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Si fa presto a dire “terra dei fuochi”

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Fuochi. Un contesto

Quando si dice “terra dei fuochi”, il pensiero corre subito a quelle aree fra le province di Caserta e Napoli nelle quali gruppi di delinquenti (coperti in passato dalle tre scimmiette che non sentono, non vedono, non parlano) hanno sepolto grosse quantità di rifiuti soprattutto tossici e nocivi. E poi (delinquenti ignoranti qual sono, non avendo mai letto e sentito parlare della Geenna nella quale sarebbe auspicabile una loro lunga permanenza) gli hanno dato fuoco immettendo nell’aria, nei polmoni e in altri organi del corpo dei residenti quegli stessi elementi di tossicità e nocività che contenevano.

Ma non è solo questo, non solo in Campania, certamente. Perché volendoci allargare al contesto, come si dice, è la Terra stessa che potrebbe essere così definita. Perché il pianeta che era una "palla di fuoco" si è andata poi raffreddando, ma il fuoco è molto presente nel suo sottosuolo e moltissime sono le aree vulcaniche attive. Meno male sembra dirci la geoingegneria, perché più sono attive e con pesanti eventi eruttivi meglio possono andare le cose per attenuare gli effetti dei mutamenti climatici. Ce lo dice David Wallace-Wells (se ne parla in Fabio Deotto - “Facciamo l’aerosol alla Terra” - La lettura del 31 luglio 2017) con un articolo del 9 luglio 2017 - “The Unhabitable Earth” - sul New York Magazine. Qui, dopo avere avvertito che l’umanità sta andando rapidamente incontro a una catastrofe in gran parte provocata dai mutamenti climatici, ricorda anche l’eruzione del Pinatubo dell’aprile 1991. Un’eruzione che emise in atmosfera particelle di diossido di zolfo le quali crearono una specie di filtro delle radiazioni solari col risultato che per un paio d’anni la temperatura globale si ridusse di circa mezzo grado.

Dunque? Se lo ha fatto il Pinatubo perché non anche noi artificialmente, appunto, con la geoingegneria? Magari appiccando qualche fuoco in più o provando a sollecitare a fare il loro dovere di vulcani il Vesuvio e i Campi Flegrei, tanto per provare.

Ma veniamo a noi: “terra di fuochi” e “terra di cuochi”

Cominciando proprio dalla cosiddetta “terra dei fuochi” alla quale ho appena fatto cenno. Una così “fortunata” definizione ha dato grande diffusione e rilevanza mediatica al fenomeno in seguito anche alla partecipazione di sacerdoti e oncologi che hanno immediatamente collegato gli effetti di quel disgraziato evento ai casi di morbilità e mortalità registrati nell’area coinvolta.

Immediatamente ne ha risentito l’agricoltura campana. Campana, cioè regionale, perché le informazioni, mediate dalla maggioranza dei mezzi di comunicazione solo a danno ormai avvenuto, hanno invitato a distinguere tra prodotti coltivati nella, peraltro ristretta, area dei fuochi e quelli del resto della ricca, fiorente e “pulita” agricoltura campana. Vale a dire che il danno provocato all’agricoltura in seguito alla presenza nel sottosuolo di rifiuti tossici e alla ricaduta al suolo dei prodotti della combustione è “limitabile” al 3-4% del territorio lasciandone esente (almeno per queste cause) la restante superficie.

Non solo. Anche per quanto riguarda il rapporto con la morbilità e la mortalità –ritenuta specialmente preoccupante per i bambini - la ricerca scientifica di istituzioni quale l’Istituto Superiore della Sanità non ha evidenziato alcuna correlazione causale. In particolare è stato dimostrato che nella popolazione infantile della Campania - anche quelli residenti nei 90 comuni della “terra dei fuochi” - si ammalano e muoiono di tumore come tutti gli altri coetanei d’Italia.

Queste “precisazioni” mi sembrano doverose per un’informazione scientificamente corretta. Esse, tuttavia, non sminuiscono la gravità delle cause che hanno portato alla definizione di “terra dei fuochi” e nulla tolgono alla necessità di interventi che, circoscritta con precisione l’area coinvolta, ne blocchino le coltivazioni e nei tempi necessari provvedano alla bonifica dei siti e alla contemporanea rinaturalizzazione.

Per il resto della regione esente da questo tipo di problemi mi pare molto utile e intelligente l’obiettivo di Legambiente di trasformare la Campania dalla “terra dei fuochi” alla “terra dei cuochi”: un progetto per promuovere l’agricoltura di qualità e le sue trasformazioni eno-gastronomiche.

Continuiamo con i fuochi appiccati

“Guerra dei fuochi. Cosa sta succedendo in Campania?”. Si chiedeva l’Associazione A Sud il 1° agosto. E vi ha dato risposte con un lungo #StopBiocidio: “Da settimane la Campania brucia senza sosta. Non brucia solo il Vesuvio, le cui immagini fanno il giro del mondo. L'intera regione è sotto la morsa del fuoco senza che si riesca a fermare il disastro. Sono andate a fuoco montagne, riserve naturali, parchi nazionali, strade e quartieri. I cittadini campani, tutti i comitati della rete Stop Biocidio, sono convinti che non si tratti semplicemente della piromania diffusa con cui facciamo i conti ogni estate: gli incendi sistematici, la pervasività del fuoco sono troppo diffusi perché non siano frutto di un disegno criminale architettato e che mira allo scopo di mettere in ginocchio una regione per ricattare qualcuno. 
Come A Sud stiamo seguendo da vicino, da dentro, questa battaglia, come ogni volta che la Rete Stop Biocidio ha avuto bisogno di tutto il sostegno possibile, e vogliamo raccontare questa storia a tutti quelli che vorranno ascoltarla, andando oltre il muro di silenzio mediatico che sta oscurando quella che è una tragedia nazionale”.

Il racconto è stato costruito con la riproposizione di un’ampia serie di “servizi dei giornalisti del territorio” documentati e interessanti. Personalmente provo a riflettere su cause, effetti e motivi.

Le cause. Ormai non c’è più alcuno che parla di autocombustione. E siamo d’accordo. Anche se una stagione così disgraziatamente arida e siccitosa ha certamente agevolato il rapido accendersi e propagarsi del fuoco appiccato per colpa (mozziconi di sigarette, colazioni con braci all’aperto e via elencando cretinate del genere); per dolo (interessi personali e di gruppo); per goderne la vista (la piromania).

Per tutte queste cause, soprattutto la seconda come ormai sempre più accertato, l’estate del 2017 ha visto bruciare migliaia di ettari soprattutto nel Mezzogiorno, particolarmente in Campania e Sicilia, in modo ancora più sconvolgente in aree naturali protette. In queste ultime la Campania ha subito drammatiche devastazioni nei Parchi nazionali del Vesuvio e del Cilento e nella preziosa riserva degli Astroni nei Campi Flegrei.

Se gli effetti degli incendi sono stati prevalentemente la devastazione di ampi territori nelle aree protette dalla legge 394 che nel 1991 li eresse a Parchi nazionali, bisogna necessariamente chiedersi quali motivi ne sono alla base. Per quali vantaggi, personali e di gruppo come dicevo, con regolare puntualità giorno dopo giorno, notte dopo notte, criminali organizzati vi hanno dato fuoco? È una domanda alla quale è difficile dare risposte ragionevolmente esatte e motivate. Ma una cosa è certa. Ed è che gli incendi estivi non sono una novità e si ripropongono annualmente più o meno negli stessi posti. Una volta appiccati e diffusi è quasi impossibile spegnerli ed elicotteri e canadair quando sversano tonnellate di acqua lo fanno soprattutto per circoscrivere l’area di espansione. Spegnerli no, ma prevenirli sì. Questa dovrebbe essere nel ventunesimo secolo la regola da praticare in presenza di rischi prevedibili: nelle modalità, nei luoghi e nei tempi in cui si possono verificare. Vale anche per gli incendi che potrebbero essere prevenuti se il territorio vulnerabile fosse manutenuto e tenuto sotto osservazione da aprile ad ottobre. Con grande risparmio del denaro speso per gli “spegnimenti”; con qualche occasione di lavoro per la manodopera stagionale utilizzata per avvistamento dei fuochi e pulizia del sottobosco; con la grande riduzione dei danni alla natura e all’agricoltura.

E per finire, proseguiamo con i fuochi naturali

Sono quelli che stanno nel cuore dei vulcani attivi, ancorché dormienti, Vesuvio, Campi Flegrei - tra le aree più devastate dagli incendi - e Ischia. Come ricorda il benemerito Osservatorio vesuviano, i vulcani rappresentano un aspetto peculiare del territorio della Campania, elementi caratteristici del paesaggio, ma anche potenziale fattore di rischio per gli abitanti.

Rischi soprattutto incombenti in quella “ideale” terra dei fuochi ad Ovest e ad Est di Napoli: Campi Flegrei e Somma-Vesuvio. Aree tra le più vulnerabili della Terra (questa volta con la T maiuscola). Vulnerabilità che, come insegna la conoscenza scientificamente corretta e come tale sempre più da diffondere, non dipende tanto o solo dalla probabilità di un’eruzione esplosiva dei due vulcani, ma dalla quantità di popolazione e dei suoi beni immobili nelle aree a rischio. Vale a dire: oltre 700.000 residenti nell’oriente vesuviano e circa 150.000 nell’occidente flegreo. Senza trascurare che anche l’isola d’Ischia è un campo vulcanico attivo, la cui ultima manifestazione eruttiva è stata la colata lavica dell’Arso, nel 1302.

In questi casi e con buona pace per la geoingegneria, il fuoco che “cova sotto la cenere” delle precedenti ultime eruzioni (1944 nel Vesuvio e 1538 nei Campi Flegrei) non può essere appiccato o in qualunque altro modo accelerato da esseri umani portatori di interessi quali che siano.

No, ma i danni che ne possono derivare, quelli sì, sono stati abbondantemente “promossi” da esseri umani i quali, nell’incoscienza e ignoranza che ha caratterizzato chi amministra luoghi e persone, hanno costruito dovunque incrementandone pericolosamente la vulnerabilità.

 


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