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Le basi scientifiche del piano Fit for 55

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La Commissione Europea ha presentato Fit for 55, un pacchetto articolato di misure progettate per permettere l’ottenimento degli obiettivi intermedi e finali per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. I provvedimenti proposti sono accompagnati da impact assessment, studi che misurano l’efficacia delle misure proposte e il loro impatto ambientale, economico e sociale, fornendo la base tecnico-scientifica per le scelte proposte: Andrea Tilche, per vent'anni alla Commissione Europea, spiega la metodologia con cui vengono elaborati e i possibili punti di debolezza.

Crediti immagine: Thomas Richter/Unsplash

Tempo di lettura: 6 mins

In seguito alla definitiva approvazione della legge europea sul clima che fissa nella legislazione ambientale l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica nell’Unione Europea entro il 2050 – passando al 2030 attraverso una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra rispetto al 1990 - la Commissione Europea ha presentato Fit for 55, un pacchetto estremamente articolato di misure progettate per permettere l’ottenimento degli obiettivi intermedi e finali. Nella tradizione della Commissione Europea, i provvedimenti proposti in questo pacchetto sono stati accompagnati da corposi impact assessment, studi che misurano l’efficacia delle misure proposte e il loro impatto ambientale, economico e sociale, mettendo a confronto diverse opzioni e fornendo la base tecnico-scientifica per le scelte che vengono proposte nel pacchetto di misure.

Questi studi di impatto vengono condotti dalle strutture operative della Commissione con l’indispensabile supporto del Joint Research Centre e di consulenze modellistiche fornite da una comunità scientifica che si è sviluppata negli ultimi 15-20 anni essenzialmente in Europa, anche grazie ai finanziamenti dei vari programmi quadro di ricerca. Uno dei filoni di ricerca che più è stato sostenuto attraverso questi programmi è lo sviluppo dei cosiddetti Integrated Assessment Models (IAMs), modelli economici, negli anni diventati sempre più complessi e capaci di simulare la risposta delle economie alle misure di mitigazione dei cambiamenti climatici. Le risposte che vengono fornite da questi modelli vengono utilizzate per derivare anche gli impatti sociali. Questa categoria di modelli è assai variegata, in quanto è anche composta da modelli orientati ad affrontare questioni settoriali più specifiche (per esempio nel settore energetico) o da modelli che esaminano impatti specifici, per esempio gli effetti sulla qualità dell’aria.

Tutti gli impact assessment relativi alle proposte del Fit for 55 riportano una sezione metodologica comune e piuttosto estesa sulla descrizione dei vari modelli utilizzati, e del loro utilizzo combinato, in cui gli output vengono utilizzati come input in modelli a cascata, come riportato dalla figura che segue.

Immagine tratta dal’impact assessment relativo alla proposta di revisione della Effort Sharing Regulation, disponibile qui (p. 122)

Modellizzazioni specifiche relative ai diversi componenti del pacchetto sono poi descritti in dettaglio.

Il lavoro scientifico necessario per mettere a punto un tale sistema modellistico è durato molti anni, durante i quali non solo sono stati affinati e testati gli algoritmi di calcolo dei vari processi. Questi algoritmi sono stati resi trasparenti e documentati, condizione essenziale affinché le assunzioni e i parametri utilizzati nella modellizzazione possano essere discussi e valutati non solo dai tecnici, ma soprattutto dai decisori politici e dai cittadini.

Questi sistemi vengono utilizzati con scenari di riferimento standardizzati pubblicati dalla Commissione Europea contestuamente alle proprie proposte di nuove politiche, e il pacchetto Fit for 55 è stato basato sullo EU Reference Scenario 2020. Gli impact assessment allegati alle varie proposte riportano poi in dettaglio le fonti dei dati statistici, dei database o dei dati tecnologici utilizzati.

Questa metodologia di lavoro rende le proposte della Commissione Europea di solito assai robuste, in quanto sviluppate secondo il principio detto di evidence-based decision-making. Offre peraltro agli stati membri la possibilità di formulare proposte di cambiamento che siano altrettanto robuste, ovvero basate su dati più aggiornati e sulla possibile critica argomentata delle assunzioni modellistiche utilizzate. Questo fa compiere anche alle burocrazie nazionali dei salti qualitativi, obbligando le contro-proposte a una solidità per lo meno comparabile o superiore rispetto agli studi compiuti per la costruzione delle proposte Europee.

Quale critica si può portare a un sistema come quello descritto che sembra essere stato progettato per resistere alle critiche? Avendoci lavorato a lungo nei miei vent'anni passati alla Commissione Europea, faccio uno sforzo a mettere in evidenza un possibile punto di debolezza, ovvero una certa tendenza autoreferenziale che nel tempo può produrre decisioni non più basate sulle conoscenze scientifiche.

Un esempio per illustrare questa critica è il riferimento al net-zero at 2050 e il target di riduzione del 55% delle emissioni nel 2030, introdotti nella legge europea sul clima e derivanti dall’impact assessment del settembre 2020 che accompagnava la comunicazione Stepping-up Europe’s 2030 climate ambition. Questo documento fa riferimento a una precedente Comunicazione del 2018, A clean Planet for all, il cui impact assessment adotta l’ipotesi che per restare nell’ambito degli accordi di Parigi, mantenendosi prossimi all’obiettivo di restare a 1,5°C di aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale, sia necessario azzerare le emissioni nette al 2050 e sia sufficiente raggiungere al 2030 una riduzione del 55% rispetto al 1990. Questa ipotesi era basata sui dati dell’IPCC Special Report on Global Warming of 1.5°C, pubblicato nel 2018, che presentano ampi margini di incertezza (e possibili rischi che ne ridurrebbero l’entità).

Nell’impact assessment del settembre 2020 questi requisiti non sono stati messi in discussione, nonostante il dibattito con il Parlamento Europeo per la legge sul clima abbia fatto emergere pareri scientifici che fanno ritenere questi target non sufficienti per l’ottenimento degli obiettivi di Parigi, e nonostante la letteratura scientifica pubblicata dopo lo Special Report dell’IPCC abbia messo in evidenza una serie di possibili sottostime.

Siamo in attesa della presentazione del Sixth Assessment Report dell’IPCC (AR6), che secondo alcune anticipazioni potrebbe ridurre il budget di carbonio ancora disponibile per il mantenimento dell’obiettivo di 1,5°C. Una serie di simulazioni condotte per questo rapporto nell’ambito del programma internazionale di intercomparazione modellistica CMIP6 ha infatti messo in evidenza un range medio spostato verso l’alto del parametro chiamato equilibrium climate sensitivity, o sensibilità climatica, ovvero l'aumento della temperatura media globale a lungo termine associato a un raddoppio della concentrazione atmosferica di biossido di carbonio rispetto all’era preindustriale. Un incremento della sensibilità climatica di qualche decimo di grado comporterebbe una riduzione sostanziale del budget di carbonio ancora utilizzabile senza sforare gli obiettivi di Parigi.

È evidente che non si possono rivecere le politiche in base alle attese di nuovi dati, così come è necessario salvaguardare il metodo adottato dall’IPCC di fornire valutazioni ponderate della letteratura scientifica giungendo alla definizione di elementi di consenso. Del resto sono recentissime alcune pubblicazioni sulla fisica delle nuvole che sollevano un possibile bias dei dati CMIP6, e che farebbe ridiscendere la stima della sensibilità climatica ai valori del Fifth Assessment Report dell’IPCC poi utilizzati nello Special Report del 2018.

Non voglio dare l’impressione di una mia contrarietà ai nuovi obiettivi europei. Sono convinto che siano obiettivi importanti e che faranno molto bene al pianeta, perché porteranno altri grandi emettitori (vedi ora gli Stati uniti) a seguire l’Europa, che con la sua quota del 10% circa dei commerci mondiali è ancora in grado di giocare un ruolo di leader a livello internazionale.

Sono inoltre convinto – anche dai segnali che provengono dalla dinamica possibile del miglioramento di efficienza e del calo dei prezzi delle tecnologie zero-carbon – che il Green Deal potrà conseguire i suoi obiettivi anche prima del 2050, se sarà in grado di mettere in movimento in modo positivo le leve del mercato e mobilitare i cittadini.

Bisogna peraltro convenire che ormai questi obiettivi, giustificati come scientifici, sono diventati politici, e accettarli come tali, essendo pronti a considerare una loro evoluzione.

Mi aspetto comunque che tra oggi e il 2050 ci possano essere ulteriori aggiustamenti della traiettoria – e credo essenzialmente nel senso dell’accelerazione dei cambiamenti per i Paesi più avanzati – anche per permettere di alleviare i costi distributivi della decarbonizzazione verso i Paesi meno sviluppati. I Paesi ricchi dovranno affrontare il problema di distribuire equamente i costi della transizione anche internamente. In Fit for 55, l’Unione Europea propone di risolverlo con un ampio fondo sociale a cui si potranno aggiungere misure ad hoc sui bilanci nazionali se non distorsive del mercato unico.

 


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