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Morte, evoluzione di un concetto

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Fino agli anni '50 del secolo scorso la certificazione del decesso avveniva decretando la morte clinica del paziente sulla base della cessazione irreversibile delle funzioni cardio-respiratorie.

L'allora nascente medicina dei trapianti doveva perciò limitarsi al prelievo di organi da donatori a cuore non battente. Questo presentava dei problemi dovuti alla conservazione degli organi prelevati. Oltre tutto, in quegli anni le conoscenze relative alle tecniche di immunosopressione erano estremamente ridotte, aumentando così la frustrazione dei chirurghi che, per via dei pochi organi a disposizione e delle reazioni immunitarie quasi sempre letali, non riuscivano ad avere il successo sperato con i loro primi tentativi.

A prescindere dall'enorme importanza dell'introduzione nel 1978 della ciclosporina come immunosopressore, già verso la fine degli anni '50 era cominciata una rivoluzione in ambito di medicina intensiva. Proprio in quegli anni iniziò, infatti, la diffusione dei ventilatori meccanici che permisero una situazione fisiologica finora mai riscontrata: le funzioni cardio-respiratorie potevano essere surrogate artificialmente permettendo così l'arrivo dell'ossigeno alle varie popolazioni cellulari del corpo.

Nel caso di morte cerebrale sono le intere funzioni del cervello che cessano. Ed è proprio questa morte cerebrale che, soprattutto grazie all'introduzione dei ventilatori meccanici, poteva essere separata, almeno temporalmente, dalla morte cardiaca, e così avere pazienti cerebralmente morti ma con il cuore ancora battente.

Se prima la medicina dei trapianti si limitava alla possibilità di prelevare organi e tessuti da donatori con cuore non battente, ora nasceva la possibilità di avere anche donatori cerebralmente morti ma con cuore battente. Solo che non era semplice passare a questa tipologia di donatori in quanto le sedimentazioni storiche e culturali ponevano delle serie remore, visto che proprio il battito cardiaco era da sempre stato considerato quale sintomo di vita. Tuttavia proprio le nuove frontiere della medicina spingevano a cambiare il criterio di morte.

Si ricordi che siamo negli anni '60, quando i primi trapianti con donatori umani cominciavano a essere piuttosto frequenti fino ad arrivare al famosissimo trapianto cardiaco effettuato nel 1967 da Christiaan Barnard.

Avvenne così qualcosa che sovente accade nell'interazione fra scienza e società: i risultati scientifici e tecnici mettevano in crisi un sapere etico, filosofico, religioso, ma anche giuridico condiviso. Lo status quo era scombinato e si aprì il dibattito che, almeno negli USA, arrivò a una prima forma di coagulazione istituzionale nel 1968 quando la commissione dell'Harvard School of Medicine, guidata da un anestesista e bioeticista (Henry Beecher), sancì che la morte cerebrale era da considerarsi come morte clinica del paziente:

Il nostro scopo principale sta nell'indicare il coma irreversibile quale nuovo criterio di morte. Ci sono due ragioni che spingono verso una nuova definizione. La prima riguarda il fatto che il progresso delle tecniche sia rianimatorie sia a supporto della vita hanno portato a un aumento dei tentativi di salvare pazienti con danno gravissimo. Talvolta questi tentativi hanno avuto solo un successo parziale, cosicché il risultato è stato un individuo il cui cuore continuava a battere ma il cui cervello era irrimediabilmente danneggiato. Ma tale situazione ha generato un carico enorme sia per i pazienti che soffrono di perdita irreversibile dell'intelletto, sia per le loro famiglie, sia per gli ospedali in cui sono ricoverati, sia per tutti coloro che necessitano di un posto-letto ma che non possono fruirne per via che è già occupato da questi pazienti comatosi. La seconda ragione concerne i criteri per la definizione di morte che abbiamo. Questi sono ormai obsoleti e possono portare a controversie per ottenere organi per il trapianto" ('A Definition of Irreversible Coma. Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death', JAMA, 205, 1968, pp. 337-340).

Inutile a dirsi, tale pronunciamento sollevò un incredibile numero di critiche da parte di medici, filosofi, politici, religiosi, uomini della strada; anche perché il pronunciamento enfatizzava un po' troppo che la nuova definizione di morte doveva essere funzionale al recupero di nuovi donatori e, infelicemente, alla liberazione di posti-letto ospedalieri.

In ogni caso, nel 1981 furono pubblicati gli atti della "President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioural Research" incaricata di lavorare attorno alla definizione di morte. Si arrivò così a quella che da allora si chiama lo Uniform Determination of Death Act, (UDDA) secondo cui:

Un individuo che ha subito o 1) la cessazione irreversibile delle funzioni cardio-respiratorie, o 2) la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'intero cervello, incluso il tronco cerebrale, è morto

Ed è su questa deliberazione che da quel momento le legislazioni di moltissimi paesi cominciarono a basarsi per fornire una loro definizione di morte. Questo accadde pure per l'Italia, dove si hanno la Legge 29/12/1993, n. 578 (Norme per l'accertamento e la certificazione di morte) e il DPR 22/08/1994, n. 582 (Regolamento recante le modalità per l'accertamento e la certificazione di morte) .

A partire dalla situazione appena delineata, a Viareggio e sotto la direzione scientifica di Giovanni Boniolo e di Ignazio Marino, giovedì 24 settembre, giornata inaugurale della seconda edizione del Festival della Salute (www.festivaldellasalute.com), ci sarà un workshop internazionale. Il programma affronterà  da diversi punti di vista il delicato tema della definizione e dell'accertamento di morte cerebrale in ambito di trapianto d'organi, mettendo a confronto le posizioni di storici della medicina, di bioeticisti e di clinici. Oltre ai direttori scientifici, interverranno Bernardino Fantini (Università di Ginevra), John Harris (University of Manchester), Robert Truog (Harvard Medical School), Tia Powell (Montefiore-Einstein, New York), Howard Doyle (Albert Einstein College of Medicine e Montefiore Medical Center, New York) e Stuart Youngner (Case Western University, Clevelend).


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