fbpx Il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: le carenze di un piano strategico per il futuro del paese | Scienza in rete

Il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: le carenze di un piano strategico per il futuro del paese

Tempo di lettura: 15 mins

Condividiamo il position paper a cura del gruppo di lavoro “Minds for One Health” (M4OH) dedicato al Piano di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC), attualmente in fase di valutazione: il gruppo di esperti, docenti e ricercatori analizza il documento e ne evidenzia i limiti.

Crediti immagine: Azzedine Rouichi/Unsplash

A cura di gruppo di lavoro sul PNACC di “Minds for One Health” (M4OH)

Premessa

Si propone alla lettura il documento elaborato sul Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), attualmente in procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Il commento è stato inviato il 14 aprile scorso (ultima data utile) al responsabile della procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica.

I drammatici eventi estremi che si sono verificati in questi giorni in Emilia-Romagna e nelle Marche, alle cui vittime va tutta la nostra solidarietà, rappresentano l’ennesimo campanello di allarme che non può rimanere inascoltato. Se non interveniamo immediatamente e radicalmente, l’alternativa sarà quella di assistere sempre più frequentemente a eventi simili o più gravi e di dover sostenere enormi costi di sofferenza umana ed economici. Alla luce della gravità della situazione e delle previsioni, sono inaccettabili le azioni politiche palesemente in contrasto con le evidenze scientifiche sui legami tra cambiamenti climatici e le loro cause, come è il caso recente dell'attacco alla proposta di nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria da parte di alcune Regioni europee tra le quali Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna.

Il contesto di riferimento

Come è noto, le due modalità con cui tradizionalmente si pensa di far fronte ai cambiamenti climatici sono:

  • la mitigazione, che aggredisce le cause dei cambiamenti del clima indotti dagli esseri umani, e che consiste nella progressiva riduzione fino all’azzeramento delle emissioni antropiche di gas a effetto serra, di cui l'anidride carbonica (CO2) è il principale componente;
  • l'adattamento, che parte dal presupposto che comunque i cambiamenti climatici indotti dalle attività antropiche sono in essere (in quanto non siamo stati capaci di ridurre le emissioni di gas serra nella misura dovuta, anzi le emissioni in questi ultimi anni stanno aumentando), e quindi occorre mettere in atto provvedimenti per fronteggiare questi cambiamenti “adattandovisi” nella miglior maniera possibile.

Il PNACC è focalizzato su questo. Storicamente, quando il tema del cambiamento climatico è stato posto all'attenzione dei Capi di Stato e di Governo durante lo storico summit di Rio de Janeiro (1992), dove è stata aperta alle firme la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), si puntava tutto sulla mitigazione, ovvero sulla riduzione progressiva delle emissioni di gas serra. Col passare degli anni e dei decenni l’iniziale ottimismo è purtroppo scemato, in quanto si è dovuto prendere atto di una evoluzione ben diversa da quella sperata. Infatti, da una parte le auspicate riduzioni non si verificavano (tra il 1990 e oggi è stata emessa più CO2 di quanto ne sia stata emessa dall'inizio della rivoluzione industriale fino al 1990), e dall'altra i cambiamenti climatici si stanno già verificando. In particolare nella Conferenza delle Parti tenutasi a Parigi nel 2015 (la COP 21, XXI riunione annuale delle Parti firmatarie della UNFCCC), si era già dovuto prendere atto della incapacità di mettere in atto misure a mitigare l’effetto antropico sul clima: in pratica, una dichiarazione ufficiale del fallimento delle auspicate politiche di mitigazione. Nonostante ciò la COP21 è rimasta trionfalmente pubblicizzata perché era stato sottoscritto l’accordo che proponeva l’obiettivo di lungo periodo di limitare l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 ºC rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 ºC. Conseguentemente hanno sempre più acquistato rilievo le strategie di adattamento.

In tutto questo si inseriscono gli strumenti della cosiddetta geoingegneria climatica, ovvero il contrasto su scala planetaria degli effetti dei cambiamenti del clima con mezzi tecnologici; in particolare si parla sempre di più della riduzione della radiazione solare che arriva sul nostro pianeta tramite l’immissione nell’alta atmosfera di microparticelle che riflettono verso lo spazio la radiazione solare in arrivo1. I documenti che trattano di geoingegneria climatica dichiarano esplicitamente che essa non sostituisce gli sforzi per la mitigazione (abbattimento delle emissioni di gas serra), ma il parlarne sempre più spesso fa sospettare una crescente sfiducia nei confronti della mitigazione.

Questa impostazione in realtà alimenta una situazione in cui i rimedi rischiano di essere peggiori del male. Solo per fare un esempio, la menzionata immissione nell’alta atmosfera di microparticelle può alterare i cicli idrologici a livello globale con il rischio di modificare il regime dei monsoni che sono alla base della produzione di cibo per miliardi di persone2. Gli effetti collaterali sarebbero su vasta scala, inclusi quelli sul piano geopolitico; ad esempio se gli USA decidessero di agire in tal senso come reagirebbero Cina e Russia? Non è difficile prevedere che sarebbero i più deboli, ovvero i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili dell’aumento della CO2 in atmosfera, a pagare il prezzo più alto.

In questo quadro ben si comprende che l’adattamento è sempre di più una priorità nelle agende dei Paesi, e questo emerge anche dal sempre maggiore ricorso alla parola resilienza. Anche nel senso comune si percepisce come la fragilità di un sistema sia inversamente correlata alla resilienza. La fragilità di un sistema, o se si preferisce la sua resilienza, gioca un ruolo essenziale nelle strategie di adattamento, concetto complesso che richiede innanzitutto di distinguere tra necessità e possibilità effettiva di adattamento. Questa distinzione trova riscontro nel VI Rapporto sul clima dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici dell’ONU) pubblicato nel 2022, la cui sintesi è stata pubblicata il 20 marzo 20233: nel Rapporto si parla di “limiti dell’adattamento” distinguendoli in soft/leggeri e hard/pesanti, specificando altresì che gli sforzi per mantenere la temperatura globale entro 1,5 ºC potrebbero evitare solo in parte alcuni degli impatti più devastanti del cambiamento del clima, e in nessun modo altri, come migrazioni e guerre4, che sono inevitabilmente destinati ad intensificarsi esponenzialmente se il riscaldamento globale supererà tale limite. Si parla di previsioni realistiche e non distopiche, ad esempio la fusione dei grandi ghiacciai dell’Himalaya, che regolano il ciclo idrologico in una vasta area dell’Asia dove vivono 1,4 miliardi di persone, avrà come conseguenza un’immensa catastrofe umanitaria.

Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC)

Tornando alle cose di casa nostra, l’Italia è profondamente innestata nel Mediterraneo, considerato un hot spot, ossia un’area identificata come particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici. In particolare nell’area del Mediterraneo si stanno progressivamente incrementando la desertificazione, con connessi fenomeni di siccità e carestie, i conflitti, i traffici illeciti, il terrorismo e l’emigrazione.

A fronte del quadro tratteggiato, l’Italia e l’Europa affrontano i fenomeni migratori senza alcun collegamento con le strategie di adattamento ai cambiamenti climatici. Per l’Italia a ciò si aggiunge l’enorme ritardo con cui è stato affrontato il tema dell’adattamento, e l’assoluta inadeguatezza degli strumenti individuati, in particolare il PNACC, come si cercherà di sostanziare di seguito.

La nostra analisi del PNACC parte da una considerazione molto semplice: un piano è composto da una o più azioni, ciascuna caratterizzata da una sequenza di attività (dalla progettazione di massima alla progettazione esecutiva fino alla realizzazione e al collaudo), accompagnate dall'analisi dei tempi e delle risorse necessarie per il raggiungimento del relativo obiettivo. Il raggiungimento degli obiettivi delle singole azioni implica il perseguimento dell’obiettivo generale del piano. Se si tratta di un piano nazionale vanno altresì esplicitati, per ogni azione, le eventuali sinergie o contrasti (da risolvere) con gli altri strumenti di pianificazione sovranazionali, nazionali, regionali e locali. La nostra analisi ci porta a concludere che il PNACC non è un piano con le caratteristiche essenziali sopra riportate.

La prima considerazione riguarda l’impostazione del documento principale, in cui più dell’82% delle 116 pagine è dedicato alla descrizione dei quadri normativi internazionale, europeo e nazionale, alla definizione del cambiamento climatico e al suo impatto e, infine, alla bibliografia. Il gruppo di lavoro ritiene che su questi argomenti sarebbe stato sufficiente un rimando alle specifiche normative e ai documenti elaborati degli Enti istituzionali preposti, come per es. il VI rapporto dell’IPCC o altri documenti di autorevoli soggetti come l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) dell’ONU5.

L’impressione negativa è rafforzata dalla lettura del rimanente 18% del documento sulle azioni da intraprendere, argomento su cui ci si aspettava di trovare finalmente un Piano che, partendo dagli strumenti che si occupano delle azioni di adattamento al clima e dei collegamenti/sinergie con le azioni di mitigazione, ne andasse a definire nello specifico i rapporti gerarchici e le reciproche connessioni, costruendo un quadro di riferimento chiaro e armonico con gli altri strumenti di pianificazione nazionali (Piano qualità dell’aria, Piano tutela delle acque, Piano agricoltura etc.), regionali e locali e con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), in cui inserire le azioni previste.

Nel documento principale le azioni invece non vengono descritte, in pratica manca quel percorso logico (e normativamente codificato) che espliciti le motivazioni delle scelte fatte, stabilisca gli obiettivi, ne documenti l’impatto positivo e gli eventuali impatti negativi residui con i relativi interventi di mitigazione. A ogni azione devono essere poi abbinato un crono programma e un costo. Così dovrebbe essere un Piano.

Le 361 azioni menzionate nel documento principale vengono elencate in un foglio Excel di un’appendice al Piano (la IV). Per quanto riguarda i costi, una qualche definizione quantitativa è riservata solo ad alcune di esse: 5 azioni su 361, pari all’1,3%, contengono indicazioni quantitative. Sui tempi, sulle risorse e competenze necessarie per il raggiungimento dell’obiettivo di ogni azione si registra un’analoga carenza di dati e informazioni.

Manca inoltre il collegamento/sinergia delle azioni di adattamento con quelle di mitigazione, ovvero con le azioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni dei gas serra.

Poiché il cambiamento climatico è effetto delle attività antropiche e tra queste sono chiaramente individuate quelle che comportano la maggior quantità di emissioni climalteranti (uso di combustibili fossili e biocarburanti, allevamenti e agricoltura intensivi, alcuni settori industriali, trasporto su ruota, etc.) o che causano una riduzione di assorbimento delle stesse (deforestazione e consumo di suolo), il PNACC dovrebbe urgentemente stabilire le azioni di adattamento utili a ridurre le emissioni e aumentare la capacità degli ecosistemi di assorbire anidride carbonica e al fine di stabilizzare la temperatura del pianeta o quanto meno limitarne l'ulteriore aumento. A tale proposito, si sottolinea che, in assenza di interventi utili ad interrompere questo trend, nessun ecosistema né popolazione saranno in grado di adattarsi alle temperature elevate e agli eventi connessi quali siccità, alluvioni, fusione dei ghiacci, acidificazione dei mari etc., eventi che si stima siano destinati a aumentare progressivamente in intensità e frequenza.

Il PNACC deve identificare gli obiettivi da raggiungere tramite azioni che devono essere assunte e declinate in ogni altro atto di pianificazione pertinente, con i dovuti livelli di priorità (da stabilire sulla base di criteri freddi di impatto e co-benefici), coordinamento e armonizzazione. Per fare questo, è indispensabile un confronto serrato e continuo con le Regioni e gli altri stakeholders pubblici e privati (Autorità di bacino e simili, Comunità montane e simili, associazioni, confederazioni, enti no profit etc.).

In tal senso il Piano è davvero carente se si considera che:

  • le Appendici I e II, come il documento principale, si dilungano sul quadro normativo e sulla procedura senza fornire alcun contributo utile al razionale sottostante all’individuazione delle azioni;
  • l’Appendice III di nuovo ribadisce gli impatti dei cambiamenti del clima e le vulnerabilità settoriali del nostro Paese, quando sarebbe stato sufficiente rimandare agli abbondanti riferimenti sulla materia;
  • manca qualsiasi indicazione su come il PNACC si integri con gli altri strumenti di pianificazione nazionali e regionali, primo fra tutti il PNRR, perdendo così l’occasione per meglio indirizzare i fondi del PNRR verso azioni di sostenibilità necessarie e urgenti;
  • non è affrontato il tema del tipo di organizzazione operativa necessaria all’attuazione del PNACC e le informazioni fornite sull’Osservatorio non appaiono sufficienti a valutare l’adeguatezza di questo strumento;
  • parimenti carenti sono gli elementi su come interagire con la governance degli altri piani (oltre al PNRR, i piani e i programmi nazionali e regionali per il risanamento della qualità dell’aria, per la riduzione del traffico automobilistico, per la pianificazione urbanistica e la tutela del suolo, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima etc.);
  • le misure nature based non sembrano avere il rilievo quantitativo e qualitativo che meriterebbero, benché la Strategia europea sull’adattamento ai cambiamenti climatici le consigli caldamente: meno cemento e acciaio, più natura.

In particolare non appare adeguata la trattazione delle misure di adattamento che riguardano il suolo che, oltre a essere un ecosistema essenziale (Risoluzione del Parlamento Europeo del 28 aprile 2021 sulla protezione del suolo 2021/2548 RSP), che svolge una efficace funzione regolatrice nell’adattamento ai cambiamenti climatici, è la più grande riserva di carbonio terrestre (cfr. la citata Risoluzione 2021/2548 RSP) e, di fatto, la risorsa capace di trattenere più carbonio (evitando le ri-emissioni sotto forma di gas climalteranti) in simbiosi con la vegetazione, svolgendo dunque un ruolo anche nella mitigazione.

Il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo sono le principali concause dei disastri cui assistiamo quotidianamente, legati ad alluvioni, frane, dissesti idro-geologici etc.

Manca un riferimento chiaro al tema dei co-benefici. Come molti organismi scientifici nazionali ed internazionali hanno suggerito, l’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico sono sostenuti, in gran parte, dalle medesime cause e si potenziano a vicenda. Si prevede, infatti, che il cambiamento climatico esacerberà l’inquinamento atmosferico e altre esposizioni ambientali in molteplici modi. È assolutamente necessario, pertanto, dare priorità alle misure che, in primis, riducano l’inquinamento atmosferico mitigando al contempo il cambiamento climatico.

In generale, il PNACC non affronta la necessità di adeguamento dell’architettura amministrativa e delle articolazioni a livello locale. A parer nostro, risulta molto complicato finalizzare azioni di adattamento/regolazione, ma anche di mitigazione climatica, rivolgendosi a un corpo amministrativo frammentato: è evidente che alcune competenze andrebbero riportate ad altri soggetti di scala adeguata.

Infine, il gruppo di lavoro ha rilevato e segnalato una serie di inesattezze e di errori nel testo, che non dovrebbero comparire in un documento di tale rilevanza. Tra quelli concettualmente più importanti:

  • a pagina 22 si legge “entro il 2070 le emissioni di CO2 scendono al di sotto dei livelli attuali (400 ppm) e la concentrazione atmosferica si stabilizza, entro la fine del secolo, a circa il doppio dei livelli pre-industriali.” Le locuzioni “concentrazione in atmosfera” ed “emissioni in atmosfera”, e le relative unità di misura, sono importanti e devono essere usate in maniera corretta, mentre nella frase citata c’è il doppio errore di riferire il termine “emissioni” alle concentrazioni in atmosfera di CO2, e di accostare il valore di 400 ppm (parti per milione) a misura di emissione anziché di concentrazione;
  • a pag. 89 si parla di effetti di secondo ordine, cioè che derivano dall’attuazione delle azioni di adattamento ma che non ne costituiscono il fine principale ed esplicito e a un certo punto si dice “Nel caso, infine, di effetti di secondo ordine negativi si parla di mal-adattamento (maladaptation) e questo si verifica quando un’azione aggrava la vulnerabilità al cambiamento climatico accentuandone gli impatti in settori diversi o in altri territori oppure quando accresce lo sforzo necessario per la mitigazione (ad esempio aumentando le emissioni di gas ad effetto serra).” Noi riteniamo che vadano del tutto evitate azioni responsabili di effetti negativi del secondo ordine, nel caso in cui si decidesse di adottarne qualcuna, questa andrebbe adeguatamente giustificata.

Si ribadisce l'opportunità di esplicitare le connessioni con gli altri strumenti di pianificazione nazionali e locali, in particolare con il PNRR e con il Piano nazionale qualità dell’aria. A tale proposito si rileva che a pag. 11 si riporta che “il 37,5% delle risorse, pari a 71,7 miliardi di euro, deve essere utilizzato per sostenere gli obiettivi climatici, e il 15% di questo importo, a sua volta, è destinato alle misure di adattamento ai cambiamenti climatici”, ovvero 10,7 miliardi. Sarebbe quanto mai opportuno precisare come è stato pianificato l’impiego dei rimanenti 61 miliardi, che dovrebbero essere impiegati evidentemente per obiettivi di mitigazione.

Conclusioni

Non sembra esservi alcun dubbio che in questo momento particolarmente critico per la storia dell’umanità i cambiamenti climatici siano agli apici dei problemi a livello globale: studi, analisi e dati fattuali mostrano che tali cambiamenti sono all’origine di ondate di calore, siccità, alluvioni, carestie, pandemie, conflitti, guerre, terrorismo, traffici illeciti, migrazioni.

L’ennesimo allarme contenuto nella sintesi che ha concluso la pubblicazione del Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici dell’ONU) pubblicato il 20 marzo 2023, è stato lanciato mentre negli USA è stato approvato un nuovo immenso giacimento di petrolio in Alaska e in Cina sono in fase di autorizzazione 168 nuove centrali a carbone. Le emissioni di gas serra devono dimezzarsi entro il 2030 per azzerarsi entro il 2050, invece nel 2022 hanno continuato a crescere: più 0,9% rispetto all’anno precedente. Le tecnologie per ridurre le emissioni ci sono e i loro costi sono crollati: l’eolico costa circa il 55% in meno, il fotovoltaico e le batterie al litio circa l’85% in meno di quanto costassero alcuni anni fa. Le temperature sono aumentate più negli ultimi 50 anni che nei precedenti 2000. La concentrazione in atmosfera di CO2 non era così alta da due milioni di anni, quella del metano – altro gas serra con tempi di residenza in atmosfera molto più brevi della CO2 (10-15 anni verso migliaia di anni della CO2) ma fino a 85 volte più dannoso per l’effetto serra – non era così alta da 800mila anni. L’aumento globale di temperatura è già di 1,1 ºC, la cosiddetta “soglia di sicurezza” di +1,5 ºC è vicinissima e in alcune macro aree, come il Mediterraneo, è già stata superata.

Per quanto riguarda l’Italia, alle criticità menzionate sopra si aggiunge una cronica incapacità, o forse una non volontà, di pianificare: le difficoltà sempre più emergenti a proposito del PNRR ne sono una manifestazione patente.

Purtroppo in questa realtà sempre più complessa la creatività e la fantasia, doti preziose del genio italico, non bastano: oggi più che mai vale l’adagio di Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d'America: «By failing to plan, you are preparing to fail» (Non riuscendo a pianificare, ti stai preparando a fallire).

Questo gruppo di lavoro ha messo a disposizione dei precedenti governi dati e informazioni, indicazioni pratiche e suggerimenti ed è disponibile a continuare a farlo.

 

*Maria Grazia Petronio, §Mario Carmelo Cirillo, §Fabrizio Bianchi, Simona Agger, Umberto Agrimi, Carla Ancona, Paolo Barberi, Ugo Bardi, Annibale Biggeri, Lucia Bisceglia, Antonio Bonaldi, Liliana Cori, Paolo Crosignani, Aldo Di Benedetto, Carlotta Fontana, Francesco Forastiere, Andrea Gardini, Claudio Gianotti, Francesco Gonella, Paolo Lauriola, Tommaso Luzzati, Alberto Mantovani, Maria Teresa Maurello, Daniele Menniti, Paola Michelozzi, Lucia Miligi, Eduardo Missoni, Luigi Montano, Vitalia Murgia, Lorenzo Pagliano, Daniela Pedrini, Antonio Pileggi, Paolo Pileri, Elisabetta Dall’Ò, Paolo Rognini, Roberto Romizi, Tiziana Sampietro, Gianni Tamino, Mauro Valiani, Giovanni Viegi, Maria Angela Vigotti, Sandra Vernero, Paolo Vineis, Federico Zanfi (* Coordinatrice gruppo M4OH; § autori principali)

Note
1. National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine, 2021. Reflecting Sunlight: Recommendations for Solar Geoengineering Research and Research Governance. Washington, DC: The National Academies Press
2. Cfr. per es. Wil Burns, David Dana and Simon James Nicholson Editors, 2021. Climate Geoengineering: Science, Law and Governance. Springer
3. https://www.ipcc.ch/assessment-report/ar6/
4. Cfr. Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini. Effetto serra, effetto guerra. Il clima impazzito, le ondate migratorie, i conflitti. Il riscaldamento globale, i ricchi, i poveri. Nuova ediz. 30 gennaio 2020. Chiarelettere
5. https://public.wmo.int/en/media/press-release/wmo-annual-report-highlights-continuous-advance-of-climate-change

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: