L’Europa della conoscenza è
sempre più frammentata. E i suoi 28 diversi frammenti invece che a convergere tendono
a divergere. Il grande progetto di Antonio Ruberti – creare un’Area Europea
della Ricerca – non si sta realizzando.
E nell’Unione anche la rete dell’alta
formazione non solo non viene ulteriormente ordita, ma si sta sfilacciando,
arrotolandosi intorno a un numero sempre più piccolo di grossi nodi.
Il
risultato è un flusso monodirezionale sia di cervelli sia di risorse finanziare
che dai paesi poveri del sud e dell’est si dirige verso i paesi ricchi del
nord-ovest.
Ad agire come Robin Hood al
contrario e a creare squilibri invece che coesione non è solo la crisi
economica e finanziaria che si sente, appunto, soprattutto a sud e a est
dell’Unione. Sono anche le politiche attive dell’Unione Europea.
Ma vediamo i numeri, che
parlano da soli.
1. Intanto quelli forniti dallo
European University Association’s Public Funding
Laboratory, che riguardano gli investimenti nella formazione universitaria e
post-universitaria negli anni della crisi, dal 2008 al 2014.
Fonte: European University Association’s Public Funding Laboratory
I
colori della torta ci offrono una chiara visione della divaricazione. Da un
lato c’è un set di paesi che ha affrontato la crisi tagliando anche i fondi
all’università. Tagli profondissimi, superiori al 40%, in Grecia e Ungheria.
Tagli profondi, il 20%, in Italia (il 30% nel Sud d’Italia). Tagli tra il 10 e
il 20% in Spagna, nella Repubblica Ceca, in Slovacchia. Dall’altra paesi che,
al contrario, hanno affrontato la crisi investendo di più in conoscenza.
La
spesa nell’università è aumentata tra il 10 e il 20% in Austria e in Belgio;
addirittura tra il 20 e il 40% in Germania, Norvegia e Svezia. In pratica, che
nel 2008 puntava già molto sulla ricerca e sull’università – i paesi dell’area
germanica e scandinava – hanno pensato di affrontare la crisi accelerando.
Mentre i paesi che stentavano a entrare nella società della conoscenza hanno
ulteriormente decelerato (in Italia l’una componente della spesa pubblica che è
diminuita in questi anni è stata quella destinata a scuola, università e
ricerca). Risultato: un vistoso aumento della divaricazione. E un flusso
monodirezionale di giovani studenti e ricercatori che dal sud e dall’est si
dirigono verso il nord d’Europa.
In
apparente controtendenza è il Regno Unito. Lì è diminuita la spesa pubblica. Ma
si sa che Londra punta sempre di più sulla presenza dei privati nel mondo
dell’alta formazione. Per cui, malgrado i tagli dello stato, le sue università
(almeno le principali) continuano a essere un grande attrattore di studenti,
docenti e ricercatori. Ma anche di risorse economiche.
2. E, infatti, il secondo motore della
divergenza europea è la politica dell’Unione. Come ci ricorda Colin Macilwain su Nature FP7, il settimo programma quadro che si è concluso
nel 2013, ha distribuito molte risorse ai forti e ricchi – 1,1 miliardi di euro a Germania e Regno
Unito; 560 milioni all’Olanda – e poche risorse ai deboli e poveri: 560 milioni
di ero all’Italia (che ha quattro volte il numero degli abitanti dell’Olanda);
appena 67 milioni alla Polonia; la miseria di 17 milioni alla Romania. In
pratica per quanto riguarda la ricerca, i paesi già forti e ricchi incassano
più risorse dall’Unione Europea di quanto non ne conferiscano. E viceversa per
i deboli e poveri.
Non c’è da fare del vittimismo. Le colpe
dei governi dei paesi del sud e dell’est d’Europa sono la causa di gran lunga
principale di questa strana asimmetria. Tuttavia l’Unione fallisce in quello
che dovrebbe essere il suo compito: aumentare il tasso di coesione tra i paesi
membri. Non riesce a opporsi alla “naturale” deriva dei frammenti. Non riesce a
creare quell’area realmente comune della conoscenza che aveva immaginato
Antonio Ruberti.
Ma poiché la conoscenza è oggi al centro
dell’economia e della società, questa incapacità di contrastare la divergenza e
di creare al contrario coesione è alla lunga insostenibile. Produce instabilità
sociale, economica e politica.
Si dirà: ma è il merito che prevale
nell’assegnazione dei fondi. Certo, una politica di coesione non deve
assolutamente penalizzare il merito. Ma deve favorire, lì dove non ci sono, lo
sviluppo di centri di ricerca e di eccellenza in grado di competere nel merito
con quelli già esistenti.
In altri termini, una grande università e un grande
polo di ricerca ad Atene, a Napoli, a Barcellona, a Coimbra o anche a Praga e a
Varsavia sono una necessità non solo per quelle città, per quelle regioni, per
quei paesi, ma per l’intera Europa.
Se vogliamo che l’Europa viva.