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Rileggiamo la storia della pandemia con lenti One Health

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L’articolo è uscito su The Nation del 14 luglio: https://www.thenation.com/article/society/pandemic-definition-covid/ e ripubblicato su Scienzainrete per gentile concessione della rivista. Scelto e tradotto da Davide Lovisolo.

Tempo di lettura: 13 mins

Nell’estate del 1832, un flagello misterioso proveniente dall’Asia incombeva sulla città di New York, dopo aver devastato Londra, Parigi e Montreal. I medici avevano raccolto dati che dimostravano che la misteriosa malattia – il colera – si stava propagando lungo il canale Erie, inaugurato da poco, e il fiume Hudson, puntando dritto su New York; ma gli amministratori della città non cercarono di regolare il traffico che scendeva lungo le vie d’acqua.

Buona parte della ragione stava nelle esigenze del commercio; le autorità sapevano che chiudere le vie di traffico avrebbe colpito potenti interessi commerciali. Ma altrettanto forte era la convinzione che tutto ciò non era necessario. Secondo il paradigma dominante, contagi come il colera si propagavano via nuvole di gas maleodoranti chiamate miasmi. Il colera, sosteneva un esperto del tempo, era “una malattia atmosferica… trasportata sulle onde del vento”. Per proteggersi da questi gas mortiferi, la gente bruciava barili di catrame e appendeva in cima a pali grossi pezzi di carne, con la speranza che assorbissero i vapori del colera. A Londra si cercò di liberare le case dai miasmi puzzolenti gettando i rifiuti umani nel fiume, che serviva anche per il rifornimento di acqua da bere.

Le storie che la gente raccontava nel bel mezzo del contagio decisero la loro sorte. Esplosioni di colera colpirono Londra, New York e molte altre città per buona parte del secolo, uccidendo milioni di persone.

I paradigmi – quelle implicite e oscure intelaiature concettuali che plasmano le nostre idee – sono molto potenti. Portano ordine e coerenza alle nostre osservazioni relative al mondo che ci circonda, disordinato ed in continuo cambiamento. Senza di essi, come ha detto il filosofo Thomas Kuhn, la conoscenza scientifica sarebbe impossibile: non sapremmo che domande porci o quali dati raccogliere. Ma i paradigmi ci possono anche rendere ciechi, come nell’epidemia di colera del 19esimo secolo, sostenendo particolari narrazioni e servendo particolari interessi, sovente a nostro rischio.

Oggi, di nuovo, siamo di fronte ad un patogeno virulento e a rapida propagazione. La nostra conoscenza scientifica ha fatto progressi dal tempo del colera, ma è comunque ingabbiata in paradigmi che plasmano la maniera in cui rispondiamo a questa epidemia – e a quelle future. Vale la pena soffermarsi, allora, per esplicitare questo quadro esplicativo nascosto in agguato nelle storie che raccontiamo riguardo al SARS-Cov2, il virus causa del Covid19. Quali realtà mette in luce, e quali tiene all’oscuro? Quali interessi serve, e quali lascia indietro?

Nel caso del Covid-19, la storia che ci siamo raccontati fin dall’inizio è stata quella di una popolazione passiva, attaccata improvvisamente da un essere straniero. La pandemia, nel discorso popolare, è un atto di aggressione esterna, l’assalto di un “nemico invisibile” che “attacca la gente in modo selvaggio” come ha dichiarato un medico al Baltimore Sun. Sul New York Times, Steven Erlanger ha paragonato il virus a un atto di terrorismo o a un disastro naturale. Lo scrittore Michael Lind lo ha accostato ad una “invasione aliena”.

In accordo con queste metafore marziali, la risposta è stata impostata come si trattasse un atto di combattimento contro un aggressivo intruso. La Francia si è dichiarata “in guerra” contro l’infezione. La Cina ha lanciato una “guerra di popolo”. E Donald Trump si è definito “un presidente di guerra”. Le nazioni hanno bloccato i voli e chiuso le frontiere. Nelle prime settimane dell’epidemia, quando navi da crociera zeppe di passeggeri malati si avvicinavano, i porti le cacciavano, e al diavolo le loro richieste di medicinali, cibo e cura.

Anche se l’entità della risposta non ha precedenti, le idee che inquadrano l’epidemia derivano da un vecchio paradigma riguardo il contagio. Secondo questo paradigma, il contagio è un problema di invasione microbica, una incursione straniera nei propri corpi da respingere con forza militare. Pensate a come l’establishment biomedico dell’Occidente ha dato il nome ai contagi. Per decenni, venivano chiamati sulla base della località in cui erano stati scoperti o erano scoppiati per la prima volta se questi posti erano lontani ma non se si trattava di origini vicine. Per esempio, Ebola ha preso il nome da un fiume della Repubblica Democratica del Congo, e l’influenza dl 1918 fu chiamata Spagnola, anche se non si era originata in Spagna. Ma l’HIV, la cui comparsa è stata segnalata dapprima in California e New York negli anni ’80, non è stato chiamato “LA virus” o “NYC-1”, e l’infezione MRSA, resistente agli antibiotici, esplosa a Boston nel 1968 non è conosciuta come la “peste di Boston”. Le malattie infettive erano così spesso chiamate con nomi che esaltavano la loro alterità e attribuivano loro uno stigma, che la WHO nel 2015 ha rilasciato delle norme per una denominazione più neutrale.

Il nostro paradigma dell’invasione microbica trae le sue origini nell’alba della teoria dei germi della fine del 19esimo secolo, quando il chimico Luis Pasteur scoprì il microbo responsabile di una malattia del baco da seta e il microbiologo Robert Koch identificò quello che causa l’antrace. Nei secoli precedenti, la medicina occidentale descriveva i contagi in termini di un’interazione dinamica fra i miasmi (che erano determinati da condizioni ambientali, come il clima o la geografia locale) e le qualità interiori degli individui (dagli aspetti morali allo specifico bilancio di “umori” nei loro corpi). Pasteur e Koch fornirono prove che suggerivano un processo più concreto e comprensibile: la malattia non era il risultato di turbamenti di complessi equilibri ma la conseguenza della semplice presenza di microbi identificabili.

La teoria delle malattie provocate da germi ha plasmato una visione completamente nuova di come agire contro i contagi. Invece di districare la rete delle relazioni sociali, dei fattori ambientali e dei comportamenti umani che favorisce la malattia, gli scienziati potevano attribuire la colpa ad una singola, puntiforme macchia. L’avanzata di una malattia poteva essere fermata o anche completamente respinta. Poteva essere isolata chirurgicamente, o distrutta con micidiali sostanze chimiche, che gli scienziati di inizio 20esimo secolo definirono “magic bullets”, proiettili magici. Il complesso e sfaccettato processo che portava all’infezione veniva ridotto alle sue più semplici componenti: una vittima ignara, un germe straniero, un’incursione indesiderata.

Il paradigma dell’invasione microbica ha rivoluzionato la medicina, consentendoci di domare i contagi in modo innovativo, con farmaci antimicrobici del tipo “magic bullet” e con vaccini efficaci. Ma, come gli storici delle malattie hanno documentato, questi interventi da soli non hanno sconfitto il colera, la malaria ed altri contagi che affliggevano le società occidentali. Ma il loro arrivo coincise con profondi cambiamenti sociali, molti avvenuti grazie a movimenti per la riforma della sanità, che ebbero il loro peso. L’affermarsi di sistemi di distribuzione di acque pulite, di misure igieniche, di regolamentazioni relative alla sicurezza delle abitazioni – tutte riforme sociali ottenute a prezzo di dure lotte – ridussero drammaticamente le opportunità di trasmissione di patogeni come il colera. Il tributo pagato alle malattie infettive precipitò. Alla fine del 19esimo secolo, il 30% delle morti negli USA era dovuto ad infezioni, alla fine del 20esimo era calato a meno del 4%.

E tuttavia il paradigma del germe invasivo e delle conseguenti misure da prendere si prese praticamente tutto il merito, diventando “la forza dominante nella medicina occidentale”, come lo ha definito un osservatore. Parte della spiegazione risiede probabilmente nella genuina eleganza della teoria. Ma le cure tipo “magic bullet” che ha reso possibile rientravano bene nella logica del capitalismo industriale, in cui le divisioni fra noi e loro, fra puro e contaminato, erano chiare – e, altrettanto significativamente, potevano essere affrontate per mezzo della compravendita di beni e servizi biomedici.

Nonostante la seducente semplicità del paradigma del germe invasore, gli scienziati cominciarono quasi subito a rendersi conto che il contagio è qualcosa di molto più complesso di un semplice processo di incursione. Ad ogni avanzamento delle tecniche di studio dei microbi – dai microscopi sempre più potenti alle tecniche per l’analisi del DNA microbico – gli scienziati hanno trovato prove che indicano come sempre nuovi tipi di microbi si annidino in sempre più posti, compreso l’interno del corpo umano. Negli anni recenti hanno imparato che molti di questi microbi hanno un ruolo benefico, quando non necessario, e quando causano danno, il problema deriva da come il nostro corpo risponde ai microbi, non dalla loro azione in sé.

Il paradigma dell’invasione dipinge i patogeni microbici come nemici invisibili carichi di incipiente violenza, ma scoperte recenti hanno mostrato che anche quelli responsabili di infezioni mortali possono essere stranamente quiescenti in certi ambienti. Helicobacter pylori, per esempio, causa ulcere gastriche in certi individui, ma può soggiornare innocuamente nello stomaco di altri. Ceppi di Lactobacillus che portano a sepsi in alcuni casi posso essere dei “probiotici” in altri. Nel frattempo i microbiologi hanno scoperto che molti patogeni vivono a manciate nei corpi di altri animali e non causano loro alcun problema. Lo Zooplancton ricoperto di batteri del colera, per esempio, galleggia indisturbato dai suoi microscopici ospiti nelle calde acque costiere; uccelli acquatici selvatici, pieni di virus dell’influenza, volano allegramente per il cielo; i pipistrelli, con i tessuti pieni di Ebola, svolazzano indisturbati nell’aria notturna.

Tutto ciò per rimarcare che, al contrario della trama dominante del paradigma dell’invasione, i patogeni dei nostri giorni non arrivano da invasori in territori vergini. Piuttosto, se c’è un’invasione in corso, è capitanata da noi. La maggioranza dei patogeni che sono emersi dal 1940 in poi hanno avuto origine in animali e sono entrati in contatto con le popolazioni umane non perché ci hanno invaso ma perché noi abbiamo invaso i loro habitat. Invadendo le aree umide e tagliando le foreste abbiamo costretto animali selvatici ad ammucchiarsi in frammenti di habitat sempre più ristretti, portandoli in contatto intimo con le popolazioni umane. E’ questa prossimità, che noi forziamo grazie alla distruzione degli habitat della fauna selvatica, che consente a molti microbi animali di avere accesso ai corpi degli umani.

Ma il paradigma dell’invasione microbica occulta questi dati imbarazzanti. Nonostante la crescente consapevolezza scientifica della complessità e delle sfumature del processo delle malattie infettive e della nostra complicità nel suo sviluppo, l’establishment biomedico focalizza buona parte della sua attenzione e delle sue risorse nel trovare le cure tipo “magic bullet” per il contagio piuttosto che affrontare le cause che ne stanno alla base. Questo è vero nonostante il fatto che raramente siamo stati in grado di sviluppare farmaci e vaccini per patogeni emergenti abbastanza rapidamente da salvarci dal loro pesante tributo. Come riportato in uno studio su Lancet del 2018, lo sviluppo di un singolo vaccino “può costare miliardi di dollari, richiedere più di 10 anni per essere portato a termine, e ha una media di insuccesso del 94%”. C’è voluto l’impegno e la dedizione di moltissimi ricercatori per più di 10 anni per sviluppare terapie efficaci contro l’AIDS, e ad oggi non c’è un vaccino efficace contro l’HIV. Farmaci e vaccini per una vasta gamma altri patogeni di recente comparsa, dal West Nile virus, a Ebola, a MRSA si sono dimostrati altrettanto problematici. Anche nel caso di patogeni più antichi, vaccini che garantiscano immunità totale e trattamenti che ci liberino dalle malattie sono l’eccezione più che la regola. Il vaiolo è l’unico patogeno umano che siamo riusciti a sradicare totalmente grazie ad una campagna mirata di vaccinazioni, ma ha flagellato le popolazioni umane per secoli prima che ci riuscissimo. Il trattamento più efficace per l’influenza, un patogeno che colpisce un miliardo di persone, può fare poco di più che ridurre la durata della malattia di un paio di giorni. E nonostante un costoso e massiccio sforzo annuale per trovare, sviluppare e distribuire vaccini per l’influenza, questi sono parzialmente efficaci, non riuscendo ad evitare che ogni anno muoia mezzo milione di persone.

Tuttavia, a sei mesi dall’inizio della attuale pandemia, un’enfasi ed una attesa disperata circondano lo sviluppo di farmaci e vaccini. Ma ci vorranno ancora mesi, e intanto il fatto è che dobbiamo affrontare SARS-CoV-2must face SARS-Cov-2 – così come il prossimo coronavirus, il virus dell’influenza, o qualunque altro nuovo patogeno – privi dell’armamentario della medicina. La nostra unica speranza di prevenire i danni peggiori è quella di modificare i nostri comportamenti per ridurre le occasioni di diffusione del contagio.

E’ tempo per una nuova narrazione, che colga in maniera più accurata la realtà del come e del perché i contagi si sviluppano. In questa narrazione, le pandemie sarebbero presentate sia come una realtà biologica che come un fenomeno sociale plasmato dall’azione umana. E il coronavirus, se vogliamo comunque descriverlo come un mostro, dovrebbe essere il mostro di Frankenstein: una creatura delle nostre azioni. Dopo tutto, siamo noi che abbiamo creato il mondo in cui SARS-Cov-2 si è evoluto, un mondo in cui l’industria ha inghiottito una parte così grande del pianeta che i microbi passano facilmente da animali selvatici al bestiame e agli umani. Abbiamo creato noi la società di prigioni sovraffollate e di ricoveri per anziani affidati a personale sottopagato che deve lavorare in più d’una strutture per far quadrare il bilancio, in cui i datori di lavoro possono costringere gli operai a lavorare alle catene di montaggio dell’industria della carne anche quando sono malati, in cui i richiedenti asilo sono ammassati in centri di detenzione, ed in cui la gente che vive in città pesantemente colpite come Detroit non ha accesso ad acqua pulita con cui lavarsi le mani.

Una narrazione che portasse a galla queste realtà ci costringerebbe a prendere in considerazione una gamma molto più ampia di risposte per contrastare la minaccia delle pandemie. Invece di prendersela con quelli di fuori e restate in attesa di cure “magic bullet”, potremmo lavorare per migliorare la nostra resilienza e di ridurre in primo luogo la probabilità che i patogeni ci raggiungano. Invece di reagire chiedendo che sostanze chimiche killer vengano sparse attorno a noi per distruggere le zanzare infettate dal West Nile virus e le zecche che portano i batteri responsabili della malattia di Lime, potremmo ricostruire la biodiversità perduta, che un tempo impediva la loro diffusione. Potremmo proteggere le foreste in cui prosperano i pipistrelli, così da far sì che EBOLA, SARS e altri virus stiano con loro e non trovino la strada verso le popolazioni umane.

Una nuova storia ci consentirebbe di vedere il contagio come qualcosa di più di un mero fenomeno biomedico da affrontare da parte di esperti biomedici, ed, invece, come il fenomeno sociale dinamico che sono. Richiederebbe nuove alleanze fra i sostenitori della sanità pubblica e gli ambientalisti, fra medici, epidemiologi, biologi della fauna selvatica, antropologi, economisti, geografi e veterinari. Sposterebbe il significato stesso del termine salute umana. Invece di pensare ad una buona salute come assenza di contaminazione da patogeni, potremmo comprenderla come una rete complessa che lega che lega la salute del nostro bestiame, della fauna selvatica e degli ecosistemi alla salute delle nostre comunità.

Quando emergono nuovi patogeni, dovremmo vagliare le nostre relazioni economiche e sociali per trovare come ridurre le occasioni di trasmissione con la stessa attenzione con cui analizziamo composti farmaceutici per creare nuove medicine. Quando incontriamo patogeni respiratori che si propagano silenziosamente negli spazi affollati, dovremmo attrezzare i nostri lavoratori con indennità di rischio, assenze per malattia pagate, salari giusti. Quando ci dobbiamo confrontare con virus portati da zanzare, potremmo migliorare gli impianti idrici e le abitazioni in modo che la gente non sia continuamente esposta alle loro sanguinarie punture. Piuttosto che sostenere un’industria farmaceutica che fa profitti sulle nostre malattie, potremmo lavorare per prevenire le condizioni che portano ai contagi.

Il progresso verso questo nuovo paradigma è già iniziato: grazie ad un approccio innovativo, dal nome One Health, che considera la salute umana nel contesto della salute della fauna selvatica, del bestiame e degli ecosistemi. One Health ha avuto l’appoggio della WHO e di un vasto gruppo di agenzie di alto livello nel campo della salute pubblica e della medicina veterinaria. Si è anche dotata di strumenti operativi, anche se su base limitata. In seguito all’epidemia di influenza aviaria del 2005, USAID ha usato questa organizzazione per lanciare il programma Predict, che puntava ad identificare virus che potessero passare dagli animali all’uomo. La EcoHealth Alliance, con base a New York, ha usato l’approccio One Health per scoprire un serbatoio di virus SARS nei pipistrelli, aprendo nuove strade alla comprensione dei coronavirus che colpiscono gli umani. E in Olanda è stato usato per affrontare la diffusione dei batteri antibiotico-resistenti nell’uomo, focalizzandosi sull’uso degli antibiotici nel bestiame da allevamento.

Questi sforzi, ancora nella fase iniziale, potrebbero andare molto oltre per affrontare i fenomeni sociali, politici ed ambientali che causano l’emergenza delle malattie infettive, ma sono già soggetti ad attacchi. L’amministrazione Trump ha cancellato il programma Predict nel 2019 e recentemente ha ritirato il finanziamento governativo alla EcoHealth Alliance. Eppure ci sono segnali che i decisori politici si stanno rendendo conto dell’importanza di questo approccio. L’anno scorso, il Congresso USA ha approvato un atto legislativo bipartisan per stabilire una rete One Health per prevenire e rispondere a epidemie.

Possiamo scrivere una nuova storia per questa pandemia e per le prossime. Lo dobbiamo fare, se speriamo di sopravvivere ad un futuro punteggiato di epidemie. In questa nuova storia, l’alieno microbico finirà sullo sfondo, e la natura delle relazioni fra di noi e con l’ambiente reclamerà il primo piano. Invece di essere vittime passive di invasori microbici, possiamo emergere come artefici del nostro destino che possono ricostruire un nuovo mondo postpandemico.


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