Il 14 gennaio 2012, a Firenze, è scomparso Paolo Rossi. Era nato a Urbino il 30 dicembre 1923. Alla storia delle idee scientifiche Rossi ha dato contributi fondamentali, che sin dagli inizi gli sono valsi una vasta notorietà internazionale, testimoniata, oltre che da prestigiosi riconoscimenti, dalla traduzione in più di dieci lingue delle sue opere.
Da Eugenio Garin – con cui aveva discusso la tesi – era stato guidato a rivolgere i suoi interessi nella direzione del pensiero dell’età moderna e delle radici di quest’ultimo nella cultura filosofica e scientifica del tardo Medioevo e del Rinascimento. A Milano, assistente di Antonio Banfi, era poi venuto a contatto con altre esperienze culturali da cui aveva ricevuto stimoli profondi per arricchire, approfondire, rendere più complesso e anche problematico il punto di vista da assumere nello studio della nascita del pensiero della modernità e dei modi in cui quello che è comunque un processo lungo e tortuoso conduce a trasformazioni decisive nell’intera società occidentale Tra il 1957 e il 1962, in ben tre libri (Francesco Bacone dalla magia alla scienza; Clavis universalis; I filosofi e le macchine), veniva delineato da Paolo Rossi quello che appariva – e tale era riconosciuto dai recensori italiani e stranieri – un vero e proprio mutamento categoriale nella interpretazione del ruolo che, nella nascita dell’Europa moderna, andava riconosciuto al delinearsi di una immagine scientifica del mondo. Immagine scientifica del mondo venuta a emergere e a prendere consistenza su una linea molto spesso non di decisa rottura con la visione magica delle cose, ma fatta di contaminazioni e trasformazioni complesse e sorprendenti a un tempo proprio di quest’ultima.
Con la pubblicazione dell’ultimo di quei tre libri (I filosofi e le macchine, del 1962) coincide l’inizio della lunga carriera accademica di Paolo Rossi. L’insegnamento della storia della filosofia tenuto da Rossi nelle università prima di Cagliari e di Bologna e poi, dal 1966, di Firenze (fino al 1999) si è sempre ispirato al convincimento che la comprensione delle concezioni filosofiche e dei sistemi in cui esse si organizzano impone la conoscenza dei contesti in cui quelle concezioni medesime emergono e che assai spesso le vedono affiancate quando non anticipate da idee la cui messa a fuoco richiede il soccorso della antropologia, della psicologia, dello studio delle religioni quando non addirittura quello della biologia, della neurologia, della psichiatria e della psicopatologia. Ciò vale ovviamente, all’inverso, per le concezioni scientifiche nella loro intera articolazione (anche se forse con gradazioni diverse d’intensità). E vale appunto in forza dell’intimo rapporto che queste ultime mostrano di avere avuto e di continuare ad avere con quelle idee intorno alla natura del mondo e dell’uomo che sempre sono state al centro della riflessione filosofica.
Alla guida di iniziative editoriali (in primo luogo le collane di storia della scienza dirette presso gli editori Loescher e Feltrinelli e la Storia della scienza moderna diretta per l’UTET) destinate a esercitare una importante e durevole influenza sulla cultura italiana a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, Paolo Rossi si è adoperato con passione per promuovere lo studio e la conoscenza della storia della scienza. Si è contemporaneamente impegnato in una attività pubblicistica di grande successo, proseguita fino ai suoi ultimissimi anni. Il realizzarsi di quelle iniziative editoriali è stata accompagnata dalla pubblicazione di una serie di nuovi importanti libri dedicati a illustrare il contesto della nascita e del prendere forma di idee centrali nello sviluppo della scienza moderna. Accanto dunque a lavori su momenti e figure della rivoluzione scientifica (Aspetti della rivoluzione scientifica, 1971; Immagini della scienza, 1977; I ragni e le formiche, 1986; La scienza e la filosofia dei moderni, 1989; La nascita della scienza moderna, 1997), in un libro del 1979 (I segni del tempo) Paolo Rossi ha avviato l’esplorazione di un territorio tanto vasto quanto sconosciuto. In un gran numero di testi scientifici e religiosi a lungo ignorati dagli storici Rossi metteva in luce da una parte il timido affacciarsi di un nuovo modo di guardare alla storia della terra (e con essa a quella “delle nazioni”), dall’altra il fermo persistere di concezioni ostinatamente legate al sapere biblico. Paolo Rossi guidava così il lettore ad assistere allo spalancarsi del vero e proprio “oscuro abisso del tempo”. In quel libro, Rossi riannodava il filo della propria ricerca non solo ai suoi studi di quasi venti anni prima intorno all’arte della memoria, ma anche al suo costante interesse per il pensiero di Vico, da lui già affrontato agli inizi dei suoi studi e su cui più volte sarebbe tornato in una serie di saggi e di interventi spesso anche vivacemente polemici nei confronti delle interpretazioni più tradizionalmente legate all’immagine di un Vico precursore dello storicismo, saggi e interventi raccolti in un libro dal (Le sterminate antichità.
Il tema del tempo e della sua insondabilità, quello della memoria e quindi anche la vicenda della rivoluzione prodottasi in ogni campo del sapere con l’avvento dell’evoluzionismo darwiniano vengono così a costituirsi in motivi centrali della riflessione che Paolo Rossi prende ha poi condotto su molti aspetti della cultura dell’Ottocento e del Novecento. In primo luogo nel Il passato, la memoria, l’oblio (1991), Rossi fornisce una nuova prova della inestricabilità dell’intreccio, in un comune contesto sottoposto alla sola legge del tempo, dei modi in cui gli uomini hanno sempre pensato la natura e sé medesimi. Ciò non significa però il convincimento che il tempo in realtà altro non sia che un “eterno ritorno dell’uguale”. In libri brillanti e polemici come I ragni e le formiche (1986) e Paragone degli ingegni moderni e postmoderni (1989) e poi ribadite in Naufragi senza spettatore (1995) polemizza con toni chiarissimi e spesso anche duri nei confronti delle “fughe in avanti” dei sostenitori di concezioni apocalittiche o anche solo millenaristiche, tutti accomunati nel rifiuto della razionalità della indagine scientifica.
Ricorrendo volentieri all’arma di una ironia che a volte si fa tagliente, Paolo Rossi ha continuato sin nei suoi ultimi scritti – e con l’attenzione volta a un pubblico che fosse ben più vasto della comunità degli “addetti ai lavori” – a difendere le buone ragioni del ricorso alla storia dinanzi ai mutamenti, ai capovolgimenti di interi sistemi di riferimento. La sua non è stata certo la retorica del nihil sub sole novum: in pochi studiosi – e non solo della sua generazione - era dato di imbattersi in tanta curiosità per le novità del sapere tecnico-scientifico oltre che per i nuovi strumenti messi a disposizione della storia delle idee dalla antropologia, dalla paleoetnologia, dalla genetica delle popolazioni, dalla neurobiologia. Era, piuttosto, il convincimento che è comunque l’insegnamento della storia ad assicurare l’esercizio di una razionalità equilibrata, priva della presunzione cui a volte può indurre – con esiti simmetrici a quelli dei distruttori della ragione – la consequenzialità nelle deduzioni, la fedeltà cieca allo spirito di sistema. Paolo Rossi era convinto che al lavoro dello storico non può essere rimproverata la lontananza dai tempi in cui viviamo, la vacua curiosità per cose che non sono più. Lo storico – amava affermare ricordando una felice espressione di Giulio Preti con cui aveva intitolato uno dei ultimi libri – in realtà vive in “un altro presente”.