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Riflessioni di un reduce

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Ascoltare i reduci: la riflessione di Fabio De Iaco, che dirige a Torino il Pronto Soccorso e Medicina d'Urgenza dell'ospedale Martini, su quello che l'esperienza della prima ondata ci ha mostrato e dovrebbe aiutarci a capire per il futuro - futuro per il quale i reduci sanno che ci sarà una seconda ondata di Covid-19. Immagine, elaborazione della fotografia di Alberto Giuliani, "Annalisa Silvestri, medico anestesista", licenza CC BY-SA 4.0.

Come tutti i medici, chi scrive non ama la metafora della guerra. Se la usa è perché a volte le metafore sono lo strumento migliore per far comprendere una realtà. Come quella della pandemia.

Chi scrive è un reduce di Covid-19, come lo sono tutti i colleghi che sono stati in prima linea e che hanno vissuto più di ogni altro, esclusi i malati, lo sgomento dell’assalto, l’angoscia delle armi impari, il dramma delle morti. Come nelle vere guerre, i reduci sono coloro che hanno una storia da raccontare che ben pochi vogliono sentire. Coloro che si diceva di voler decorare per il valore dimostrato ma che non meritano dieci minuti di ascolto attento. È doppia, per loro, la condanna: pagare un prezzo personale, intimo (ma non solo, perché inevitabilmente ricade sulle persone che stanno loro accanto) e, allo stesso tempo, subire quella specie di marginalizzazione sociale che spetta a chi rappresenta la memoria dolorosa e gli errori attuali della società. Molti colleghi, purtroppo, conoscono le manifestazioni della sindrome da stress post-traumatico, con la vita sul filo di una vaga depressione, la mente alla ricerca di un orizzonte sereno, ma continuamente costretta a volgersi indietro, verso quel che è stato e non è dimenticabile. Ora, oltre al flashback, una nuova manifestazione della sindrome è il flash-forward: il reduce vede il futuro, perché l’ha già vissuto. Non riesce a elaborare il passato, perché sa che quel passato non è concluso: può diventare, di nuovo, il suo avvenire e non in base a presagi, ma a probabilità.

E la marginalizzazione sociale? “Ma dai, amici, proprio voi che siete stati i nostri eroi, dite di sentirvi abbandonati! Ma se vi abbiamo salutati tutti i giorni dai nostri balconi, vi abbiamo riempiti di doni, disegni, canzoni, post sui social!” Sì, ma oggi, nessuno vuole più ascoltare gli “eroi”, ormai ridotti alla macchietta del Savonarola di Troisi: il menagramo che ripete la grottesca cantilena “ricordati che devi morire!” e in cambio riceve, inevitabilmente, la canzonatura che merita (“mo’ me lo segno…”). È evidente il desiderio di rimozione che si è scatenato dopo il lockdown; non si parla della rimozione dei quattro negazionisti da web ma, piuttosto, della legittima necessità di ritrovare fiducia nel futuro, che però viene mal tradotta in banalizzazione del passato e in minimizzazione dei rischi. Si è creato un clima in cui ribadire la possibilità di una recrudescenza della pandemia equivale, per qualcuno, al reato di disfattismo, di memoria fascista. Tutto questo vanifica, agli occhi dei reduci, il loro impegno di ieri, lo relega nella percezione di una drammatica sterilità: la retorica degli eroi ha consentito di liquidare con noncuranza e superficialità una vicenda che ha significati ben più profondi e complessi.

Se si cerca la traduzione inglese della parola “reduce”, si scopre che esiste solo il termine veteran, che mette insieme i due significati di reduce (colui che è tornato dal campo di battaglia) e di veterano (colui che ha una conoscenza profonda basata sull’esperienza). E, allora, bisogna chiedersi quale utilità trovi, oggi, l’irripetibile esperienza maturata dai reduci, quelli che sanno bene che il loro lavoro è fatto di turni più o meno faticosi, più o meno fortunati e che hanno considerato l’eccezionalità del momento come il turno più lungo e sfortunato della loro vita, per il quale mai avrebbero chiesto un premio speciale, se non, forse, la considerazione, nei fatti, della loro esperienza.

A cominciare dalle ipotesi sulla “seconda ondata”, in quella gigantesca sala scommesse che è diventato questo Paese, in cui prudenza e spavalderia troveranno ben presto una quota alla quale giocarsi la sorte. Come se fosse importante solo sapere se l’ondata arriverà o no, ignorando quanto servirebbe capire come arriverà, in quali proporzioni, in quale contesto organizzativo, sociale, ambientale. È in questo che sarebbe doveroso ascoltare i reduci, che sanno con certezza che una seconda ondata arriverà. Forse non sarà epidemica, forse non sarà il virus, ma certamente sarà il risultato di quel che il virus ha già prodotto. In un Paese che ha perso in tre mesi il 10% del PIL e il 15% della produzione industriale, in cui la povertà ha raggiunto livelli storici, l’ondata arriverà quando in autunno.

Il Pronto soccorso è il più formidabile punto di osservazione per un sistema sanitario (la citazione è vecchia e abusata, ma sempre validissima in tempi normali, così come nei mesi della pandemia): nessuno più di chi ci lavora ha chiara la percezione di quel che è accaduto, di quel che sarebbe stato necessario, di cosa più è mancato: l’evidente obiettivo da perseguire è prepararsi con urgenza alla possibile seconda ondata imparando dall’esperienza irripetibile già maturata e contemporaneamente realizzare un sistema che stabilmente nel futuro possa rispondere alle esigenze sanitarie del Paese, in condizioni normali o eccezionali. È imprescindibile mettere in sicurezza il Servizio sanitario nazionale, come ha detto qualcuno ben più autorevole di chi scrive.

Durante il pieno della pandemia è stato vissuto un periodo di formidabile concretezza. Pur nelle drammatiche carenze di quei giorni (non serve elencarle, sono ben note) il collegamento tra le esigenze e le decisioni era immediato. Vi è stato un contatto continuo, sulla base delle cose da fare, con i vertici decisionali a tutti i livelli, aziendali, regionali e nazionali. Quel breve periodo di assoluta concretezza ha indotto a credere che davvero si fosse a un crocevia della storia, che davvero, non appena fosse giunta la tregua anelata, il momento eccezionale sarebbe sfociato nella costruzione di un sistema nuovo ed efficiente. Invece, terminata la battaglia campale, si è riapprofondito il solco che separa le necessità dalle decisioni e proprio nel momento in cui le decisioni sarebbero imperative. È quasi banale raccontarlo: gli ospedali hanno perso capienza, le procedure per l’accesso sono sempre più lunghe e complicate, i percorsi differenziati sottraggono spazio e risorse. La complessità è aumentata.

E sui Pronto soccorso pesa il carico massimo. Mentre gli accessi sono tornati quelli del pre-Covid, le risorse sono diminuite, in termini di strutture e di personale. La chiamata alle armi di febbraio-marzo è cessata e a guardare il fortino sono rimasti gli stessi di prima (anzi qualcuno di meno). I soliti reduci. Nel silenzio dei decisori. Tutto ciò di cui si sente parlare è l’incremento dei posti di terapia intensiva: uno slogan della politica, che tranquillizza l’opinione pubblica trasmettendo un falso messaggio di sicurezza. Ma le strutture non corrispondono alle funzioni: chi popolerà quelle terapie intensive? Dove sono le professionalità che potranno dare significato alle strutture? E soprattutto, dove mai è scritto che quella sia la soluzione reale per una possibile seconda ondata?

Le soluzioni non devono stare solo nell’ultimo gradino di una drammatica scala. Eppure, tutti i gradini precedenti sembrano ignorati, liquidati in una sorta di rassegnata impotenza: territorio inesistente, Pronto soccorso e sub-intensive dati per scontati. Come sempre. La capacità di vedere il futuro è anche una condanna, se chi la possiede diventa una Cassandra condannata all’irrilevanza.

Ci si sta domandando quale sarà lo scenario peggiore: ecco le ipotesi. Scenario 1: scoppia nuovamente la pandemia. Si torna al recente passato. Crolla l’accesso ai PS per altre patologie, tutto diventa Covid-19, si torna a curare (tentare di…) una sola malattia. Nuova tragedia nazionale. Nuova chiamata alle armi. Ma i reduci non sono più quelli di prima. C’è stanchezza e sfiducia, è venuta meno la spinta morale dell’emergenza. Sono subentrate la delusione e la rabbia per le decisioni non prese. La capacità di risposta non può essere la stessa di qualche mese fa. E intanto chi soffre di altre patologie resta indietro, come prima, ma peggio di prima, partendo da una posizione di svantaggio che non ha ancora recuperato.

Scenario 2: la pandemia non scoppia nuovamente ma, prevedibilmente, risale il numero dei contagiati e quel numero si somma all’emergenza sociale di cui si è detto. E poi arriva anche il periodo dell’epidemia influenzale. La tempesta perfetta. Non c’è nessuna chiamata alle armi. Ancora una volta tutto grava su ospedali e Pronto soccorso, più poveri di risorse a causa dell’immobilità di oggi, dell’assenza di decisioni strategiche. Questo appare lo scenario peggiore (e anche il più probabile, secondo chi scrive): la somma di vecchie e nuove inadeguatezze, da affrontare con rassegnata impotenza. Il Covid-19 comporta un rischio intrinseco, ma produce è anche l’ultimo elemento instabile di una catena già instabile, che può condurre al collasso del sistema.

Scenario 3: la pandemia sparisce magicamente (chi ci crede?). Resta l’emergenza sociale e certamente si somma all’epidemia influenzale. Di nuovo una situazione tragica. Ci si attende che comunque se ne verrà fuori, come sempre, ma non ci si chiede a quale prezzo, per i malati e per gli operatori. Si continua a contare sul sacrificio dei reduci. Si continuerà a usare la parola “emergenza” a sproposito. Il Covid-19, passato lo sgomento per i 35.000 morti, verrà trattato come l’annuale epidemia influenzale.

Se si guarda alla realtà dei fatti, cosa c’è di inatteso e improvviso in quel che accadrà? Gli operatori sanitari di prima linea dovranno convivere ancor più con le lesioni morali loro inferte. Il concetto di moral injury è nato per i veterani di Iraq e Afghanistan, curando i quali gli psichiatri hanno capito che “eventi potenzialmente lesivi dal punto di vista morale, come perpetrare, non prevenire o essere testimoni di atti che tradiscono aspettative e valori morali profondamente radicati, possono essere deleteri nel lungo termine, da un punto di vista emotivo, psicologico, comportamentale, spirituale e sociale”. Per il personale sanitario, la pietra angolare della lesione morale è il fallimento nella presa in carico delle necessità dei pazienti: la lesione morale così intesa si consuma nella sfera personale ma avrà, inevitabilmente, conseguenze sul piano collettivo, sociale.

 


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