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Le cure palliative: la medicina sfidata a cambiar pelle

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cure palliative

Franco Toscani ci racconta la storia delle cure palliative: come sono nate, gli ostacoli che hanno incontrato, fino a un vero e proprio assalto alla diligenza degli ultimi anni. È necessario formare i medici a curare i pazienti anche dal punto di vista dell'empatia, della compassione e della condivisione. Concetti, in realtà, non così strani, se si pensa che la medicina, in fin dei conti, è fatta di persone che si prendono cura di altre persone.

Alla fine degli anni ’70 dello scorso millennio avevo cominciato a curare i malati di cancro avanzato con il cocktail di Brompton, un beverone contenente un po’ di tutto: alcool, morfina, cocaina. Me lo lasciavano fare in quanto anestesista che si interessava di terapia del dolore. Funzionava, ma non era un toccasana. Poi ho trascorso qualche mese in Inghilterra per imparare a troncare le vie nervose che portano il dolore al cervello. Interventi raffinati, inquietanti, avveniristici. Funzionavano, ma neppure questi erano un toccasana.

Lassù sono incappato in un hospice, dove invece si facevano cose semplici, ovvie, diverse da tutto quanto avevo imparato all’università. Farmaci umili, comuni, usati in modo a volte diverso, ma sempre secondo fini, quelli sì, sconvolgenti: per far star bene e non per cercare di guarire ciò che tutti noi – anch’io – sapevamo perfettamente essere impossibile ma che da secoli Ippocrate ci aveva convinto che era nostro dovere fare. E soprattutto empatia, tenerezza, compassione, attenzione ai dettagli, musica, arte, ascolto e, addirittura, dialogo onesto e sincero. Il contrario di quello “sguardo clinico”, denunciato dal filosofo francese Michel Foucault ma del tutto acriticamente sussunto nella prassi della stragrande maggioranza di noi medici. E questo sì, che funzionava!

Le “carezzine” sulle mani

Sono tornato a casa con tutte le mie certezze sconvolte. Con pochi altri visionari cominciammo a tramare come carbonari, a Milano, per cambiare nientemeno che la “Medicina”. In ospedale percepivo fastidio e sospetto nei miei colleghi. La morfina che distribuivamo con generosità veniva accusata di tutto: produrre drogati, alterare la mente, anticipare il decesso. Qualcuno mi chiamava “eutanasista”. Quando mi si chiedeva che lavoro facessi, non mi sentivo più di rispondere: terapista del dolore, ma, al contempo, ero in imbarazzo perché non sapevo nemmeno io quale termine utilizzare. L’espressione hospice era fuorviante, essendo allora inteso come ospizio, un’istituzione che poco sapeva di medicina e molto di stanzoni pieni di vecchi poveri, di brodo, rosario e rassegnazione. A metà anni ’80 decidemmo di chiamare la nuova disciplina, come nei paesi di lingua inglese, “cure palliative”. Ma anche così, nessuno capiva e venivano scambiate per una medicina alternativa o persino, candidamente, per cure “inutili”.

Ignorati dalla sanità pubblica, dall’università, talvolta persino osteggiati dalla Chiesa. Una vita difficile. Altrove esistevano invece specialità universitarie in cure palliative. Una specialità avrebbe voluto dire tutto: accettazione della palliazione come disciplina medica, di pari dignità con ogni altra, qualcosa di cui fregiarsi, della quale essere orgogliosi, avere un ruolo, e magari (perfino!) un lavoro. Non essere più sospettati di fare eutanasie di nascosto, o di essere medici buoni ma non buoni medici, come sottinteso da un rampante astro dell’oncologia medica: «quelli che fanno le carezzine sulle mani del malato». Malato terminale che un altro luminare aveva dichiarato ontologicamente inesistente e che l’oncologo depresso che avesse pensato il contrario avrebbe dovuto cambiar mestiere.

Le tappe del riconoscimento

Invece le cure palliative cominciavano a essere accettate e richieste da quei malati che non avrebbero dovuto esistere e dalle loro famiglie, e il movimento cominciò a estendersi. Medici di ogni provenienza si rivolgevano alle uniche scuole esistenti, autogestite, condotte da autodidatti, i più fortunati dei quali avevano, in ospedale, uno stipendio per un lavoro di tutt’altra natura.

Poi l’affaire della terapia Di Bella proiettò la palliazione agli onori del ministero della Sanità.

Cominciarono immediatamente gli assalti alla diligenza. In molti volevano far rientrare le cure palliative nelle proprie discipline: anestesisti e terapisti del dolore, oncologi, internisti, medici di famiglia, universitari, tutti timorosi di perdere qualcosa, dal prestigio, ai posti letto, ai clienti. Invece, un po’ per volta e un po’ dappertutto, si è arrivati alla creazione di servizi e hospice. E ora persino all’istituzione di una specialità universitaria (approvata con un emendamento al decreto “Rilancio” a fine giugno scorso) con docenti, formazione, corsi per futuri medici e specialisti in altre discipline. Abbiamo vinto!

Abbiamo vinto? Dipende

Ci sono almeno due ordini di criticità, di elementi da tenere bene presenti, di rischi dei quali essere pienamente consapevoli, se si vuole far sì che questa grande opportunità non si riveli un boomerang.

Il primo scaturisce dalla natura stessa di nuova scuola di specialità.

Il 31 luglio scorso, un collega palliativista, Francesco Scarcella, in una lettera al giornale on line Quotidiano Sanità, per primo metteva in guardia sul rischio che questa (e con lei forse tutto il movimento delle cure palliative) fosse cannibalizzata da altre discipline mediche. In effetti, l’assalto alla diligenza, iniziato subito dopo il riconoscimento ufficiale delle cure palliative da parte della ministra Rosy Bindi sul volgere del millennio, non si è mai sopito. Anzi.

Permettere che essa diventi parte di qualcos’altro significherebbe da una parte disconoscerne la totale trasversalità e, dall’altro, ridurla a terapia del dolore (che ne è una componente importante ma assolutamente secondaria) o controllo di qualche sintomo magari dovuto a interventi clinici concomitanti, se non premio di consolazione di universitari senza altre prospettive di carriera in altre discipline.

La comparsa improvvisa di una specialità pone tutta una serie di problemi che si dovranno immediatamente affrontare. Che fare di coloro che specialisti non sono (dirigenti e docenti della scuola compresi)? Che ne sarà di tutti quei palliativisti a buon diritto autonominatisi tali che da venti o trent’anni hanno costruito e gestito hospice, servizi domiciliari, servizi ospedalieri, e tutt’ora lo fanno? Hanno scritto articoli, fatto ricerca, fondato associazioni, insegnato a giovani medici tutto quello che avevano saputo e potuto. Sarà difficile pretendere che tutti loro si iscrivano alle neonate scuole di specialità, ma sarà anche imbarazzante, in un prossimo futuro, la convivenza nello stesso hospice tra gli “anziani” esperti di oggi e i giovani colleghi più inesperti ma più titolati di loro.

Inoltre, l’esistenza di una corporazione di specialisti può indurre con facilità la nascita di una sorta di elitarismo, che a sua volta potrebbe generare la chiusura a riccio dei suoi membri, che per autodifesa o per meno nobili motivi, arroghino a sé stessi, e solo a loro, la “proprietà” delle cure palliative. Un sapere di cui essere gelosi e da non condividere. Una deriva sinora sostanzialmente assente tra i palliativisti, ma nulla vieta – anzi – che le cose possano cambiare: Alterius non sit qui suus esse potest! Potrebbe diventare un punto cruciale e un vero disastro per la cura delle persone sofferenti. Intendo non solo quelli “terminali” ma tutti coloro che sono affetti da malattie inguaribili, evolutive, in toto o in gran parte dipendenti da altri: vecchi, per lo più soli, spesso con gravi deficit mentali e numerose malattie compresenti, malattie croniche anch’esse ma anche malattie acute, perché la vita non ti risparmia mai nulla. In buona sostanza, gran parte di tutti i malati cronici, quelli magari guariti da malattie acute e terribili, ma non “risanati”, una sorta di danno collaterale di una medicina sempre più efficace e tecnologica, ma non adatta al prendersi cura, al lenire, a farsi carico di tutto quella carne, storia, vita, biografia che restano attaccati all’individuo che occupa uno degli infiniti letti di Procuste nascosti in case, lungodegenze, cronicari, RSA.

Queste persone sono una folla, e sono destinate ad aumentare. Che ne facciamo? Li ricoveriamo tutti negli hospice? Dovremmo avere decine di migliaia di palliativisti e centinaia di migliaia di posti letto. Anche il concetto stesso di terminalità dev’essere ridiscusso e la palliazione si deve rimodulare in funzione di altri, diversi modi di giungere alla fine della vita. La medicina palliativa, a questo punto, deve diventare il modo di curare tutti questi malati, non nell'hospice, e forse nemmeno a casa loro, ma ovunque di fatto si trovino. Per loro, la figura medica di riferimento difficilmente potrà essere il medico palliativista, formato nella cultura del “movimento hospice”, ma il medico di famiglia, o il geriatra, o l’internista presente nel reparto o nella casa di riposo. Sono loro che si trovano a dover fare scelte difficili e incerte tra l’intervenire e il desistere, tra il prolungare la sopravvivenza e il lenire la sofferenza. Ciò però imporrà ai palliativisti, di rinunciare almeno in parte al ruolo che solo da poco e con grande fatica sono riusciti a ottenere: il riconoscimento della loro specificità, la collocazione all’interno della medicina in veste di esperti, di specialisti.

Le cure palliative sono gli operatori

L’unica soluzione è trasfondere la filosofia delle cure palliative in tutti coloro che si stanno prendendo cura di queste categorie di malati (e continueranno a farlo), a volte applicando modi e prassi della palliazione magari senza esserne consapevoli, a volte, invece no. Mi riferisco a geriatri, internisti, medici di famiglia, neurologi, oncologi, cardiologi ecc. Un compito enorme, e una responsabilità altrettanto grande per questa sparuta banda di palliativisti passati dalla quasi totale irrilevanza alla costruzione di un piccolo feudo clinico. Eppure, questa è l’unica vera speranza per la medicina nel suo insieme: un cambiamento epocale, di paradigma. Le cure palliative non sono solo una specialità, sono la nuova medicina. E come tutte le grandi rivoluzioni culturali, anche questa avrà bisogno forse di generazioni per essere digerita. Riusciranno i nostri eroi a ribaltare venticinque secoli di ippocratismo? Io credo, spero, di sì; e per una ottima ragione, che comporta però il secondo ordine di criticità. Le cure palliative non sono solo una nuova disciplina: sono un modo diverso d'essere medici. Le cure palliative non sono i farmaci e le procedure. Non sono i trattati, le dispense, nemmeno gli articoli scientifici. Sono gli operatori. Nel nostro caso, i medici.

Non è una osservazione banale. Il palliativista deve possedere qualità di carattere e mente essenziali: compassione, capacità (direi forse bisogno) di ascoltare, di conoscere biografie e vite, tenerezza, tolleranza, gentilezza d’animo e di modi, disponibilità. E cultura, a 360 gradi. La cura dei sofferenti si fa anche e soprattutto con doti che difficilmente si possono acquisire in breve a tavolino, studiando un testo. Le cure palliative non possono prescindere da una cultura umanistica costruita lentamente e appassionatamente, una ricchezza personale di letteratura, arte, musica, storia, filosofia, antropologia. Tutti saperi che tradizionalmente non avevano a che fare con la prassi medica.

Quando visitai il mio primo hospice, non fui tanto colpito dai farmaci usati, o dai protocolli, quanto dal caminetto acceso, dai quadri alle pareti e dalle tende ricamate alle finestre, dal pianoforte contro il muro, carico di spartiti, dal cagnetto che sonnecchiava in un angolo. E da una malata in carrozzella, con i capelli in perfetto ordine e ben vestita, che mi ha confessato la propria gioia per essere riuscita, quel giorno, a dipingere il suo primo acquerello. Come Socrate che attendendo la cicuta volle imparare a suonare col flauto un motivo che non conosceva.

È stata quella la pietra sulla quale sono inciampato sulla mia via di Damasco. Tutti i miei interessi non erano più “evasione”, ma diventavano parte essenziale del mio armamentario di cura. Dunque, come fare a formare specialisti? Impensabile introdurre delle selezioni, scegliendo di ammettere alla scuola solo quelli “giusti”. L’unico modo è sforzarsi di costruirli, di formarli.

Per essere medici diversi

Qualcosa sta cambiando anche nella mentalità dei medici, e non sono pochi coloro che vogliono essere medici diversi. Una sfida terribilmente complessa, ma è quella che le nostre scuole di specialità dovranno accettare. Non dovrebbe essere tremendamente difficile: di medici che hanno vasti interessi ce ne sono tanti, e così di sensibili e altruisti. Il problema sarà nel far comprendere loro che è la loro cultura e la loro sensibilità a farne veri palliativisti, che si deve vincere ogni ritrosia e pregiudizio nei confronti di ciò che si sente, si pensa, e si sa, perché sarà proprio così che riusciranno non solo ad aiutare i loro pazienti, ma soprattutto a cambiare i loro colleghi clinici. Io credo (e spero) che lo si possa davvero fare.

Certamente non si riuscirà a costruire in questo modo proprio tutti i futuri palliativisti. Alcuni si riveleranno tetragoni al cambiamento. Pazienza. Il successo però dipenderà soprattutto dalla qualità dei docenti, dal loro esempio, e dalle loro argomentazioni. Auguriamoci che siano scelti bene. Perché, se no, sarà un disastro.


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