fbpx L’impossibile e splendida immagine di un buco nero

L’impossibile e splendida immagine di un buco nero

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Ecco la prima immagine del buco nero 6,5 miliardi di volte più massiccio del Sole nascosto nel centro della galassia M 87. L’anello luminoso è formato dalla luce incurvata dall'intensa gravità esercitata dal buco nero. Ad oggi, questa immagine è la prova più importante dell'esistenza di buchi neri supermassicci. Crediti: Event Horizon Telescope Collaboration

Potrà sembrare azzardato, ma la data del 10 aprile 2019 ha tutte le carte in regola per essere considerata una data cruciale per l’astronomia, una data destinata a trovare il massimo risalto nei libri che si occupano di storia della scienza. Per la prima volta, infatti, è stata resa pubblica l’immagine ottenuta elaborando i dati radio raccolti negli immediati paraggi di un buco nero.

Lo storico annuncio è stato al centro di un evento organizzato dall’ESO che si è articolato in ben sei distinte conferenze stampa tenute simultaneamente a Bruxelles, Santiago del Cile, Shanghai, Tokyo, Taipei e Washington. I risultati presentati nel corso dell’evento sono il frutto dell’innovativo, delicato e complesso lavoro di indagine che ha visto il team del progetto EHT (Event Horizon Telescope) raccogliere la sfida di riuscire a sintetizzare l’immagine dell’orizzonte degli eventi di un buco nero. Con questo termine ci si riferisce alla regione posta nelle immediate vicinanze di un buco nero, praticamente l’ultima tappa della materia in caduta verso il buco nero prima che se ne perda ogni traccia. Varcato l’orizzonte degli eventi, infatti, l’intenso campo gravitazionale di un buco nero è in grado di trattenere ogni cosa, compresa la stessa radiazione elettromagnetica.

L’idea di una situazione così estrema risale al XVIII secolo e i suoi semi si possono ritrovare nei lavori di John Michell e di Pierre-Simon de Laplace, ma è solamente con gli strumenti forniti da Einstein con la relatività generale che è diventato possibile esplorare ciò che davvero possa comportare un campo gravitazionale così intenso. Il compito di fornire l’indispensabile supporto scientifico allo storico annuncio è affidato a una serie di sei articoli pubblicati in un numero speciale di The Astrophysical Journal Letters.

Ritrarre un buco nero: una sfida estrema

Riuscire a raccogliere i dati necessari a sintetizzare un’immagine che ritragga l’orizzonte degli eventi di un buco nero è un’impresa che, fino a qualche anno fa, era fuori della portata degli strumenti di cui potevano disporre gli astronomi. Impensabile riuscire a risolvere persino Sagittarius A* (Sgr A*), il buco nero di 4 milioni di masse solari che si nasconde nel cuore della nostra Via Lattea. L’incredibile massa che lo caratterizza, infatti, è racchiusa in una regione di spazio estremamente ridotta, le cui dimensioni – 40 milioni di chilometri – sono più o meno equivalenti alla distanza tra il Sole e Mercurio e noi ci troviamo a osservarlo da 26 mila anni luce di distanza.

Per quanto curioso possa sembrare, questa situazione osservativa è analoga a quella che caratterizza il buco nero super massiccio che alberga nelle regioni centrali di Virgo A (nota anche come M 87), una galassia ellittica gigante distante 50 milioni di anni luce in direzione della costellazione della Vergine. È vero, infatti, che quel buco nero è circa 2000 volte più distante di Sgr A*, ma è altrettanto vero che contiene 6,5 miliardi di masse solari, il che suggerisce che le sue dimensioni siano circa 2000 volte quelle di Sgr A*, con la diretta conseguenza che, per un osservatore sulla Terra, i due buchi neri abbiano dimensioni angolari estremamente simili. La smisurata massa del buco nero di M 87, però, lo rende molto più stabile e meno agitato di Sgr A* e questo spiega come mai i ricercatori intenzionati a rivelare l’aspetto dell’orizzonte degli eventi di un buco nero abbiano preferito puntare più su quello che non sul nostro Sgr A*.

galassia ellittica M 87 dove è situato il buco nero

Evidente l’enorme alone che circonda la gigantesca galassia ellittica M 87 nella costellazione della Vergine. L’eccesso di luce nella parte superiore di questo alone e lo studio del moto di nebulose planetarie suggeriscono che recentemente una galassia di medie dimensioni si è scontrata con M 87. Crediti: Chris Mihos (Case Western Reserve University)/ESO

Come può essere possibile raccoglie l’immagine di un oggetto dal quale non può sfuggire nulla? In verità quella che è stata presentata oggi potremmo più definirla come l’immagine dell’ombra del buco nero, la sua sagoma scura che si staglia su uno sfondo luminoso. L’anello brillante che appare nell’immagine di EHT è la luce che proviene dal disco di accrescimento, la ciambella appiattita di materia che sta vorticosamente ruotando intorno al buco nero in attesa di essere risucchiata al suo interno. In quella folle corsa la materia si scalda raggiungendo temperature incredibili e questo comporta un’emissione di radiazione.

Peccato, però, che la radiazione non se ne possa andare liberamente come, per esempio, avviene per la radiazione solare, ma debba fare i conti con l’immensa azione gravitazionale del buco nero. La sua capacità di deformare lo spazio circostante costringe la radiazione a contorcersi e incurvarsi descrivendo il brillante anello che osserviamo nell’immagine. Bisogna sottolineare come una simile struttura ad anello con la presenza di una regione centrale scura è il risultato comune ottenuto con tutti i metodi di calibrazione e di imaging delle molteplici osservazioni indipendenti fatte dall’EHT. Non si tratta, insomma, di un miraggio o di un errore nella calibrazione dei dati.

Tecnologia raffinata e collaborazione internazionale

La carta vincente per riuscire nella storica impresa si chiama interferometria a lunghissima linea di base (VLBI, Very-long-baseline interferometry). Lo spiega in modo molto chiaro Ciriaco Goddi, segretario scientifico del Consorzio EHT, in una lunga intervista rilasciata a Media INAF: «Si tratta di una tecnica molto potente che permette di realizzare immagini di radiosorgenti ad altissima risoluzione. Il VLBI sfrutta una rete globale di radiotelescopi, in genere da 12 a 30 metri di diametro, situati nei diversi continenti in modo da formare virtualmente un enorme telescopio delle dimensioni della Terra. I segnali radio che arrivano sulle singole antenne vengono prima registrati dai ricevitori e poi digitalizzati e inviati ai centri di elaborazione dati. Per il nostro progetto abbiamo utilizzato due super-computer, detti correlatori: uno si trova all’Haystack Observatory del MIT (in Massachusetts) e l’altro è situato presso il Max Planck Institut fur Radioastronomie, a Bonn. Una volta che i segnali di tutte le coppie di antenne vengono combinati, possiamo ricostruire l’immagine della sorgente radio. Operando insieme, le antenne simuleranno dunque un singolo, gigantesco, telescopio delle dimensioni della Terra che ci permetterà di “intravedere” l’orizzonte degli eventi e rivelare la cosiddetta “ombra” del buco nero, che nelle sorgenti in questione ci aspettiamo sottenda una dimensione di 50 microsecondi d’arco, un po’ come distinguere una pallina da tennis sulla Luna».

contributo di ALMA (Atacama Large Millimeter Array) alle osservazioni EHT del buco nero

Il contributo di ALMA (Atacama Large Millimeter Array) alle osservazioni EHT è fondamentale. Grazie alle sue caratteristiche, ALMA ha permesso di ridurre notevolmente il rumore di fondo nei dati raccolti da EHT assicurando una maggiore sensibilità. Crediti: NRAO

Notevoli dunque le sfide tecnologiche da affrontare, a cominciare dalla necessità di sincronizzare i segnali delle singole antenne con la massima precisione. Per ottenere questo, ogni radiotelescopio che fa parte della rete è dotato di un accuratissimo orologio atomico appositamente progettato, talmente accurato che su un periodo di 100 milioni di anni può al massimo avanzare o ritardare di un solo secondo.

Fondamentale inoltre poter disporre di dispositivi di memorizzazione estremamente rapidi e di elevatissima capacità. La mole di dati raccolta nel corso delle osservazioni è impressionante, e altrettanto impressionante il tempo necessario per la loro elaborazione. Molto chiare, a tal proposito, le parole di Goddi: «Nel 2017 abbiamo raccolto qualcosa come quattro petabytes di dati, ossia 4000 terabytes! Nel 2018 abbiamo registrato una banda doppia, quindi il doppio dei dati (almeno in termini di bytes). L’ordine di grandezza è di un petabyte per telescopio, quindi il volume totale di dati ammonta a circa 10 petabytes. Abbiamo impiegato un anno e mezzo a ridurre, calibrare, validare e analizzare i dati acquisiti nel 2017 e, ovviamente, convertirli in immagini radio delle sorgenti.»

Si metta infine in conto, esaminando il problema da un semplice punto di vista logistico, la grande difficoltà che deriva dal dover coordinare una così complessa rete di radiotelescopi che si estende su tutto il globo.

Analisi accurata

Si è sottolineato come dietro alla emozionante immagine diffusa oggi vi sia un incredibile lavoro di raccolta e di analisi di una straordinaria quantità di dati, ma chi ci assicura che non si tratti di un miraggio? Presto detto. Prima di pubblicare i risultati, questi sono stati accuratamente esaminati da un team di fisici teorici che hanno confrontato il risultato ottenuto dall’analisi dei dati con i risultati previsti da vari modelli teorici, compresi quelli che offrono spiegazioni alternative ai buchi neri.

È proprio grazie a questo lavoro di accurata revisione che abbiamo la certezza che il modello di un buco nero secondo quanto previsto dalla relatività generale si adatta a ciò che abbiamo derivato dai dati osservativi. Insomma, quella che abbiamo visto è proprio la silhouette di un buco nero. Ciò che per anni si è analizzato solo teoricamente, ora abbiamo finalmente la possibilità di confrontarlo con dati reali. E anche stavolta le idee di Einstein si sono dimostrate corrette. Curioso che, per uno strano scherzo del destino, la prima immagine dell’orizzonte degli eventi di un buco nero sia stata resa pubblica proprio nell’anno in cui ricorre il centenario della prima importante verifica sperimentale della relatività generale, quando le osservazioni compiute durante l’eclissi del 29 maggio 1919 mostrarono come la massa del Sole riuscisse a deflettere il percorso della luce che ci arrivava dalle stelle.

 

Per saperne di più:
Video della Conferenza stampa ESO 10 aprile 2019 - Breakthrough discovery in astronomy

 


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