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Magistrati e avvocati a scuola di genetica

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La ricerca scientifica, si sa, produce continuamente nuove conoscenze che, in tempi sempre più rapidi, percolano sotto forma di nuove tecnologie, nella nostra vita quotidiana, rimodellandola continuamente. Chi non ne fosse convinto si affacci in un tribunale. O, più semplicemente, segua le vicende di uno di quei serial televisivi dove protagonisti sono i laboratori della polizia scientifica. E vedrà che, dalla lente d’ingrandimento di Sherlock Holmes alla PCR (Polymerase Chain Reaction) di “Gil” Grissom, uno dei protagonisti del serial televisivo CSI (Crime Scene Investigation), la tecnologia scientifica ne ha fatta di strada nelle cittadelle del diritto.

Ma mentre in passato un giudice o un avvocato potevano completare l’intero arco della loro vita professionale confrontandosi in buona sostanza con le medesime conoscenze scientifiche e le medesime tecnologie (non a caso Conan Doyle aveva dotato Sherlock Holmes, il primo investigatore scientifico della letteratura mondiale, solo di logica rigorosa e di lente d’ingrandimento), ormai non passa lustro che la scienza forense non debba cambiare da cima a fondo il suo apparato tecnico e scientifico (e non passa stagione che i tecnici di laboratorio della polizia di Las Vegas, coprotagonisti di CSI, non debbano rinnovare la loro professionalità).

Ma come fanno i giudici e gli avvocati nei tribunali reali a tenere il ritmo di questi cambiamenti? Che non sono solo tecnologici (basta relativamente poco), ma anche e soprattutto culturali?

Queste domande che hanno assunto una valenza decisiva da quando la genetica ha affiancato e, forse, superato la chimica e la fisica nel regno delle scienze forensi. Chiedendo agli attori dell’universo giuridico di indossare occhiali epistemologici affatto nuovi.

Un esempio? Prendete l’articolo che lo scorso gennaio l’olandese Manfred Kayser e i suoi collaboratori hanno pubblicato sulla rivista Human Genetics, annunciando di aver messo a punto un modello per predire, sulla base dei varianti del DNA, il colore dei capelli di un essere umano. Il successo della previsione, sostengono è assicurata nel 90% dei casi.

Con un test analogo, chiamato Irisplex, e con la medesima probabilità di successo (90%), Kayser ha dimostrato di poter prevedere il colore degli occhi. E con un test un po’ diverso, il genetista forense è in grado di valutare l’età di una persona (con un errore di 9 anni). Sappiamo, però, che il gruppo olandese sta lavorando a un ulteriore sviluppo: la previsione dell’altezza di un individuo. Un passaggio molto più difficile. Perché l’altezza di una persona dipende molto da fattori ambientali. Inoltre, anche per la quota parte genetica, i geni coinvolti sono molti.

La sfida è difficile, ma aperta.

E non si tratta solo di una sfida scientifica. Il problema sarà, appunto, l’applicazione di queste conoscenze. Le implicazioni etiche e giuridiche sono molte. Se Kayser ha ragione, presto sulla base di una traccia di DNA contenute in una goccia di sangue, in un lembo di pelle, in un capello, in una piccola quantità di sperma o di saliva, sapremo che un efferato omicidio è stato commesso da un uomo di probabili origini europee, che al 90% ha i capelli biondi, al 90% ha gli occhi azzurri, ha un’età compresa, probabilmente, tra 30 e 40 anni e un’altezza presunta di 1,80 metri, un certo colore della pelle.

Se i dati verranno utilizzati in maniera giusta, la polizia e la magistratura avranno uno strumento molto potente per giungere all’identificazione di una persona. Ma se saranno utilizzati in maniera sbagliata, faranno aumentare il rischio di errore giudiziario. In ogni caso le nuove tecnologie potrebbero costituire un pericolo per la privacy e per i diritti dei cittadini a non essere classificati (e schedati) sulla base del colore della pelle o dell’appartenenza etnica.

Ma come faranno i giudici e gli avvocati – umanisti per formazione – a utilizzare queste nuove possibilità offerte dall’analisi genetica nella maniera giusta? O, almeno, nella maniera più giusta umanamente possibile?

È a domande come queste che cerca di rispondere il Corso di Alta Formazione in Genetica Forense, che si terrà venerdì 2 e sabato 3 dicembre a Milano (vedi dettagli e il programma dell'evento) organizzato dall’Istituto Europeo di Oncologia in collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura e dalla Camera Penale della città meneghina.

I docenti saranno genetisti e medici, ma anche filosofi e bioeticisti, proprio perché la genetica forense ha svariate implicazioni. Ma protagonisti assoluti saranno i discenti: 15 magistrati e 15 avvocati. Non solo perché si tratta di umanisti che si confrontano con la scienza. Ma perché si troveranno in una condizione affatto diversa da quella del tribunale: dove l’ultima parola spetta a loro e gli uomini di scienza sono “solo” consulenti.

Esperimenti del genere sono stati condotti a Pavia (grazie al contributo di un biologo, Carlo Alberto Redi, e di un magistrato, Amedeo Santosuosso). Ma è la prima volta che viene realizzato a Milano, sede di uno dei più importanti tribunali d’Italia.

Tuttavia l’importanza dell’esperimento non deriva solo dalla sua relativa novità. Ma anche dal fatto – sostiene Giovanni Boniolo, filosofo della scienza dell’Istituto Firc di Oncologia Molecolare (IFOM) e promotore dell’iniziativa – che in questo caso la scienza fornisce una plastica capacità di “servire” la società civile. Nel senso di proporsi come strumento che la società civile può utilizzare per migliorare se stessa. A patto, naturalmente, che la società civile sia disponibile, come i 15 magistrati e i 15 avvocati, a fare un piccolo sforzo per cercare di capire come utilizzare al meglio quel formidabile strumento.


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