziaria internazionale delle Nazioni Unite, fondata nel 1977 e il PAM, Programma Alimentare Mondiale, braccio operativo per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite), poi organismi c.d. trans-statuali (transgovernmental) che assemblano componenti di pubbliche amministrazioni statali, poi  organismi a metà tra il pubblico e il privato con compiti di cooperazione e sviluppo (per esempio l’Africa Biodiversity Network), poi centinaia di Organizzazioni non governative (NGO) che operano nei vari settori del sistema alimentare spesso con incarichi o finanziamenti degli organismi internazionali, infine organismi privati che svolgono funzioni pubbliche (per esempio Ashoka, un network di imprese che opera in diecine di paesi allo scopo di introdurre pratiche innovative nell’agricoltura), tutti costituiti talvolta in modo permanente, altre volte per affrontare specifici problemi[10].
Non è finita qui. Abbiamo poi accordi bilaterali o multilaterali riguardanti specifici settori del sistema alimentare[11], progetti finanziati da organizzazioni internazionali (che spesso impongono agli stati nazionali destinatari di adeguare le proprie normative o le proprie istituzioni), e poi raccomandazioni, indicazioni e meccanismi di finanziamento (spesso accompagnati da clausole e impegni non divulgati) provenienti non solo da grandi  organizzazioni internazionali istituzionali ma da un grande numero di istituzioni e organizzazioni non governative. Infine, c’è una moltitudine di cartelli, accordi multilaterali e bilaterali, con clausole e impegni non sempre noti ai non addetti ai lavori (e tantomeno alle opinioni pubbliche dei paesi interessati)[12].
In conclusione, il sistema alimentare mondiale, a prima vista governato dalle regole di mercato (sostenuto da poche regole provenienti da trattati internazionali) è, in realtà, immerso in una fitta e intricata rete di norme, disposizioni, indicazioni, vincoli, clausole che si collocano in uno spazio intermedio tra il pubblico e il privato.
È una situazione che ha indubbiamente aspetti negativi: a un sistema di regole basato su fonti normative (vincolanti o di soft law), trasparente e conoscibile da chiunque, si è andato progressivamente sostituendo un sistema informe e opaco, tra la trasparenza e la segretezza, tra gestione democratica e autoritaria degli interessi generali e specifici dei vari settori che rientrano nel sistema alimentare: l’aumento del numero di protagonisti e di nuove tipologie di accordi e di norme ha comportato l’ampliarsi, il diversificarsi e l’estendersi delle relazioni, delle trattative, degli accordi sopranazionali che assumono forme e riguardano contenuti nuovi e diversi da quelli tradizionali della comunità internazionale.
Ci sono però anche aspetti positivi: infatti è proprio questa aggrovigliata rete che, pur con tutti i suoi punti oscuri, ha offerto la linea di galleggiamento che finora ha garantito la stabilità e l’efficienza del sistema.
A proposito di efficienza, non vanno dimenticati i progressi nella lotta contro la fame che questo sistema ha permesso di conseguire.
Ci sono, certo, in questo anno 2015 ancora 700 milioni di individui in situazione di povertà estrema (meno di 1,90 dollari al giorno) secondo le  stime diffuse qualche giorno fa dalla Banca Mondiale[13] e molti di più vivono in condizioni di insicurezza alimentare.
Ma gli individui in condizione di povertà estrema erano 800 milioni poco più di un anno fa, poco più di 900 milioni nel 2012 e ben 1,9 miliardi nel 1990 (allorché il limite era di 1 dollaro al giorno): tenendo conto dell’aumento della popolazione la percentuale di persone sottonutriti è scesa in poco più di venti anni dal 18.7% al 9,6% su scala globale e dal 23.4% a poco più del 12% nei paesi in via di sviluppo.

L’obiettivo del Millennium Development Goal – dimezzare la proporzione di individui sottonutriti nei paesi in via di sviluppo entro il 2015 – è quindi ormai a portata di mano e entro il 2030 potrà essere raggiunto il primo degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, denominato “Povertà Zero”[14]. 

Il Sistema alimentare mondiale sarà in grado di soddisfare la domanda di cibo in futuro?

Nel dibattito su questo argomento si confrontano orientamenti diversi, determinati sia dalla difficoltà di formulare previsioni in materia sociale e economica nel lungo periodo sia dalle differenti impostazioni ideologiche dei partecipanti.
L’aumento della popolazione e il diffuso accrescimento del benessere sono i due principali elementi dei quali si deve tenere conto.
La popolazione mondiale passerà dagli attuali 7 miliardi a 8-10 miliardi nel 2050 (l’approssimazione dipende dalla difficoltà di prevedere fertilità e mortalità nei decenni futuri, essendo entrambi fortemente influenzati da cause socio economiche). È comunque certo che alla metà del secolo ci sarà almeno un miliardo in più di persone e che l’aumento sarà quasi totalmente concentrato nei paesi più poveri[15].
Per nutrire la popolazione mondiale sarà necessario produrre molto più cibo. È stato stimato che nei prossimi 40 anni, si dovrà produrre più cibo che in tutti i passati 10.000 anni[16].
L’accrescersi del benessere provoca lo spostamento della domanda verso prodotti alimentari che richiedono un maggiore consumo di territorio e di risorse idriche, e, in particolare, verso la carne. Il  grafico elaborato dalla FAO illustra l’aumento del consumo di carne in rapporto all’aumento della popolazione negli ultimi cinquanta anni[17].

 

Secondo dati del 2012, l’ammontare di carne prodotta nel mondo è passata da 70 milioni di tonnellate nel 1961 a 278 milioni di tonnellate nel 2009: un aumento del 300% in 50 anni. La previsione della FAO è di 460 milioni di tonnellate 2050, un ulteriore aumento del 40% in 40 anni.
Sulla base di questi due elementi, ci sono previsioni improntate a pessimismo: secondo l’apocalittica previsione dei principali teorici del neomalthusianesimo, il Club di Roma, l'incremento della popolazione e il conseguente aumento di uso del suolo lanceranno "l'umanità verso un mondo sconosciuto, in gran parte al di fuori di ogni controllo"[18]. Possiamo poi ricordare anche Frank Rijsberman, direttore del Consultative Group on International Agricultural Research (CGIAR), una prestigiosa organizzazione internazionale che si dedica alla ricerca in materia di risorse alimentari, secondo il quale “Con circa 80 milioni di persone che si aggiungono alla popolazione mondiale ogni anno, l'agricoltura non sarà in grado di sostenere la crescente domanda di cibo".
Fortunatamente, maggiore è il numero degli ottimisti. Timothy Wise, direttore del centro sullo sviluppo sostenibile presso la Tufts University e specialista nello sviluppo agricolo, secondo il quale sarà sufficiente aumentare la produzione di cibo del 60% entro il 2050, obiettivo ragionevolmente raggiungibile con adeguati investimenti, limitando l’espansione dei biofuels, riducendo gli sprechi e contenendo il cambiamento climatico, sicché “non c’è nessun bisogno del produttivismo allarmistico che è oggetto di molte proiezioni”[19].
Amartya Sen, che già abbiamo ricordato, ha recentemente osservato (all’Expo di Milano) che “la questione della produzione alimentare è ampiamente esagerata. Nei decenni, la produzione è cresciuta molto più della popolazione. E può crescere ancora. Ma il meccanismo attraverso cui ciò può avvenire è economico: devono aumentare i redditi delle popolazioni, per metterle in grado di comprare; ciò farebbe crescere i prezzi agricoli, darebbe reddito ai coltivatori e si andrebbe verso una produzione maggiore e più ricca. Non siamo di fronte a una crisi della produzione alimentare o all’impossibilità di avere cibo[20].
Tra gli ottimisti si è schierata, sia pure con qualche cautela, anche la FAO che ha ripetutamente modificato le stime che inizialmente richiedevano un raddoppio della produzione di cibo entro il 2050: dapprima ha ridotto l’aumento necessario al 70%[21], poi, nel 2012 al 60% (l’aumento indicato anche da Wise)[22]. Queste indicazioni sono condivise anche dagli ultimi studi della Banca Mondiale, che indicano la necessità di un aumento di almeno il 50% della produzione di cibo nei prossimi 50 anni[23].
L’incremento della produzione necessario entro il 2050 è quindi – secondo le previsioni più aggiornate - quasi dimezzato rispetto alle previsioni di qualche anno fa.
In conclusione, è certamente vero che “The world food system faces unprecedented challenges in its ability to feed a growing global population” come si afferma nell’introduzione alla Conferenza di Zurigo cui abbiamo accennato.
Tuttavia, altrettanto indubitabile è che "se vengono approntati gli appropriati incentivi socio-economici, vi sono ancora degli ampi gap produttivi ‘colmabili' (per esempio, le differenze tra la produzione agro-ecologica ottenibile e quella effettiva) che possono essere sfruttati. Il timore che la produzione agricola stia raggiungendo il suo tetto massimo non sembra essere giustificato, se non in rarissimi casi particolari"[24].

Un sistema alimentare più sostenibile

Aumentare la produzione agroalimentare per soddisfare la domanda futura è quindi un obiettivo raggiungibile.
In realtà, sarebbe un obiettivo più facile da raggiungere se non vi fosse un limite che deve essere necessariamente rispettato e cioè la sostenibilità ambientale. L’aumento della produzione deve infatti essere realizzato con criteri di sostenibilità, quindi senza ridurre le foreste, le aree protette e la residua biodiversità, che già saranno sottoposte a una forte pressione dell’espansione urbana (destinata a aumentare in futuro)[25]. L’obiettivo  in altri termini deve essere raggiunto preservando l’ambiente.
A questo proposito il sistema alimentare mondiale può essere assimilato alle mani dell’uomo nel noto aforisma di Engels: le mani hanno creato gli strumenti di lavoro, ma gli strumenti di lavoro hanno plasmato le mani dell’uomo[26].   Così, se l’ambiente in cui viviamo ha creato nel corso dei millenni il nostro cibo e continua a crearlo e a modellarne la produzione, per converso il cibo di cui ci nutriamo e il sistema alimentare costruito per produrlo hanno creato e continuano a creare e a modificare il nostro ambiente. Questo significa che le modifiche indotte nell’ambiente dalle modalità prescelte per produrre i nostri alimenti incidono poi sul nostro sistema alimentare e, se attuate senza rispettare criteri di sostenibilità, rischiano di creare danni potenzialmente irreversibili.
Questo rapporto di reciproca continua interattività tra sistema alimentare e ambiente  comporta che in futuro le esigenze di preservazione dell’ambiente imporranno modifiche al sistema alimentare e, nel contempo, l’ambiente potrà a sua volta essere modificato e alterato dalle scelte che vengono oggi compiute per soddisfare la domanda futura di cibo.
Se si vogliono evitare pericolose alterazioni in questo processo di interazione è quindi necessario soddisfare la crescente domanda di cibo preservando l’ambiente e quindi, in particolare, le aree non ancora trasformate dall’utilizzazione urbana, industriale o agricola.
L’obiettivo di aumentare la quantità di prodotti alimentari che giungono ai consumatori finali deve quindi essere realizzato combinando due diverse strategie: da un lato aumentare la produttività delle aree che già hanno queste destinazioni, d’altro lato ridurre la quantità di prodotti alimentari che sono quotidianamente sprecati. 

agricoltura biologica e OGM

Non mi soffermo sull’argomento del contenimento degli sprechi, limitandomi a osservare che uno degli aspetti che spesso sono trascurati è la differenza delle cause dello spreco tra paesi sviluppati e paesi poveri. Nei primi, dove i dati sono più attendibili, esso avviene per la maggior parte ad opera dei consumatori e quindi a valle della catena del sistema alimentare (nell’Unione europea sono sprecati annualmente oltre 100 milioni di tonnellate di prodotti alimentari[27]); nei secondi, invece, si verifica nella fase del raccolto o immediatamente successiva per la mancanza di mezzi e strumenti per la conservazione e il trasporto: anche per questo i dati sono maggiormente approssimativi[28]. Mi soffermo brevemente invece sull’altro aspetto, quello dell’aumento della produttività.
Per raggiungere questo obiettivo è opinione diffusa tra tutti gli esperti che sarà necessario un deciso aumento degli investimenti nel sistema alimentare e specificatamente nell’agricoltura e nelle tecnologie collegate (tra il 1980 e il 2005 gli investimenti in questi settori si sono progressivamente ridotti. Da allora, la tendenza si è invertita, anche se restano assai bassi nei paesi in via di sviluppo)[29].
In quanto nel dibattito sul futuro dell’agricoltura e sulla capacità del sistema alimentare globale di nutrire la popolazione nel XXI secolo occupano uno spazio di rilievo due temi: l’agricoltura biologica e gli OGM.

A. La maggior parte degli esperti del sistema alimentare globale esclude che l’aumento della produttività necessario rispettando l’ambiente possa realizzarsi utilizzando coltivazioni biologiche: rinunciando ai benefici e alle innovazioni introdotte dalla Rivoluzione verde e in continuo sviluppo si otterrebbe non un aumento ma una diminuzione della produttività. Secondo l’opinione più diffusa, l’agricoltura biologica resta un prodotto di nicchia, destinato quindi a soddisfare un piccolo segmento di consumatori.
Negli ultimi anni queste conclusioni sono state contestate: molte organizzazioni di produttori di cibo biologico e molte associazioni ambientaliste hanno infatti affermato che l’agricoltura biologica potrebbe soddisfare la futura domanda di cibo, provocando meno danni all’ambiente dell’agricoltura tradizionale[30].
A sostegno di questa affermazioni viene spesso citato un recente studio, le cui conclusioni sono però riportate in modo parziale. Lo studio, pubblicato negli atti della Royal Society, dopo aver premesso che attualmente la differenza di produttività dell’agricoltura biologica rispetto all’agricoltura convenzionale è mediamente quasi del 20%, conclude che il gap potrebbe ulteriormente ridursi nei prossimi anni o addirittura annullarsi; precisa tuttavia che ciò potrebbe avvenire per talune coltivazioni e in alcune regioni e sempreché vi siano adeguati investimenti nella ricerca[31].
Quindi, questa ricerca pone in realtà in evidenza che l’ipotesi di affidarsi all’agricoltura biologica come strumento per soddisfare la futura domanda di cibo resta difficilmente realizzabile: è stato calcolato che per ottenere i medesimi risultati attualmente ottenuti con l’agricoltura convenzionale sarebbe attualmente necessario destinare all’agricoltura biologica negli Stati Uniti un area aggiuntiva di oltre 7 milioni di ettari (più della metà dell’intero territorio coltivato in Italia): soluzione non immaginabile per gli Stati Uniti e ancora meno su scala mondiale[32].

B. Deve invece essere invece oggetto di maggiore valutazione, tenuto conto del perdurante conflitto in corso,  se sia necessario utilizzare le coltivazioni GM per ottenere l’aumento della produttività necessario, oppure se questi obiettivi potranno essere raggiunti senza che le coltivazioni GM assumano un ruolo determinante. In realtà, il fabbisogno di cibo nel mondo è già oggi soddisfatto anche mediante coltivazioni GM.
Nel 2014 gli ettari coltivati a GM nel mondo sono  stati 181 milioni: un incremento di oltre cento volte rispetto a venti anni prima[33]. Oggi le coltivazioni biotech riguardano 18 milioni di coltivatori in 28 paesi. Nel 70% degli alimenti in commercio nel mondo sono presenti uno o più ingredienti che contengono GM. Tra l’altro, è ormai affidata a coltivazioni GM la maggior parte della produzione di mangimi e cibo per animali (in proposito, in Europa è importato il 95% della soia utilizzata per mangimi, e quasi l’80% della soia extraeuropea è GM). Quindi, per sostenere la crescente domanda di carne (un punto su cui torneremo tra breve), sarà certamente necessario un ulteriore incremento delle coltivazioni GM nel mondo. Una ipotetica messa al bando delle coltivazioni GM nel mondo non solo non consentirebbe di raggiungere l’obiettivo di soddisfare la domanda di cibo nel futuro, ma non consentirebbe neppure il soddisfacimento della domanda attuale.
Molti affermano che le coltivazioni GM avrebbero esaurito la loro capacità di espansione, sicché sarebbe altamente rischioso confidare in questa tecnologia in futuro.
Non è così. Oltre alle numerose varietà già presenti sul mercato (alcune delle quali, come la papaya GM, hanno consentito al frutto di sopravvivere all’estinzione in talune regioni[34]), molte sono in fase di avanzata sperimentazione o in attesa di superare tutte le verifiche stabilite dai vari organismi. Tuttavia, la forte opposizione all’utilizzazione di prodotti agricoli GM ha provocato un enorme aumento dei costi e dei tempi necessari per poterli immettere sul mercato. È un’opposizione che, contrariamente a quanto si pensa, non è sgradita alle poche multinazionali in grado di affrontare gli ingenti investimenti e i tempi necessari per portare un singolo prodotto sul mercato. Infatti, in questo modo  l’accesso al mercato è precluso a diecine di piccole imprese che pure avrebbero capacità e preparazione tecnologica necessaria  ad alto contenuto tecnologico nel settore  ed è paradossalmente garantito proprio dagli oppositori l’oligopolio oggi esistente. 

La troisième roue o il terzo incomodo: il cambiamento climatico

Si è detto che il sistema alimentare globale dovrà quindi in futuro mantenersi in equilibrio perseguendo i due obiettivi dell’aumento della produttività e della riduzione degli sprechi: in questo modo potrà soddisfare la domanda futura preservando l’ambiente.
Tuttavia, in questo ingranaggio di fragile equilibrio interattivo si è da alcuni anni inserito un terzo incomodo, o  usando l’espressione francese più adatta a questo caso, une troisième roue, una terza ruota: il cambiamento climatico, un fenomeno che, come l’evoluzione del sistema alimentare, è oggetto, ormai da più di venti anni, di stime e sofisticati modelli per prevederne gli effetti sull’ambiente e sulle attività umane.  Ma passare in un ingranaggio da due a tre ruote crea dei problemi.
Il cambiamento climatico infatti intreccia a sua volta con l’ambiente e con il sistema alimentare rapporti riconducibili all’aforisma di Engels: l’ambiente, come trasformato dall’attività umana, modifica il clima e crea il cambiamento climatico; a sua volta, il cambiamento climatico modifica l’ambiente. E, allo stesso modo, nell’altro rapporto di questo triangolo, il sistema alimentare modifica il clima ma, nello stesso tempo, il cambiamento climatico impone modifiche nel sistema alimentare. Soffermiamoci brevemente su questi ultimi aspetti.
Secondo l’IPCC, nel 2010 tra il 20% e il 25% delle emissioni a livello globale sono attribuibili all’agricoltura, alle attività forestali e ai mutamenti delle destinazioni del suolo connessi[35]. Secondo un precedente importante studio della FAO, l’allevamento genera il 18% delle emissioni globali di GHG, ma altri studi indicano cifre assai più alte[36]. Sono percentuali che, aggregate, superano quelle dei combustibili fossili.  
Il sistema alimentare è quindi una delle cause più importanti del cambiamento climatico e, senza adeguati correttivi, lo sarà in misura sempre più massiccia per effetto non solo dell’accrescersi della popolazione, ma anche del diffondersi di situazioni di relativamente maggior benessere in paesi precedentemente poveri e del mutare delle abitudini e delle propensioni alimentari che ciò produce (su cui ci siamo soffermati sopra).
D’altro canto, l’aspetto positivo di queste elevate emissioni del settore agrozootecnico è che offrono ampie possibilità di interventi per ridurre e mitigare l’impatto.
L’esempio dell’Unione europea è in proposito illuminante:  nel periodo 1990–2005 le emissioni agricole totali dell’UE sono diminuite del 20 % grazie a cambiamenti nelle tecniche di coltivazione, alla diminuzione dell’uso di fertilizzanti nitrogeni (e anche alla minor quantità di bestiame complessivamente allevato).
Importanti effetti di mitigazione ha ottenuto anche a livello globale il diffondersi di coltivazioni OGM che hanno permesso di ottenere  una rilevante riduzione dell’uso di pesticidi, antiparassitari e altri prodotti chimici che contribuiscono in modo rilevante al cambiamento climatico.
Ma, come abbiamo visto, il rapporto tra sistema alimentare è cambiamento climatico è bilaterale: così il cambiamento climatico e non solo il prodotto (anche) del sistema alimentare, ma è anche la causa di importanti modifiche nella produzione di cibo.   Molti sono gli studi che si sono dedicati a formulare previsioni sugli effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura, per lo più giungendo ad una conclusione condivisa[37].
L’aumento della temperatura produrrà un impatto negativo sulla produzione agricola nelle regioni equatoriali e tropicali; avrà invece effetti positivi in aree  lontane dall’Equatore, sia perché potranno essere coltivate specie oggi diffuse nelle regioni più meridionali, sia perché potrà aumentare la produttività delle coltivazioni esistenti. Alcuni studi ipotizzano che potranno ridursi mediamente del 10% le coltivazioni più diffuse a basse latitudini, mentre potranno aumentare della stessa percentuale le coltivazioni diffuse a latitudini medie e medio-alte
C’è un bellissimo libro di una giornalista scientifica americana, Elisabeth Kolbert, The Sixth Extinction, che mostra gli effetti del cambiamento climatico che già si stanno verificando nel mondo; per esempio, nelle regioni montuose del Peru, a causa del cambiamento climatico molte specie di alberi si spostano di anno in anno verso l’alto, abbandonando zone non più climaticamente adatte. Lo stesso accade al sistema alimentare, su scala planetaria, per effetto del cambiamento climatico: il movimento non è verso l’alto ma verso latitudini più alte.
A prima vista, può sembrare che, su scala globale, il sistema alimentare potrà mantenere il suo fragile equilibrio: ciò che si ridurrà nelle aree divenute troppo calde si recupererà nelle aree che diverranno meno fredde. I danni provocati dal cambiamento climatico in alcune aree saranno compensate dai benefici che ne trarranno altre aree.
Ma questa rassicurante conclusione che alcuni studi propongono non tiene conto del fatto che l’aumento della produttività agricola si verificherà in aree non densamente popolate e in parte già sviluppate (Nord Europa), mentre la riduzione della produzione alimentare si verificherà nelle aree più povere del pianeta, proprio dove si verificherà l’aumento della popolazione nei prossimi decenni, con conseguenze di carattere geopolitico, economico e umanitario di vasta portata: in particolare, ci sarà un forte aumento dei rifugiati ambientali (categoria peraltro ancora non riconosciuta a livello internazionale) che, secondo stime delle Nazioni Unite e del rapporto Stern, potrebbero superare i 200 milioni di persone entro il 2050[38].
C’è solo da aggiungere che l’ondata migratoria oggi in atto, sia pur provocata da eventi estemporanei (quali la guerra in Siria e le drammatiche condizioni dell’Eritrea) è stata preannunciata nel 2005 da un centro studi delle Nazioni Unite (UN University’s Institute for Environmental and Human Security) allorché ha avvertito che la comunità internazionale avrebbe dovuto prepararsi a ricevere almeno 50 milioni di rifugiati ambientali nel 2010 (il solo processo di desertificazione in Africa produce, secondo questo studio, diecine di milioni di rifugiati ogni anno)[39].

Conclusioni

Il complicato rapporto di reciproca interattività del sistema alimentare globale con l’ambiente non solo è rimasto stabile negli anni della globalizzazione, ma ha anche permesso di ridurre l’enorme numero delle persone affamate nel mondo. La prospettiva di continuare a garantire la domanda globale di cibo e di ridurre ulteriormente la quantità di persone sottonutrite in futuro è, come abbiamo visto, ragionevole secondo molti studiosi del settore e secondo la stessa FAO.
Tuttavia, Il cambiamento climatico può alterare in profondità l’attuale equilibrio. Anche le stime cui abbiamo accennato, che ipotizzano riduzioni nelle aree tropicale e equatoriali compensate da aumenti della produzione nelle aree più vicine ai poli si basano pur sempre su un aumento della temperatura non superiore a 2° C entro la fine del secolo, cioè sull’aumento massimo della temperatura terrestre che IPCC ha indicato come obiettivo della comunità internazionale per evitare alterazioni imprevedibili e potenzialmente catastrofiche all’ambiente, e quindi al sistema alimentare mondiale.
È questo l’obiettivo che dovrebbe essere stabilito a Parigi dalla COP21 delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico  ottenendo l’adesione di tutti i maggiori produttori di gas serra.  Gli impegni che proprio in queste ultime settimane stanno assumendo la Cina (alla quale è attribuibile la metà della crescita globale delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera dal 2002 al 2012)[40] e l’India (terzo produttore di gas serra nel mondo, ma con un sistema alimentare assai vulnerabile da aumenti della temperatura)[41] e l’esito delle recentissime elezioni in Canada (dove ha vinto il partito che sostiene la necessità di introdurre regole vincolanti per la riduzione del cambiamento climatico) inducono a essere cautamente ottimisti, anche se gli impegni assunti sono ancora lontani dal garantire il rispetto, a livello globale, del limite dell’aumento di 2°C.
Se la COP21 dovesse concludersi senza seri impegni vincolanti e se quindi risultasse chiaro che l’obiettivo indicato dal IPCC non potrà essere rispettato, la terza ruota, il cambiamento climatico, potrà produrre effetti imprevedibili sull’equilibrio di sistema alimentare e ambiente nel prossimo futuro. È importante quindi assumere sin d’ora iniziative che impongano ai Governi, anche senza un accordo internazionale, di operare per rispettare le indicazioni dell’IPCC.
A questo proposito va  sostenuta la proposta di formulata al Vertice ONU sul Clima sul  Alleanza Mondiale per l'Agricoltura Intelligente, consistente in una coalizione di stakeholder tra cui governi, agricoltori, produttori, trasformatori e rivenditori di cibo; organizzazioni scientifiche ed accademiche; attori della società civile; agenzie multilaterali e internazionali e settore privato, con il compito di promuovere iniziative per il contenimento del cambiamento climatico.

n.d.r Il testo pubblicato è parte dell'intervento di Stefano Nespor nel corso del convegno "Nutrire il pianeta? Il ruolo dell’Europa nello sviluppo economico e alimentare mondiale", Ferrara 23 ottobre 2015



[1] A.F. McCalla – C.L.Revoredo, Prospects for global food security: a critical appraisal of past projections and predictions, in Food, agriculture, and the environment discussion paper 35, International Food Policy Research Institute, Washington, DC 2001.

[2] La conferenza è stata introdotta dalla seguente presentazione: “The world food system faces unprecedented challenges in its ability to feed a growing global population. There is an urgent need for viable solutions and the scope of the challenges requires collaborative efforts more than ever”:  http://wfsconference2015.org/

[3] Il tema del Summit: Implications of Taking a Systems Approach. Where Industry, Technology, and Academia merge to focus on dynamic and innovative approaches to global food systems. Si veda  https://ipp.cifs.cornell.edu/news-events/cornell-food-systems-global-summit

[4] Kym Anderson, Globalization's effects on world agricultural trade, 1960–2050 in Charles H.Godfray e altri, Food security: feeding the world in 2050, Philosophical Transactions B, Royal Society n.365 vol.365 2010. Questo volume pubblicato dalla Royal Society contiene numerosi saggi sui temi qui trattati e a essi farò spesso riferimento. Il saggio di Anderson è reperibile in http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/3007

[5] Vedi Oily Food, in The Economist 10\10\2015

[6] È stata denunciata la fragilità del sistema alimentare globale allorché si verificò nel 2008 un aumento dei prezzi del grano e del riso creando panico e disordini in varie città africane: vedi  Michael J Puma ed altri, Assessing the evolving fragility of the global food system, in Environmental Research Letters, 2015. Tuttavia, proprio le interconnessioni del sistema alimentare globale permisero di risolvere rapidamente la crisi, allorché il Giappone acconsentì a porre sul mercato ingenti quantità di riso tratte dalle proprie riserve. Si veda anche Oxfam International, Growing a better future, https://www.oxfam.org/en/growing-better-future.

[7] Uno degli effetti della globalizzazione è stato l’enorme incremento della circolazione e del trasporto di cibo (semi, piante, animali) e di materie prime connesse (fertilizzanti, pesticidi, prodotti chimici, farmaceutici e sanitari e strumenti per la conservazione e il confezionamento dei prodotti). Una ricerca dell’Università del Minnesota ha ricostruito la composizione e l’origine di un normale cheeseburger: ci sono oltre 50 diversi ingredienti che provengono da paesi dislocati su ogni continente, escluso l’Artico: vedi  Will Hueston- Anni McLeod, Overview Of The Global Food System: Changes Over Time/Space And Lessons For Future Food Safety in Improving Food Safety Through a One Health Approach,  Institute of Medicine, Washington 2012. Un altro effetto della globalizzazione è l’enorme espansione della distribuzione di prodotti freschi provenienti da mercati in precedenza marginali: il fenomeno è stato già segnalato nel 1994 da Philip McMichael, Agro-Food System Restructuring: Unity in the Diversity, pag.12, in Philip McMichael (a cura di), The Global Restructuring of Agro-food Systems, Cornell University Press, N.Y. 1994.

[8] Nel 2007, allorché i prezzi dei prodotti agricoli hanno cominciato a salire, l’India ha ristretto le esportazioni di riso per contenere i prezzi e agevolare la popolazione. Questo ha provocato problemi nei paesi importatori di riso indiano, in particolare il Bangladesh. Analoghe restrizioni all’esportazione di riso sono state adottate da Cina e Vietnam e queste politiche, secondo la World Bank, hanno pesantemente inciso sulla quotazione internazionale del riso: vedi Oly Food in The Economist, cit.

[9] Basti ricordare gli Accordi in materia presso il WTO: l’Agreement on Agriculture,  l’Agreement on Sanitary and Phytosanitary Measures - SPS e l’Agreement on Technical Barriers to Trade -TBT

[10] Per una approfondita analisi e una rassegna di tutti questi organi internazionali si veda Sabino Cassese e altri (a cura di), Global Administrative Casebook, 3° ediz., Institute for International Law, N.Y. 2012

[11]È il caso del cartello dell’International Coffe Agreement - ICO  stipulato nel 1962 tra paesi produttori e paesi consumatori e, salvo un breve intervallo, periodicamente rinnovato Vedi la pagina ufficiale: www.ico.org/.   per esempio, per il riso l’accordo tra Unione europea e paesi dell’America centrale (regolamento Ue n. 924/2013 prevede un contingente tariffario annuo di 20.000 tonnellate di riso in esenzione del dazio a favore dei paesi dell'America Centrale); per le banane c’è un accordo tra Unione europea e alcuni paesi africani e caraibici che ha stabilito un regime preferenziale per l’importazione di banane (duramente contestato dagli Stati Uniti che hanno portato la questione al WTO).

[12] Molte cessioni in uso di vasti territori a scopo di coltivazione ad altri Stati (sono i casi del c.d. land-grabbing) sono spesso disposte con contratti tra il Governo dello stato cedente e quello dello Stato cessionario (o sue ramificazioni) con clausole e modalità di pagamento che restano ignote.  

[13] Vedi la notizia sul Corriere della sera del 6 ottobre2015

[14]www.agenda-2030.com/; https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld. Non va dimenticato inoltre che la fame non viene dalla mancanza di cibo ma dalla povertà, come ha insegnato l’economista indiano premio Nobel Amartya Sen: a decidere se una persona mangerà o meno non è la quantità di pane che c’è sullo scaffale del negozio, ma quella di denaro in fondo alle sue tasche. E la povertà dipende da molti fattori: le guerre, la disuguaglianza e la mancanza di meccanismi di inclusione, le discriminazioni sociali, le discriminazioni contro le donne, l’accesso all’istruzione.

[15] Wolfgang Lutz, KC Samir, Dimensions of global population projections: what do we know about future population trends and structures? con richiami e riferimenti in Godfray e altri, cit., http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2779

[16] Barbarians at the gate, in The Economist, 3\1\2015.

[17] Sulla c.d. transizione nutrizionale verso cibi a base di carne si veda  J. Kearney, Food consumption trends and drivers in Godfray e altri, cit. http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2793. 

[18] Limits to Growth, 2012.

[19] Timothy A. Wise, Can We Feed the World in 2050? A Scoping Paper to Assess the Evidence, in www.ase.tufts.edu/gdae/policy_research/FeedWorld2050.html 

[21] World Food Summit, Declaration of the World Summit on Food Security 1, n.1 in www.fao.org/fileadmin/temp lates/wsfs/Summit/Docs/Final Declaration/WSFS09 Declaration.pdf.

[22] nello stesso senso anche Nikos Alexandratos and Jelle Bruinsma, World Agriculture Towards 2030/2050 The 2012 Revision ESA Working Paper No. 12-03, Roma.

[24] N. Alexandratos e J. Bruinsma, World agriculture towards 2030/2050: the 2012 revision, ESA Working paper No. 12-03. FAO, Roma 2012. È stato calcolato che l’obiettivo sarebbe raggiunto con un aumento della produttività globale complessiva di circa 1,5% all’anno dei cereali più diffusi. È un obiettivo raggiungibile, se si tiene conto che attualmente gli aumenti sono: 0.9% per il frumento, 1% per il riso e 1,6% per il mais.

[25]secondo la World Bank, nelle aree urbane o urbanizzate vive attualmente il 53% della popolazione mondiale, con una punta del 80% nei paesi OECD:  http://data.worldbank.org/topic/urban-development

[26]La frase è tratta da un articolo scritto probabilmente nel maggio-giugno del 1876, pubblicato per la prima volta solo vent’anni dopo, nel 1896, sulla rivista Die Neue Zeit.

[28] Julian Parfitt, Mark Barthel, Sarah Macnaughton, Food waste within food supply chains: quantification and potential for change to 2050  in Charles H.Godfray, cit., http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/3065

[29] How to feed the world, in The Economist 19\11\2009

[30] La tesi è esposta in numerosi siti rintracciabili con Google. Si veda, per esempio, Worldwatch Institute, Can Organic Farming Feed Us All?, 22\9\2015,  www.worldwatch.org/node/4060

[31] Lauren Ponisio e altri, Diversification practices reduce organic to conventional yield gap, 10\12\2014, in The Royal Society, Proceedings B gennaio 2015  http://rspb.royalsocietypublishing.org/content/282/1799/20141396. Gli autori concludono che “appropriate investment in agroecological research to improve organic management systems could greatly reduce or eliminate the yield gap for some crops or regions”. Lo studio è stato ampiamente citato anche dalla stampa non specializzata. Tra i molti si veda Tom Bawden, Organic farming can feed the world if done right, scientists claim, The Independent 14\12\2014 http://www.independent.co.uk/environment/organic-farming-can-feed-the-world-if-done-right-scientists-claim-9913651.html; Can Organic Food Feed the World? In Wall Street Journal 12\7\2015 http://www.wsj.com/articles/can-organic-food-feed-the-world-1436757046

[32]Il dato è stato fornito dal  National Agricultural Statistics Service nel 2011: si veda Steve Savage in Can Organic Food Feed the World? In Wall Street Journal 12\7\2015 http://www.wsj.com/articles/can-organic-food-feed-the-world-1436757046

[33] Si tratta di un record nell’introduzione di nuove tecnologie nell’agricoltura:  Gurdev S. Khush, Genetically Modified Crops: The Fastest Adopted Crop Technology in the History of Modern Agriculture, in Agriculture & Food Security 1, 2, 2012). L’aumento più consistente nel periodo più recente si è verificato in India: si è passati da 50.000 ettari coltivati a cotone GMO nel 2002 a 7,7 milioni di ettari nel 2014 coltivati da 11.6 milioni di piccoli coltivatori: un aumento di oltre 230 volte. Nel 2014, il Bangladesh si è aggiunto al numero dei paesi che ammettono le coltivazioni biotech, avendo approvato la coltivazione di una melanzana adattata alla coltivazione in zone particolarmente umide (BT brinjaul eggplant) I dati sono tratti da ISAAA, Brief 49-2014: Executive Summary. L’International Service for the Acquisition of Agribiotech Applications (ISAA) è un network con tre sedi in Nairobi, Kenya,  Cornell University, NY, e Los Banos Filippine (si vedano i programmi e gli obiettivi in www.isaaa.org/programs/default.asp). Si veda anche MARGARET ROSSO GROSSMAN, Genetic Technology and Food Security, in The American Journal of Comparative Law, 62, 2013.

[34] Sulla vicenda della papaya hawaiiana  si veda per esempioTom Callis, Papaya: A GMO success story in Hawaii Tribune Herald 10\6\2013 http://hawaiitribune-herald.com/sections/news/local-news/papaya-gmo-succ...

[35] G. Blanco e altri, Section 5.3.5.4: Agriculture, Forestry, Other Land Use, in: Chapter 5: Drivers, Trends and Mitigation (archived 30 December 2014), in: IPCC AR5 WG3 2014, p. 383.  

[36] Henning Steinfeld ed altri, Livestock long Shadow. Environmental Issues and Options, FAO, 2006, http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.HTM.  L’allevamento di bestiame contribuisce oggi al cambiamento climatico in una percentuale che varia tra il 6% e il 32%, a seconda degli elementi e delle variabili che vengono presi in considerazione: solo le emissioni direttamente prodotte dal bestiame o il totale delle emissioni provocate dall’intero ciclo produttivo a partire dalle coltivazioni agricole necessarie e quindi la produzione di pesticidi e fertilizzanti, e le opere agricole connesse.

[37] Si veda l’articolo riassuntivo di Jemma Gornall e altri, Implications of climate change for agricultural productivity in the early twenty-first century, in Godfray e altri, cit. http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2973; molti dati interessanti sono in Ewert F. e altri, Future scenarios of European agricultural land use: Estimating changes in crop productivity in Agric. Ecosyst. Environment.  pag. 107, 2005 http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0167880904003627

[38] Sono stime contenute nella Stern Review on the Economics of Climate Change, www.wwf.se/source.php/1169157/Stern%20Report_Exec%20Summary.pdf

[39]Bisogna ricordare che nell’ottobre 2012 la Svizzera e la Norvegia hanno promosso l’iniziativa Nansen, per sviluppare  un programma di protezione dei profughi nei casi legati al cambiamento climatico. 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: