Stanislav Petrov. Credit Mikel Agirregabiria. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.
«Un missile balistico si sta dirigendo verso le Hawaii, mettersi immediatamente al riparo. Questa non è un’esercitazione». L’allarme che per ben 38 muniti ha tenuto con il fiato sospeso la popolazione delle Hawaii per fortuna è stato dato solo per errore. Solo?
Sia chiaro, non siamo mai stati vicini a una guerra nucleare – o, almeno, così speriamo – perché l’allarme non proveniva da fonti militari. A sbagliare è stato un impiegato che ha premuto il tasto sbagliato e così sono partiti in automatico messaggi di allarme che hanno interrotto i programmi televisivi e hanno raggiunto i cittadini via sms. Certo, il governatore del più orientale degli stati USA, il democratico David Ige, ha chiesto scusa per «la sofferenza e la confusione» che lo sbaglio ha generato. Ma è possibile che un semplice errore umano generi il terrore nucleare in uno stato per 38 lunghissimi minuti?
Sebbene minore, non è la prima volta al mondo che un errore provoca un allarme nucleare. E non sempre a sbagliare sono stati uomini in carne e ossa. Nell’evento più grave della storia – che si sappia – a sbagliare furono le macchine (satelliti e computer) e a salvarci fu un uomo. Intelligente e coraggioso. A lui dobbiamo la vita, in centinaia di milioni. E forse la stessa esistenza della civiltà umana.
Il colonnello sovietico Stanislav Petrov che nel 1983 non ha creduto ai suoi occhi – e quelli dei satelliti dell’Armata Rossa – e con un provvido atto, appunto, di coraggio, infrangendo ogni protocollo, ha evitato di scatenare una guerra nucleare totale è morto qualche mese fa, all’età di 77 anni. La notizia è stata divulgata il 18 settembre scorso.
E vale la pena raccontarla, la storia del colonnello Petrov. Non solo perché ha evitato la più grande ecatombe della storia (e non è certo poco). Ma anche perché ci ha insegnato e ancora ci insegna a non fidarci ciecamente delle macchine, per quanto intelligenti siano.
Le cose sono andate così. Siamo agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso. Il 26 settembre 1983: poco meno di 35 anni fa.
Da poco i caccia di Mosca hanno abbattuto un aereo civile coreano che ha sconfinato in territorio sovietico. Sono morte 269 persone e il mondo è inorridito.
Da tempo il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, va teorizzando la necessità di costruire un destabilizzante scudo spaziale per proteggere l’Occidente dai missili sovietici. E da poco Reagan ha definito l’URSS «l’impero del male».
La tensione tra Est e Ovest ha raggiunto un nuovo, acutissimo vertice. Jurij Andropov, segretario generale del PCUS, teme il “first strike” – un attacco nucleare massiccio – da parte degli USA. L’Armata Rossa è in allerta.
Stanislav Petrov, 44 anni da Vladivostok, ha la momentanea direzione del pronto allerta nucleare presso il comando dell’esercito sovietico in una località segreta appena fuori Mosca. Il suo compito è uno e uno solo: avvisare immediatamente le massime autorità militari in caso di allarme nucleare, in modo che mentre gli eventuali missili americani sono in volo l’URSS si possa far scattare il “second strike”: la rappresaglia destinata ad assicurare la distruzione anche dell’attaccante.
Il compito è, insieme, delicato e automatico. Petrov sa che non deve pensare, deve solo comunicare i dati. Succeda quel che succeda. Così impallidisce quando i computer gli dicono che i satelliti hanno rilevano il lancio di cinque missili americani Minutenam, con testata nucleare. Ora ha pochi secondi e una sola opzione: alzare il telefono e avvisare i suoi capi.
Non lo fa.
Con un istinto che definirà “di pancia” intuisce che i satelliti e i computer si stanno sbagliando. Che non c’è stato alcun “first strike” americano. Che si tratta di un errore. Che no, non può alzare il telefono della morte.
E attende. Sessanta, 120, 180 secondi … La tensione è altissima: sta sbagliando il sistema o sto sbagliando io? Petrov ne ha piena cognizione: in gioco c’è la vita di centinaia di milioni di persone e il futuro stesso dell’umanità. Seicento, milleduecento secondi … Ventitré minuti dopo il primo allarme il colonnello constata che il suo istinto viscerale ha avuto ragione sulla fredda intelligenza dei computer e degli occhi dei satelliti: di missili americani in volo non c’è traccia, l’allarme è cessato. Può comunicare così ai suoi superiori che nulla di particolare sta succedendo.
Il mondo è salvo.
Il satellite aveva scambiato dei riflessi di luce da parte delle nuvole per missili in volo. I computer ne avevano dedotto che erano missili Minutenam. Lui, Petrov ha pensato che non poteva essere vero. Non ha creduto all’oggettività delle macchine. Così ha disatteso agli ordini salvando il mondo.
Il suo – a differenza di quello delle Hawaii – non è stato un banale falso allarme, ma un intelligente e coraggioso mancato allarme.
Lungi dal prendere atto del suo eroismo e da premiarlo con tutti gli onori, le autorità militari puniscono il colonnello Petrov per non aver seguito il protocollo. La punizione non è, tuttavia, troppo pesante.
La notizia che il colonnello Petrov lo ha salvato, il mondo l’apprende solo quando, nel 1998 Yury Votintsev, generale di un’Unione Sovietica che ormai non c’è più, pubblica il suo diario.
Petrov diventa così noto, ma non notissimo; nel 2006 viene premiato nella sede della Nazioni Unite dalla Association of World Citizens, mentre nel 2013 riceve il prestigioso Dresden peace prize e la sua storia viene raccontata in un film: The Man who Saved the World.
L’uomo che ha salvato il mondo e che ha creduto più al suo istinto che ai computer è morto solo a Fryazino, un quartiere di periferia di Mosca, il 19 maggio scorso. Quel mondo che lui ha salvato lo apprende – chissà perché – solo sei mesi dopo: il 18 settembre 2017.
La sua vicenda come quella delle Hawaii ci ricordano che viviamo ancora, colpevolmente, sull’orlo dell’abisso nucleare.