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Medicina territoriale, a che punto siamo?

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Cartina storica dell'Italia (inchiostro e colore su pergamena di Nicolaus Germanus, da un'edizione del 1467 della Cosmographia Claudii Ptolomaei).

E ora tocca a loro. Sui servizi di medicina territoriale grava il peso di questa “fase due”. Perché se è vero che adesso la cosa più importante diventa il contact tracing - ovvero individuare precocemente la persona sintomatica, testarla, rintracciare le persone con cui è stata a contatto, possibilmente fare il test anche a loro e poi applicare le misure di quarantena – chi può svolgere questo compito se non i medici di medicina generale e i servizi di sanità pubblica e di epidemiologia delle varie regioni? Cioè coloro che conoscono il territorio e hanno il polso di quello che vi accade.

Una medicina dimenticata

Si tratta di un compito difficile, per alcune regioni più che per altre. Ma tutte si trovano a dover affrontare un problema comune: per molti anni questi settori sono stati dimenticati, depauperati di risorse economiche e con poco ricambio di personale. Su questo gli operatori che abbiamo intervistato sono tutti d’accordo. Bisogna ripartire da qui, dal fatto che negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di medicina incentrata sul paziente mentre la medicina attenta alla popolazione è stata dimenticata.

Lombardia

Se questo è vero in generale, per alcune zone d’Italia è più vero. Una lettera pubblica dei medici di medicina generale di Brescia affronta la questione in modo drammatico: “I primi a proporre il tema del ‘territorio abbandonato’ sono stati colleghi di Codogno, che si sono trovati per 2 settimane soli nel pieno della tempesta virale, pagandone il prezzo in termini di vite perdute. È seguito il documento dei Presidenti provinciali degli ordini dei Medici lombardi, quello dell’Ordine bresciano e degli ex direttori dei Dipartimenti di prevenzione; tutti hanno rimarcato il mancato governo del territorio”. Che cosa è successo in Lombardia? “Si è puntato sul principio della libera scelta e sulla concorrenza al ribasso tra medici usa-e-getta, se non accondiscendenti alle richieste dei ‘clienti’, più che sulla cooperazione professionale, nella convinzione di poter governare la rete territoriale con lo strumento della domanda-offerta di prestazioni e della concorrenza tra ‘erogatori’” (qui la lettera completa). In sostanza, dicono i firmatari, la Lombardia ha aderito alle teorie del “quasi mercato” sanitario creando un modello centrato sulla concorrenza e non sul coordinamento che in questa occasione ha mostrato tutte le sue debolezze.

Quello della Lombardia è forse un caso limite che probabilmente meriterebbe un’analisi a parte, ma le altre regioni? Come stanno affrontando questa fase della pandemia? Lo abbiamo chiesto ad alcuni operatori che hanno a che fare con diversi tessuti sociali.

Emilia Romagna

A Modena, per esempio, ci si sta concentrando sulle realtà produttive. «Qui da noi la filiera alimentare è rimasta operativa anche nella fase 1», spiega Giovanni Casaletti, direttore del servizio Igiene pubblica AUSL della città, «e ha coinvolto sia personale assunto, sia lavoratori interinali che sono i più difficili da gestire perché lavorano tre giorni in un luogo e tre in un altro». Cosa si è fatto quindi? «Per l’indagine epidemiologica abbiamo modificato e ampliato il numero di domande per cogliere subito possibili situazioni di rischio anche nel contesto lavorativo, ad esempio chiediamo dove lavora, quali sono le sue mansioni, qual è la postazione di lavoro, inoltre sono aumentate le domande sull’uso di mascherine e guanti e sul distanziamento». Per questo lavoro di rintracciamento dei casi sono stati coinvolti i medici di medicina generale, ma anche le aziende con alcune delle quali, come la Ferrari, è stato fatto un accordo. «Inoltre – spiega Giuliano Carrozzi, del servizio epidemiologia AUSL Modena, - è stato attivato un software che guida nella geolocalizzazione dei luoghi di lavoro, di viaggio, di abitazione». Come si fa? «Cerchiamo di collegare ogni occasione di incontro tra persone a un luogo attraverso la raccolta di indirizzi».

Oltre a potenziare l’indagine epidemiologica, si cerca di venire incontro alla richiesta dei medici di medicina generale di eseguire i tamponi ai casi sospetti. «Naturalmente – spiega Casaletti, - ci devono essere delle priorità perché il numero di tamponi processabili non è infinito, ma il medico di medicina generale sa cogliere sul territorio le situazioni a rischio. Inoltre c’è il monitoraggio con tampone per le persone che accedono all’ospedale per interventi chirurgici».

Punti critici? Il sistema di rilevazione, la possibilità di effettuare tamponi in modo mirato a più persone, in un territorio produttivo con migliaia di persone da seguire. «Peraltro, in alcune aziende il lavoro a distanza non è praticabile: le persone devono stare vicine, quindi non sempre si può rispettare il distanziamento o il principio del metà turno», spiega Carrozzi.

Campania

C’è poi il timore che in futuro con la ripartenza di alcuni servizi che erano fermi, non ci sia più la disponibilità di personale che in questi mesi si è dedicato alla sorveglianza: oltre cento persone arrivate a supporto. Anche in Campania, strada facendo, il personale dei servizi deputati al contact tracing e alle indagini epidemiologiche è aumentato, ma per quanto? «Si sono aggiunte persone in corsa perché la pressione era molto forte», spiega Angelo D’Argenzio, del servizio Igiene e Sicurezza luoghi di lavoro della Regione. «Ma il problema è che in Italia abbiamo bacini professionali che nel tempo sono stati dimenticati, soprattutto nelle regioni commissariate, come è stata la Campania. In Regione le risorse umane depauperate, oggi vanno rinfoltite, il personale in pensione va sostituito».

Intanto un valido supporto è arrivato dall’Istituto zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno per fare i tamponi sul territorio. Ma non basta. «Abbiamo bisogno di strumenti nuovi la cui costruzione è stata avviata ma non ancora perfezionata, come ad esempio la Piattaforma unica regionale dei tamponi a cui si stanno agganciando le aziende locali. Con questa piattaforma l’operatore può apporre - diciamo così - un marchio sul tampone che ha eseguito e appena processato dal laboratorio di riferimento si può consultare, in tempo reale, da varie postazioni, l’esito. Questo permette di monitorare tempestivamente il numero di nuovi casi e migliorare la sorveglianza».

Attualmente, in Regione Campania si sta lavorando alla definizione di un piano di presa in carico territoriale dei pazienti Covid a cui parteciperanno le Unità sanitarie locali, i medici di medicina generale, la medicina territoriale e i Dipartimenti di Prevenzione. «Quello cui puntiamo – prosegue D’Argenzio - è un’organizzazione che consenta di condividere subito l’informazione sui nuovi casi in modo da valutare l’approccio ma anche la presa in carico delle persone: ad esempio, se la diagnosi è fatta su una persona con due o più patologie e magari ultrasessantacinquenne, sappiamo che la dovremo tenere sotto osservazione in modo più stringente, oltre a valutare le possibilità di isolamento e di sorveglianza dei contatti stretti. Tutte queste attività vanno condotte da team altamente specializzati, opportunamente e continuamente formati, capaci di lavorare in rete. Mai come in questo momento, per modificare in corsa l’assetto dell’assistenza territoriale è necessario appoggio dei decisori».

D’Argenzio considera tre punti come centrali: l’utilizzo di piattaforme su cui condividere dati clinici e di laboratorio e di mezzi di comunicazione multimediali, la disponibilità di personale adeguatamente formato e la capacità di lavorare in team: «Per tutto questo non servono grandi risorse, certo servono un’attenta organizzazione, supporti multimediali come tablet, smartphone, e l’utilizzo della telemedicina che potrebbe dare ad esempio in tempo reale dati utili come l’ossimetria e la frequenza cardiaca».

Veneto

Il Veneto è la regione che oggi viene additata come quella che ha affrontato meglio la pandemia, tuttavia anche Mauro Ramigni, del servizio epidemiologia ULSS 2 Marca Trevigiana, lamenta che il problema principale è stato la carenza di personale “dovuta all'impoverimento progressivo dei servizi di sanità pubblica”.

«Noi facciamo il contact tracing e la sorveglianza delle persone in isolamento – racconta Ramigni - ogni giorno telefoniamo loro e le aiutiamo a rimanere in casa, coinvolgendo anche i sindaci dei paesi in modo che il loro isolamento sia garantito. Del resto non abbiamo braccialetti o strumenti che ci garantiscono che le persone non escano, dobbiamo aiutarli con il controllo sociale, ad esempio portando loro la spesa o quello di cui necessitano. È stato un lavoro molto duro nelle settimane passate, oggi la situazione è meno critica. Siamo partiti senza supporto informatico, invece è importante avere dei gestionali che permettano di avere velocemente sotto occhio la situazione delle persone. All’inizio c’era poco dialogo con gli operatori di Asl diverse , ma era un problema dovuto alla pesantezza della situazione con 4500 persone da tenere sotto controllo e 40 operatori. La cosa positiva è che i Dipartimenti di Prevenzione hanno personale che sa bene cosa fare in caso di focolai epidemici. Procedure sperimentate con casi di tubercolosi e di meningite».

Il personale dunque serve, non c’è dubbio, anche se – dice Ramigni - sistemi gestionali migliori permettono di perdere meno tempo con le scartoffie e quindi una razionalizzazione delle forze: «Io credo che una persona ogni due nuovi casi sia un rapporto giusto. Certo, il rilassamento ora fa un po’ paura. Noi ce la facciamo, ma non è dappertutto così. Bisogna tenere sotto controllo gli ospedali e le aziende. Inoltre, gli isolamenti andrebbero fatti in strutture apposite». E le app per tracciare i contatti? «Sono comode perché le persone possono non ricordare con chi sono entrate in contatto nei giorni precedenti alla diagnosi».

 


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