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La lunga strada verso un’Europa sostenibile

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È stato pubblicato a dicembre il rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, che esamina le tendenze storiche, le previsioni al 2030 e al 2050 e lo stato delle decisioni politiche dei Paesi dell’UE. Qui una prospetto degli andamenti sui diversi parametri presi in considerazione: emergono riduzione di gas serra, di inquinanti atmosferici e industriali, una gestione più efficiente delle risorse e l’implementazione di nuove tecnologie sostenibili, ma anche una forte perdita di biodiversità ed erosione del suolo, che indicano come non siamo ancora sul giusto percorso per raggiungere gli obiettivi posti dall'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Piazza del Mercato di Helsinki

di Laura Boscherini, Serena La Rosa, Riccardo Lucentini, Agnese Martinelli, Jacopo Mengarelli, Asia Moretti, Giulia Pantiri, Silvia Rapisarda, Andrea Siccardo

 

Il Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, uscito il 4 dicembre 2019, esamina le tendenze storiche, le previsioni al 2030 e al 2050 e lo stato delle decisioni politiche dei Paesi dell’Unione. I parametri presi in considerazione dagli esperti sono: biodiversità e natura, acqua, terra e suolo, ambiente marino, cambiamenti climatici, inquinamento atmosferico, spreco e risorse in un’economia circolare, inquinamento acustico e inquinamento industriale. I miglioramenti più significativi riguardano la riduzione di gas serra, di inquinanti atmosferici e industriali, una gestione più efficiente delle risorse e l’implementazione di nuove tecnologie sostenibili. Al contrario, i trend più allarmanti registrano una forte perdita di biodiversità e un eccessivo sfruttamento del suolo.

Biodiversità e natura

La biodiversità in Europa è stata modificata dall'attività umana più che in qualsiasi altro continente. A minacciarla sono il cambiamento nell'uso del suolo, i cambiamenti climatici, l'estrazione di risorse naturali, l'inquinamento e le specie esotiche invasive. La strategia per il 2020 riflette gli impegni assunti dall'UE nel 2010 nell'ambito del piano strategico per la biodiversità 2011-2020.

Le due più importanti reti di aree protette sono Natura 2000 negli Stati membri dell'UE e la Rete Smeraldo al di fuori dell'UE. Natura 2000 ha stimolato un notevole aumento delle aree protette che attualmente copre il 18% dell'area terrestre dei 28 Stati membri. Tuttavia, questo non è garanzia di un'efficace protezione della biodiversità, per la quale è importante rafforzare piani di gestione e misure di conservazione.

Le direttive UE sugli uccelli e gli habitat costituiscono la spina dorsale della legislazione sulla conservazione della natura. A livello dell'UE, solo il 23% delle specie indica uno stato di conservazione favorevole mentre per gli habitat protetti è solo il 16%. Il 17% delle specie di uccelli è a rischio e un altro 15% è in declino o estinto. Le popolazioni di farfalle dei prati sono diminuite del 39% in 15 Stati membri dell'UE dal 1990.

Le specie e gli ecosistemi sono caratterizzati da una forte capacità di far fronte a sfruttamento e pressioni esterne. Al di là di certi limiti, tuttavia, le specie possono diminuire fino a scomparire e gli ecosistemi possono perdere la loro capacità di fornire servizi. Piante e animali tolleranti alle alte temperature o resistenti a malattie sono cruciali nell'adattamento ai cambiamenti climatici. La conservazione delle varietà vegetali e di specie in via di estinzione sono quindi fondamentali a tale scopo. La distruzione e la perdita di biodiversità e natura sono critiche quanto i cambiamenti climatici.

Acqua

Assicurare un utilizzo sostenibile dell’acqua è uno dei capisaldi della politica comunitaria da decenni. Le Direttive più importanti sono la Direttiva Quadro sulle Acque – DQA e la Direttiva Alluvioni: anche i paesi che non sono membri dell’Unione si ispirano di fatto a questi standard.

Attualmente, si ritiene che il 40% delle acque sia in buone condizioni. Questo dato varia molto nelle diverse regioni europee: nella popolosa Europa centrale la qualità è peggiore, mentre migliora notevolmente nelle zone sud-orientali e settentrionali. Habitat a rischio sono le zone umide, ecosistemi essenziali per il proliferare e la conservazione delle specie. Dal 2000 al 2018, queste si sono ridotte di un ulteriore 1%. Si trovano soprattutto nelle piane alluvionali, che a causa della elevata antropizzazione sono infatti degradate al 70-90%.

I fattori che pregiudicano il raggiungimento di un buono stato ecologico sono tre.
Prima fra tutti la pressione idromorfologica, ovvero tutte le modifiche apportate ai corsi d’acqua. La sopravvivenza degli habitat deriva dall’interazione fra acqua, morfologia fluviale, sedimenti e vegetazione. Dighe, argini, canali alterano il reticolo idrografico danneggiando questo equilibrio. La consapevolezza del problema è stata raggiunta solo negli ultimi anni e ad oggi non esistono standard condivisi a livello internazionale per valutarne l’impatto.

In secondo luogo, va considerata l’immissione di inquinanti. Un esempio sono i nitrati, contenuti nei fertilizzanti, che contaminano le acque di falda e costiere, e provocano l’eutrofizzazione: un surplus di nutrienti che danneggia irreversibilmente l’habitat marino. La Direttiva Nitrati del 1991 non ha ancora raggiunto i miglioramenti auspicati.

Il terzo parametro è il prelievo dell’acqua, stimato in 243.000 milioni di metri cubi estratti annualmente, un dato in diminuzione. Il 60% viene restituita all’ambiente contaminata.

Nonostante importanti passi avanti, resta ancora molto resta da fare. L’obiettivo di garantire una buona qualità delle acque nel continente entro il 2015 non è stato raggiunto. In particolare, servono maggiori sforzi per ridurre l’inquinamento da fonti diffuse e per attenuare la pressione idromorfologica. È poi fondamentale considerare la gestione delle risorse idriche nel loro complesso anche in vista dei cambiamenti climatici e del rischio di scarsità idrica a cui saranno sempre più esposte molte regioni del continente.

Terra e suolo

Il suolo è una risorsa naturale cruciale per gli ecosistemi, la biodiversità e la qualità delle acque. Ma soffre la pressione di città, infrastrutture e produzione agricola.

L’Italia occupa il 12esimo posto in Europa per consumo di suolo, con una quota minima destinata a riuso e riqualificazione. Solo il 13% dei programmi europei di gestione del territorio è finalizzato a questo scopo.

Le cause del consumo di territorio possono essere ricondotte a due fattori. Il primo è l’espansione urbana: in Europa è previsto un incremento pari all’11% entro il 2050. Il secondo è l’aumento della richiesta di cibo e di biocarburanti. A questo si aggiunge un degrado qualitativo del suolo dovuto sia ad agenti inquinanti (metalli pesanti e pesticidi) sia a eventi meteorologici estremi aggravati dai cambiamenti climatici.

L’Unione si pone l’obiettivo di conservare il territorio per difendere la biodiversità e ridurre l’inquinamento e il dissesto idrogeologico: l’Environment Action Programme pone per il 2050 importanti obiettivi comunitari, come il consumo netto di suolo pari a zero e il ripristino del 15% degli ecosistemi degradati.

Nonostante le singole nazioni abbiano sviluppato e finanziato programmi di tutela del territorio, manca ancora una consapevolezza e una legislazione condivisa per il riutilizzo del terreno urbano.

Senza uno sforzo collettivo - commentano gli estensori del Rapporto EEA - sarà molto difficile raggiungere gli obiettivi previsti che connettono la tutela del suolo alla preservazione e al rispetto dell’ambiente e a un miglioramento della qualità della vita.

Ambiente marino

La Direttiva Quadro sulla Strategia Marina del 2008 (MSFD) mira a proteggere gli ecosistemi marini incorporandone la gestione nella politica marittima dell’UE e richiedendo che venga raggiunto un buono stato ambientale delle acque marine dell’UE entro il 2020 al fine di promuovere un’economia blu sostenibile.

L’UE riconoscendo la variabilità che intercorre tra i diversi mari europei e i loro ecosistemi marini, con una biodiversità del 18% solo nel Mar Mediterraneo, ha messo in atto una visione strategica per la conservazione di specie e habitat marini vulnerabili e un buono stato ambientale per la biodiversità e gli ecosistemi marini. Nonostante si sia avuto il recupero di alcune specie ittiche, delle foche grigie e dell’aquila di mare coda bianca del Mar Baltico e del tonno rosso mediterraneo, arrestare la perdita di biodiversità marina rimane una grande sfida anche a causa del riscaldamento degli oceani, dell’acidificazione e della deossigenazione.

Il cambiamento climatico ha provocato l’aumento di temperatura dei mari, che hanno cominciato a riscaldarsi dal 1870 con un picco alla fine degli anni ’70 portando a una sostituzione di specie di acqua fredda con specie di acqua calda, e di acidità, il pH della superficie degli oceani è sceso da 8,2 a meno di 8,1 nell’era industriale. Il livello medio del mare è aumentato di 19,5 cm dal 1901 al 2015, cioè di 1,7 mm annui.

I mari europei e i loro ecosistemi vengono visti dall’uomo come occasione di sfruttamento e di crescita socioeconomica dell’UE, ma questo rischia di peggiorare ulteriormente le condizioni attuali se si va a sommare ad altri fattori di danneggiamento quali i contaminanti, la pesca commerciale, l’eutrofizzazione, lo sviluppo costiero, l’introduzione di specie non indigene, gli 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica annui che finiscono nei mari e l’inquinamento sonoro.

La politica dell’UE ha in progetto di eliminare le emissioni di sostanze pericolose, di realizzare attività di pesca sostenibile e di creare una rete rappresentativa e coerente di Aree Marine Protette (AMP) ben gestite, ma nonostante gli sforzi non è realistico pensare che questi cambiamenti possano portare a dei risultati concreti entro il 2020.

Cambiamenti Climatici

Nonostante l’Europa abbia mostrato notevoli miglioramenti nel calo delle emissioni di gas serra, nell’efficienza energetica e nelle energie rinnovabili, gli impatti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi e sulla società sono in peggioramento. Servono maggiori sforzi, in politiche di mitigazione, adattamento e finanza, per gli obiettivi al 2030 e al 2050.

Tra il 1990 e il 2017 le emissioni di CO2 sono calate del 22% in tutti i settori tranne trasporti e biomasse. Da un lato la crescita economica è ancora causa di emissioni climalteranti, dall’altro il sistema energetico è più efficiente. I combustibili fossili contribuiscono ancora al 65% dell’energia finale e all’80% delle emissioni.

Determinante è anche la diminuzione del consumo energetico fino al 2014 (poi in risalita) dovuto anche alla crisi economica del 2008. Al 2017, il 17,5% dell’energia europea deriva da rinnovabili. Decisive risulteranno le strategie di adattamento ai danni inevitabili dei prossimi decenni.

Gli impatti ecosistemici registrati sono ad ampio raggio:

  • La temperatura media europea è aumentata circa 1.6°C rispetto ai livelli preindustriali, a fronte di un aumento globale di quasi 1°C. 18 dei 19 anni più caldi sono tutti dopo il 2000. È probabile che si raggiunga quota +2°C entro il 2040.
  • Sono aumentate dal 1950 le ondate di calore con molta variabilità regionale.
  • Sono aumentate le alluvioni e si sta estremizzando la distribuzione delle precipitazioni.
  • Episodi siccitosi sono aumentati al sud e diminuiti al nord; accresceranno la competizione per l’uso dell’acqua in agricoltura, industria e uso quotidiano.
  • Il livello marino globale è aumentato di 20 centimetri dal 1990. L’IPCC (Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) stima un aumento tra i 28 e i 98 centimetri, che comporterebbe una minaccia per ecosistemi marini, risorse d’acqua, insediamenti e infrastrutture umane.
  • Si sono registrati anche: fusione dei ghiacciai, riduzione del ghiaccio marino e oceani più caldi e più acidi. È possibile un declino della biodiversità europea e un aumento degli incendi.

I rischi principali per la società riguardano anzitutto gli impatti sulla salute (soprattutto legati alle ondate di calore e alle malattie trasmesse da insetti e dall’acqua), ma anche perdite economiche (450 miliardi di euro tra il 1980 e il 2017), commercio e migrazioni.

I target europei si potrebbero aggiornare a “net zero” al 2050, in linea con le indicazioni dell’IPCC, anche se l’Europa contribuisce solo all’8% delle emissioni globali. Ad oggi, è previsto globalmente un aumento di 3°C al 2100: servono NDCs (i contributi di ogni singolo Stato) più ambiziosi, per garantire una transizione efficace e inclusiva. Nonostante gli impegni di migliaia di città, non tutti gli Stati europei hanno Strategie e Piani Nazionali di Adattamento.

L’Europa si è impegnata a usare in questo senso almeno il 20% del suo budget tra il 2014 e il 2020, con fondi che vanno rinforzati. Globalmente, tra 2013 e 2017 si sono mobilitati verso i paesi poveri da 38 a 55 miliardi annui a fronte dei 100 previsti dall’Accordo di Parigi.

Inquinamento atmosferico

L’inquinamento dell’aria in Europa è il più grande rischio ambientale riguardante la salute. Le particelle degli agenti inquinanti come il particolato (PM), il diossido di azoto (NO2), l’ozono (O3), si disperdono nell’atmosfera e vengono aspirate dall’uomo causando l’aggravarsi di malattie respiratorie. Altra conseguenza è l’impatto ambientale: fauna e flora, qualità dell’acqua e dei terreni vengono intaccate, e gli ecosistemi perdono gran parte della loro biodiversità.

Per ridurre le emissioni, dovute principalmente all’agricoltura, ai trasporti e al riscaldamento domestico, l’Europa ha risposto alla Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza imponendo controlli nazionali sulle emissioni, sull’efficienza energetica e mettendo limiti alla concentrazione di agenti inquinanti in atmosfera.

Dal 2000 al 2017 l’emissione della maggior parte degli inquinanti si è ridotta, come l’abbattimento della concentrazione di ossido di azoto grazie soprattutto alla marmitta catalitica nelle automobili. Ogni paese deve continuare a lavorare localmente per rientrare nei limiti previsti per il 2030. È stato stimato che in alcune zone, tra le quali il Nord Italia, nel periodo invernale le emissioni di particolato fine (PM2.5) aumentano drasticamente e il responsabile principale (per il 45%) è il riscaldamento domestico. Tale stima è da calibrare in base alla zona geografica: nelle aree urbane l’inquinamento è dovuto anche ai trasporti e a una riconsiderazione delle stime passate troppo ottimistiche sulle emissioni dei motori diesel.

Secondo le analisi del 2016 della EEA (European Environment Agency), se si estrapola fino al 2020 l’andamento delle concentrazioni tra il 2000 e il 2014, alcune aree supereranno ancora i limiti prefissati. La speranza suggerita da alcuni modelli è che solo con la completa applicazione delle politiche di riduzione dell’inquinamento dell’aria si arriverà al 2030 raggiungendo gli obiettivi previsti.

L’Europa deve migliorare inoltre il coordinamento tra gli Stati e quello con le altre aree di rischio ambientale (come il clima) e dovrà rinnovare tecnologicamente il settore dell’agricoltura. Un grande aiuto sarà la sensibilizzazione dei cittadini tramite la cosiddetta “citizen science” con la quale i cittadini stessi, dotati di sensori, potranno misurare la qualità dell’aria localmente.

Spreco e risorse in un’economia circolare

Per realizzare un’economia circolare a basse emissioni di carbonio è cruciale il raggiungimento di quattro obiettivi: aumentare il ricircolo dei materiali, aumentare l’efficienza delle risorse, diminuire la produzione dei rifiuti e ottimizzare la loro gestione.

Per ognuno di questi contributi, il Rapporto prende in esame uno specifico indicatore.

  • Il valore di Circular Material Use (CMU) esprime il rapporto dei materiali di riciclo sul totale dei materiali utilizzati. Tra il 2004 e il 2016 il CMU medio è cresciuto dall’8% al 12%, ma con una forte variabilità dovuta alla natura dei materiali (per alcune materie prime, infatti, è più economica l’estrazione che il riutilizzo) e alle politiche locali. È però necessaria una ridefinizione dell’intero ciclo di vita: criteri di economia circolare devono già informare la fase di progetto con lo scopo di mantenere prodotti e materiali in uso il più a lungo possibile.
  • Il valore del consumo dei materiali del continente è diminuito del 9% tra il 2000 e il 2017, in seguito alla crisi del 2008, ma già il dato del 2018 è previsto in crescita. Il 23% delle risorse usate proviene inoltre da importazione, spostando il peso ecologico dell’estrazione su paesi extra-europei, e per questo sono previsti dei correttivi. Ci sono differenze locali dovute alle diverse strutture economiche (i paesi la cui economia si basa sull’estrazione mineraria, per esempio, hanno ridotto margine di miglioramento) ma in generale si prevede che l’impatto ambientale dovuto all’aumento del consumo risulti mitigato dall’aumento dell’efficienza.
  • Produzioni di rifiuti: il totale per nazione aumenta con il PIL, quindi è in crescita costante dal 2010, ma comprende anche i rifiuti “secondari”, cioè derivati da differenziazione e incenerimento. Il trend è difficile da elaborare, perché ci sono molti fattori locali che influenzano la produzione dei rifiuti (sviluppo, consumi, politiche, abitudini, innovazioni tecnologiche) e i dati sono ancora pochi e parziali.
  • Gestione dei rifiuti: è stabilita una gerarchia che privilegia la riduzione, quindi la lavorazione a scopo di recupero, e infine lo smaltimento. Nel 2016 il 53,7% dei rifiuti è stato riciclato, il 20,5% incenerito e il 23,5% è finito in discarica. La tendenza è positiva, ma non tutti gli stati riusciranno a rispettare gli obiettivi prefissati. Alcune nazioni, tra cui l’Italia, sono state sanzionate per non aver rispettato le direttive sulle discariche: il business dei rifiuti ha profitti più alti di quello della droga, e spesso è controllato dalla criminalità.

Si tratta di obiettivi relativamente nuovi, pertanto è ancora difficile misurare l’efficacia delle policy, ma è dimostrata la necessità di un coinvolgimento a lungo termine di tutti i livelli: dagli Stati alle regioni fino al singolo cittadino.

Inquinamento acustico

L'inquinamento acustico continua a causare seri danni sia all'ambiente che alla salute dell'uomo anche in Europa, dove circa il 20% della popolazione vive in aree urbane e infrastrutturate.

I trasporti rimangono la principale causa dell'inquinamento acustico. La rapida espansione dei centri urbani e dei trasporti periurbani, sta aumentando l'esposizione ai rumori. Si stima che tra il 2017 e il 2030 il rumore da traffico aumenterà dell'8% nelle aree urbane, ma si intensificherà anche nelle aree extraurbane.

I risultati presentati dagli Stati Membri, in accordo con l'END (Environmental Noise Directive), mostrano che circa il 20% degli europei è esposto a un livello di rumore di 55 decibel di giorno mentre il 15% a un livello di 50 decibel di notte.

In particolare, sono circa 113 milioni le persone esposte ad un livello sonoro uguale o maggiore ai 55 decibel per rumori dovuti al traffico stradale, 22 milioni per rumori dovuti a reti ferroviarie, 4 milioni per rumori provenienti dagli aerei e un milione per fonti industriali.

Per quanto riguarda gli effetti sulla salute all'inquinamento acustico vengono attribuite 48.000 casi di malattie cardiache e 12.000 morti premature all’anno. Inoltre, circa 12.500 bambini tra i 7 e 17 anni riscontrano difficoltà nella lettura a causa dei rumori provenienti dagli aerei. Si tratta di dati probabilmente sottostimati perché non tengono conto degli effetti che si manifestano anche sotto le soglie di 50 e 55 decibel, come suggeriscono ormai molte ricerche.

Per mitigare gli effetti dell'inquinamento acustico sono allo studio diverse strategie, fisiche e urbanistiche, come la ricalibrazione delle strade per allontanare il traffico da case e aree pedonali, come già sperimentato a Berlino e in altre città.

Inquinamento industriale

In Europa, l’industrialavoro a 36 milioni di persone, genera il 18% del PIL e gioca, quindi, un ruolo fondamentale per la salute economica dell’Unione. Allo stesso tempo, però, le attività industriali esercitano forti pressioni sull’ambiente, consumando risorse e rilasciando sostanze in atmosfera e in acqua.

Grazie alle politiche europee, che hanno portato all’approvazione, nel 2010, dell’Industrial Emissions Directive (IED), le industrie hanno in generale ridotto le emissioni di sostanze inquinanti nell’ambiente. Con le misure adottate, le emissioni di PM10 sono state abbattute dell’80%, quelle di ossidi di zolfo (SOx) e di azoto (NOx) di circa il 50%. Rimangono purtroppo stabili le emissioni di gas serra.

Circa il 5% delle acque superficiali europee è inquinato da emissioni industriali, ma, anche in questo settore, il trend è di generale miglioramento: in 10 anni sono stati rilasciati il 60% in meno di metalli pesanti e il 50% in meno di sostanze organiche, mentre sono rimaste invariate le emissioni di sostanze inorganiche. È necessario, però, sottolineare che proprio queste ultime sono, in massa, il 98% delle sostanze inquinanti rilasciate. Nonostante ciò, l’abbattimento dei metalli pesanti è un dato estremamente positivo poiché, anche se in piccolissime quantità, rendono le acque non potabili o non balneabili.

Per il futuro, ci si aspetta che questi trend continuino a migliorare. L’industria europea investirà per portare avanti una crescita ancora più sostenibile: l’implementazione delle migliori tecnologie disponibili permetterà l’innalzamento dell’efficienza energetica, un utilizzo più efficace delle materie prime e una minore produzione di scarti. Nei prossimi anni, un maggior numero di settori industriali si impegnerà ad aggiornare i propri impianti e le legislazioni europee si faranno sempre più stringenti, innescando definitivamente la transizione verso una low-carbon economy.

Conclusioni

Il quadro delineato rivela che l’Europa ha compiuto passi avanti, in alcuni casi molto positivi, ma non è ancora sul sentiero di sviluppo sostenibile tracciato dagli Obiettivi dell’Agenda 2030: per il futuro occorrono sforzi ancora più significativi in tutti i settori esaminati, in modo da invertire i trend negativi e consolidare i risultati ottenuti nell’ultimo decennio.

Le macro-tendenze, ricavate dai grafici riportate sopra (dal Rapporto SOER 2020) riassumono l'andamento storico (2010), lo stato attuale (2020) e la previsione del raggiungimento degli obiettivi delineati dall'Agenda 2030.

 


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