Uno studio recentemente pubblicato su Biological Conservation analizza gli effetti delle chiusure generalizzate sulla fauna selvatica: ampliamento degli areali, ma anche aumento dell’attività diurna e maggior successo riproduttivo anche per specie a rischio sono alcuni dei risultati positivi dell’antropausa, che però sono stati affiancati anche dall’interruzione di molte attività per l’eradicazione delle specie invasive e un possibile aumento del bracconaggio.
Nell'immagine: per il rondone, la cui popolazione in Italia è stata in calo negli ultimi anni, il lockdown ha determinato un maggior successo riproduttivo, con nidiate più numerose. Crediti: pau.artigas/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 2.0
“La natura si riprende i suoi spazi”, si diceva durante il lockdown, quando su giornali e social media apparivano più e più immagini di animali selvatici a spasso per le città deserte. Come suggerisce un articolo pubblicato a giugno su Nature Ecology&Evolution, la ridotta mobilità umana in questo periodo – che alcuni autori definiscono “antropausa” - può essere in grado di rivelare aspetti critici dell’impatto che la nostra specie ha su altri animali e, di conseguenza, fornire alcuni suggerimenti per una miglior condivisione degli spazi. Intanto, però, dobbiamo capire meglio quanto e in che modo l’antropausa ha influenzato la fauna selvatica: è quanto ha provato a fare uno studio apparso recentemente su Biological Conservation e firmato da un gruppo di ricercatori italiani. Unendo le informazioni provenienti da giornali e social media con i dati raccolti sul campo, la ricerca ha messo in luce i risultati di questo “esperimento non programmato”.
Il titolo del lavoro, “The good, the bad and the ugly of Covid-19 lockdown effects on wildlife conservations: insights from the first Europen locked down country”, richiama magistralmente a un importante aspetto della ricerca: il non concentrarsi solo sugli aspetti positivi ma andare anche a vedere il bad and ugly – i possibili effetti negativi delle chiusure generalizzate.
Ampliamento dell’habitat, aumento dell’attività diurna
«Durante il periodo di chiusura generalizzata, sono uscite molte notizie su diverse specie selvatiche avvistate in ambienti urbani: noi abbiamo cercato di capire se si trattasse di animali la cui presenza non è in realtà una novità in alcune aree (per esempio, i cinghiali a zonzo per alcune città italiane non sono infrequenti), oppure di un reale effetto del lockdown», spiega Raoul Manenti, primo autore dello studio. «Come primo passo, abbiamo quindi raccolto e analizzato le notizie uscite in questo periodo, riferendoci sia ai social media sia ai giornali e verificando se i fenomeni descritti fossero effettivamente caratteristici; in altre parole, controllando se non si parlasse in realtà di animali che si trovano normalmente nelle nostre strade».
Questa prima parte di lavoro ha mostrato intanto che, in effetti, molti animali selvatici non solo si sono “allargati” esplorando nuovi habitat, quelli che prima erano a esclusivo uso umano, ma hanno anche aumentato le loro attività. Alcune specie solitamente notturne, infatti, si sono mostrate in giro anche durante il giorno.
«Parte delle osservazioni raccolte erano, come atteso, riferite ad animali che sono soliti frequentare gli ambienti urbani, come le volpi e i cinghiali, e la cui presenza non rappresenta quindi una novità. Ma, insieme a questi, in città hanno fatto la loro comparsa anche lupi e ungulati come cervi, caprioli e daini, decisamente più infrequenti», continua il ricercatore.
Dai social alla ricerca sul campo
«Comunque, questa prima parte di lavoro non ci dava dati quantitativi sugli effetti del lockdown; inoltre, i risultati potevano essere in parte falsati. Prendiamo per esempio la raccolta e il riconoscimento dei versi degli uccelli: diventa più semplice in assenza dell’inquinamento acustico causato dal traffico e dalle altre attività umane, e può quindi portare all’errata percezione di un maggior numero di segnalazioni», spiega ancora Manenti. «Il lockdown può anche aver influito sul tempo dedicato all’osservazione delle specie e quindi aver aumentato in proporzione gli avvistamenti. Quindi abbiamo anche effettuato una serie di misurazioni sul campo – nei limiti delle possibilità, quindi lavorando nei pressi di casa, o non appena si è passati alla fase 2, e raccogliendo le informazioni da progetti di citizen science nei quali i partecipanti osservavano la natura dalla propria abitazione».
Insieme, queste analisi hanno innanzitutto confermato un generale incremento di attività e di spazi conquistati: vale per esempio per l’istrice, monitorato con il progetto iNaturalist, che ha fatto la sua comparsa in città ben più che negli anni passati. Mentre il fratino euroasiatico, la cui popolazione è in forte calo in Italia (ricordate le forti critiche al “Jova Beach” nel 2019?), che nel periodo 2016-2019 aveva concentrato i suoi nidi solo nelle aree di spiaggia meno disturbate dalla nostra presenza, quest’anno ha potuto spaziare molto di più, arrivando anche in aree fortemente turistiche. Ancora, il monitoraggio degli uccelli acquatici presso un piccolo lago nel Parco di San Lorenzo, in provincia di Mantova, ha contato dieci specie nel 2020, a fronte delle due del 2019, comprese alcune che da anni non si osservano nella zona.
«Per alcune specie abbiamo evidenziato anche un maggior successo riproduttivo: è il caso del rondone (Apus apus), la cui popolazione è stata in contrazione degli ultimi anni e le cui nidiate sono state più numerose questa primavera rispetto a quelle del periodo 2017-2019», spiega Manenti.
C’è un terzo aspetto da inserire nella lista degli effetti positivi che il lockdown ha avuto per gli animali selvatici, ed è la riduzione di anfibi e rettili uccisi lungo le strade – elemento di non poco conto, se si considera il declino di questi gruppi, anche in Italia (Scienza in rete ne ha parlato qui). «Analizzando i dati raccolti da un gruppo di recupero rettili che opera in otto diverse località lombarde, abbiamo visto una significativa riduzione di rospi e rane investiti; una simile diminuzione l’abbiamo riscontrata anche per due diverse specie di lucertole».
Il brutto e il cattivo
Se queste osservazioni sono il good della ricerca, qual è la parte bad and ugly? Innanzitutto, anche alcune specie aliene invasive possono aver beneficiato della chiusura generalizzata. In questo caso, i dati raccolti sul campo sono limitati ad alcune osservazioni in una piccola area del Piemonte e riguardanti la minilepre (Sylvilagus floridanus), una specie introdotta in Italia dal nord America a scopo venatorio negli anni ’60 che può avere effetti negativi, sia in termini di competizione per territorio e risorse, sia per esempio per la trasmissione di patogeni, sulle “cugine” autoctone. La popolazione osservata non è aumentata durante l’antropausa ma, come altre specie, ha mostrato un incremento dell’attività diurna.
In aggiunta a questo piccolo scorcio di monitoraggio dal campo, un secondo, indiretto elemento che suggerisce come del lockdown possano aver beneficiato anche specie invasive viene dai questionari distribuiti tra parchi naturali nazionali e regionali. «È emerso – tutto sommato poco sorprendentemente – che molti di essi non hanno potuto portare avanti molte attività correlate all’eradicazione delle specie aliene e/o alla tutela di quelle autoctone», spiega Manenti. «E poiché il lockdown ha coinciso con la stagione riproduttiva di molte specie, è possibile che vi siano effetti negativi sul medio-lungo termine. Alcuni dei partecipanti al questionario hanno anche evidenziato come la mancanza di barriere umane possa aver portato le specie invasive ad allargarsi anche in nuovi areali».
A ciò, osservano i ricercatori, si aggiunge il diminuito controllo nelle aree naturali, che potrebbe aver determinato un aumento del bracconaggio, come avvenuto anche in alcuni Paesi africani e asiatici.
Tutela della biodiversità: la lezione del lockdown
«Questo è il primo studio che cerca di quantificare gli effetti del lockdown sull’ambiente naturale, o meglio sui suoi abitanti. Ma ci sono molti altri aspetti che sarebbe importante indagare», commenta Manenti. «Per esempio, abbiamo trovato scarsissime notizie riguardanti gli invertebrati, che pure sono un elemento fondamentale della biodiversità e il cui declino è stato registrato in molte aree del mondo. Così come non è stato possibile condurre ricerche sul campo per gli animali marini. Ancora, sarebbe interessante andare a indagare gli effetti indiretti del lockdown: sappiamo che l’inquinamento ambientale, che ha effetti negativi importanti sul benessere di molte specie, è diminuito ma non sappiamo quanto questo abbia influenzato la fauna selvatica».
Comunque, conclude il ricercatore, a livello preliminare questo studio indica chiaramente come una riduzione della pressione antropica, sebbene temporanea, abbia effetti già a breve termine su diversi aspetti della biodiversità. «A mio parere, alcune situazioni potrebbero anche essere almeno parzialmente replicate, per esempio chiudendo occasionalmente strade note per essere frequentate da rane e rospi. Inoltre, dobbiamo considerare che il lockdown ha avuto conseguenze economiche e sociali, per cui anche le attività volte alla conservazione della biodiversità potranno risentirne nel lungo termine: sarà però importante investire su di esse se vogliamo tutelare la biosfera»; tanto più ora che Covid-19 ci ha chiaramente ricordato quale effetto, compreso l’emergere di patogeni, possono avere le attività umane sull’ambiente.