Qualcosa si sta muovendo a favore dell'Open Access (OA), che riduce i costi e rende accessibile il sapere veicolato dalle riviste. Oltre alle indicazioni che provengono dall’Europa, va segnalato un decreto annunciato dal ministro Fioramonti che sembra voler ammettere alla nuova Valutazione della qualità della ricerca (VQR) solo gli atenei in regola con l’OA. E c’è già chi si sta preparando: è il caso dell’Università degli Studi di Milano che si è da tempo dotata di una piattaforma di riviste Open Access, liberamente accessibili a lettori, autori e comitati editoriali. Le riviste (attualmente 41) hanno generato circa 70.000 download al mese di traffico culturale, che a sua volta promuove contatti e citazioni, e stimola gli autori a scrivere senza nessun costo di iscrizione e pubblicazione. Per il momento le riviste open sono quasi esclusivamente umanistiche, anche per la difficoltà di “liberare” le riviste STEM, legate a editori internazionali che richiedono abbonamenti per un totale di circa 80 milioni di euro l’anno per gli atenei italiani (nostra stima su dati CRUI).
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L’Open Science è una delle grandi sfide del mondo della ricerca. A oggi il modello prevalente è quello commerciale: gli editori, garanti della qualità, ricevono gli articoli, li sottopongo a revisione, li pubblicano, il lettore se li vuole leggere li compera. Il problema è che gran parte della ricerca è finanziata da soldi pubblici, quindi ci si chiede perché i lettori/cittadini dovrebbero pagare per leggere quello che in qualche modo hanno già pagato. Inoltre è dibattuto anche il contributo degli editori: ricevono gratis gli articoli dei ricercatori e il processo di peer review è svolto gratuitamente dai ricercatori. Quindi una cospicua fase del processo è sostenuta dal settore universitario, che alla fine paga per avere accesso agli articoli prodotti.
Figura 1. I contratti CRUI con gli editori attivi nel 2019 per un totale di circa 70 milioni di euro annui. Scarica elenco completo dei contratti CRUI (xlsx; fonte www.crui.it)
La trappola dell'Open Access ibrido e del doppio pagamento
Esistono modelli che tentano di svincolarsi da questo sistema. Sia singole iniziative, archivi disciplinari (arXiv.org,) strumenti di discovery (Unpaywall,) siti pirata (Sci-Hub) o più corali come Plan S che prevede di rendere obbligatoria entro la fine del 2020 la pubblicazione in OA per tutti i ricercatori che ricevono fondi da un nutrito gruppo di enti pubblici europei. Ma di fatto, per vari motivi, è difficile abbandonare il modello attualmente in uso (si veda il nostro articolo La difficile transizione all’Open Access).
Una delle difficoltà è dovuta al fatto che un'eventuale adesione a Plan S (e in particolare ai contratti trasformativi) può avvenire in Italia solo in maniera consortile tramite la Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI). Nel caso dell’editore Elsevier non è stato stipulato un contratto transformative e le Università italiane sono vincolate dall'accordo stipulato dal Gruppo CARE-CRUI. L'accordo con l'editore Elsevier per il 2018-2022 fa pagare alle università l'abbonamento alle riviste e regolamenta il cosiddetto article processing charges (APC). "Questa seconda opzione permette agli autori di rendere i propri articoli usciti sulle riviste Elsevier immediatamente disponibili a tutti, a prezzo di un esborso ulteriore rispetto a quello dell’abbonamento. Abbonamento e APC non sono dunque reciprocamente alternativi: una singola università, a proposito di una medesima rivista, può sottoscrivere un abbonamento e pagare degli APC" scrive in una nota l'Associazione italiana per la promozione della scienza aperta (AISA). "In seno al movimento per l’accesso aperto questo comportamento, comunemente adottato dalla grande editoria oligopolistica, è talmente noto e temuto da essere designato col nome di double dipping: è certo vantaggioso per l’editore, il quale può aggiungere un ulteriore profitto a quello derivante da abbonamenti che per le grandi università italiane comportano un esborso di più di un milione di euro l’anno, ma è difficile capire quale ne sia il beneficio per i suoi clienti". (qui l'articolo di AISA). La sola Università degli Studi di Milano, fra le poche che dal 2016 monitora i costi di APC, paga fra i 100.000 ai 150.000 euro per un costo ad articolo di circa 1.500 euro all'anno (https://treemaps.intact-project.org/apcdata/milano-u/).
C'è però una scappatoia, suggerita dal movimento dell'Open Access contro queste forme ibride ed estremamente dispendiose. Si chiama "via verde", vale a dire l’opzione del deposito in archivi disciplinari e istituzionali dopo un periodo di embargo. "Certamente noi rispettiamo i principi di Plan S per quanto riguarda la via verde e quindi la archiviazione nell'archivio istituzionale della versione dell'articolo secondo quanto previsto dalle politiche dell'editore" spiega Paola Galimberti, responsabile dell'Archivio Istituzionale Della Ricerca (Air) dell'Università degli Studi di Milano. "Inoltre lavoriamo in connessione con Pubmed ai cui forniamo i nostri testi open access (progetto linkout) che ha dato come risultato nell’ultimo anno circa 70 mila download da pubmed dei lavori presenti nel nostro archivio".
Oltre a questo, c'è attesa anche per un probabile imminente decreto annunciato dal ministro Lorenzo Fioramonti che ammetterebbe alla nuova valutazione della qualità della ricerca (VQR) solo gli atenei che consentiranno la pubblicazione Open Access dei lavori dei propri ricercatori (qui l'articolo), cosa che ha innescato le proteste degli editori e la perplessità di alcuni rettori.
La lunga strada verso un Open Access completo
D'altra parte, l’Università degli Studi di Milano da tempo dotata di una piattaforma di riviste open access. Aperto a lettori, autori e comitati editoriali. Le riviste (attualmente 41) sono accessibili e scaricabili gratuitamente: oltre 90.000 download al mese di traffico culturale, che a sua volta genera contatti e citazioni. E stimola gli autori a scrivere senza nessun costo di submission e pubblicazione, secondo un modello di "open access diamond", che, come spiega uno degli articoli fondativi di tale modello, "è una forma di editoria accademica senza scopo di lucro che fa della conoscenza accademica un bene comune, recupera la missione pubblica del sistema accademico e comporta la possibilità di creare posti di lavoro nell'editoria di servizio pubblico”.
"La grande visibilità della piattaforma ha permesso l’instaurarsi di interessanti collaborazioni con editori stranieri (traduzione di volumi) e autori (richiesta di poter riutilizzare immagini, dati o parti degli articoli pubblicati), proposta di articoli da ogni parte del mondo" spiegano Emilia Perassi, presidente della Commissione d’Ateneo per l’Open Science, e Paola Galimberti. "E’ intenzione della Commissione per la scienza aperta incrementare nel corso del prossimo anno le attività a supporto di una maggiore e più capillare diffusione dei principi e dei modi dell’Open Science".
Per garantire elevati standard di qualità l’Università di Milano sostiene le oltre 40 redazioni che prendono in carico i lavori. Così come dà sostegno ai membri dei vari comitati editoriali garantendo l’infrastruttura sui cui poggia il lavoro di professori, ricercatori e studiosi che partecipano alla pubblicazione delle riviste. Le riviste dell'Università rese liberamente disponibili sono per ora quasi esclusivamente di ambito umanistico, tranne due di veterinaria e una di Scienze della Terra e a breve una di medicina. "La piattaforma è ovviamente aperta a chiunque in ateneo intenda portare avanti un progetto editoriale. Non è così semplice in ambito STEM perché queste discipline sono molto legate al brand e quindi ai grandi editori internazionali che ne rappresentano il target" commenta Galimberti.
La pubblicazione è solo l’ultimo miglio di un sistema che resta aperto dalla a alla zeta: raccolta di dati della ricerca, diffusione dei contenuti sulle piattaforme, indicizzazione delle riviste, partecipazione e organizzazione di convegni sul tema. L’intero archivio delle riviste è liberamente consultabile qui.