fbpx In difesa degli orsi del sole | Scienza in rete

In difesa degli orsi del sole

Primary tabs

Tempo di lettura: 10 mins

Cacciati per il commercio illegale di denti, artigli e soprattutto della cistifellea che è un importante farmaco secondo la medicina tradizionale cinese, e minacciati dalla deforestazione, gli orsi malesi rischiano l’estinzione. Si sa pochissimo di questi animali, oggetto di poche indagini scientifiche, ma i rischi sono in aumento, anche perché la loro bile è stata suggerita come rimedio al Covid-19. Una ricerca italiana in Myanmar ha contribuito alla conoscenza e alla tutela di questo orso.

Crediti immagine: istituto Oikos

Di rimedi al Covid-19 in questi mesi ne abbiamo sentiti di tutti i tipi, dalla vitamina C al bicarbonato, passando per la candeggina consigliata da Trump. In Cina, per esempio, la commissione nazionale per la salute ha indicato come possibile cura un farmaco tradizionale, chiamato Tan Re Qing, che ha tra i suoi principali componenti la bile di orso. La nota che raccomanda l’utilizzo di questo farmaco risale allo scorso marzo, ma a oggi non c’è stata alcuna rettifica, come denuncia l’Environmental Investigation Agency, agenzia non governativa che si occupa di denunciare i crimini commessi contro la natura. E così, mentre da un lato a seguito della pandemia di Covid-19 ci sono stati tentativi di fermare il commercio di animali selvatici all’interno dei mercati alimentari, dall’altro manca una seria azione di contrasto dell’utilizzo di fauna per i rimedi di medicina tradizionale. La preoccupazione degli esperti di conservazione è che la promozione di un farmaco a base di bile d’orso possa incentivare il bracconaggio.

La bile d’orso è considerata dalla medicina tradizionale un rimedio per curare le affezioni del fegato e della cistifellea. C’è un fondo di verità, perché contiene una sostanza, l’acido ursodesossicolico o ursodiolo, che in effetti aiuta a sciogliere i calcoli. Malgrado la sostanza possa essere ottenuta attraverso un processo di sintesi in laboratorio, la medicina tradizionale orientale preferisce l’estrazione della stessa a partire dagli orsi. Oggetto del prelievo sono due specie, l’orso malese (Helarctos malayanus) e l’orso dal collare (Ursus thibetanus), entrambi considerati vulnerabili al rischio di estinzione, secondo la lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN).

Fino agli anni Ottanta, la ricerca dell’ursodiolo consisteva nella caccia agli orsi per ottenerne la cistifellea, poi sono state creati degli appositi allevamenti, in Cina e in Vietnam. Gli allevamenti sono legali, anche se pongono molte questioni sul piano etico. Gli orsi sono tenuti in gabbie molto piccole, impossibilitati a muoversi, e la bile viene estratta attraverso una cannula in metallo che va a pescare direttamente dalla cistifellea. E anche se ci sono questi allevamenti legali, non manca il traffico illecito di orsi (o parti di essi) uccisi in altri Paesi asiatici.

Un progetto italiano per l’orso malese

L’orso malese è la più piccola specie di orso (in media arriva ai 65 Kg di peso). Sul nero, lucente e corto manto spicca, all’altezza del collo, una macchia giallo-arancio a forma di ferro di cavallo, che gli vale l’appellativo di orso del sole (il nome comune in inglese è sun bear). Secondo la tradizione, infatti, la macchia gialla rappresenterebbe il sorgere del sole. In alcuni Paesi è invece chiamato cane-orso per le sue piccole dimensioni. Un tempo diffuso in tutto il sudest asiatico, l’orso malese si è estinto in gran parte del suo areale originario, a causa della persecuzione diretta, ma anche perché strettamente legato alla presenza della foresta pluviale, e quindi minacciato dalla deforestazione e conversione delle foreste in aree agricole o urbanizzate.

Anche se è evidente che questo piccolo orso stia inesorabilmente scomparendo, non si conosce molto né della sua biologia né dell’ effettiva consistenza delle popolazioni esistenti: si tratta di una delle specie su cui si hanno a disposizione meno informazioni in assoluto. Questo è dovuto al fatto che l’orso malese è un animale estremamente elusivo, che vive in zone di foresta difficilmente accessibili all’uomo, oltre ad avere abitudini notturne e una spiccata abilità arboricola. Insomma, un soggetto alquanto complicato da studiare. Eppure, per poter mettere appunto efficaci strategie di conservazione è essenziale conoscere e monitorare.

Un importante progetto mirato a colmare queste lacune è stato portato avanti in Birmania da una Ong italiana, l’istituto Oikos che da più di vent’anni si occupa di conservazione della fauna in Italia e all’estero. Il progetto “Conservazione dell’orso del sole in Myanmar” è stato finanziato dalla Fondazione Segré e si è avvalso della collaborazione con Ong locali e con l’americana WCS (Wildlife Conservation Society).

«Il Myanmar potenzialmente è lo Stato con la maggiore superficie idonea alla presenza della specie, ma le informazioni erano pressoché nulle. L’unica cosa confermata era la presenza dell’orso malese, perché nell’ambito di un progetto sulla tigre condotto da WCS erano state ottenute delle immagini», racconta Francesco Bisi, ricercatore presso l’Istituto Oikos e l’Unità di analisi e gestione delle risorse ambientali dell’Università dell’Insubria. «Siamo partiti dalle basi logistiche che già aveva in Myanmar l’istituto, che opera in questo Paese dal 2008. Il monitoraggio si è svolto in due aree del Myanmar: una localizzata nella zona centro-occidentale del Paese, il Rakhine, e una più a nord, il Sagaing. Il primo passo era acquisire informazioni sulla distribuzione degli orsi malesi. Per fare questo abbiamo utilizzato delle fototrappole (macchine fotografiche che, una volta posizionate in natura, per esempio fissate al tronco di un albero, si attivano al passaggio di un animale grazie a un sensore infrarosso): in ognuna delle due aree di studio abbiamo posizionato 120 fototrappole che sono rimaste attive 45 giorni durante la stagione asciutta (ottobre-marzo). Lo studio è stato replicato per tre anni»

«Contemporaneamente abbiamo effettuato dei percorsi standardizzati, i transetti, per rilevare i segni di presenza della specie. Questo ci ha permesso di stimare l’efficacia relativa di due metodi di monitoraggio. Le fototrappole si sono rivelate più efficaci perché è molto complesso trovare i segni di presenza in un ambiente come la foresta pluviale: ad esempio gli escrementi si degradano in un tempo rapidissimo», continua Bisi. A partire dai dati raccolti in natura, i ricercatori hanno potuto sviluppare dei modelli di occupancy, ovvero modelli matematici che, sulla base della presenza/assenza di una specie nei punti di campionamento, permettono di stimare la distribuzione e la densità di una popolazione.

Pochi orsi, tanti utilizzi umani

Gli orsi malesi vengono bracconati principalmente per ricavarne la cistifellea e la bile, che è molto ricercata per le sue proprietà medicinali. Ma anche le zampe e la carne sono commercializzate nel mercato alimentare. Non ultimo, questo orso ha artigli e canini molto sviluppati, che utilizza per cercare le termiti e le formiche di cui va ghiotto nei tronchi degli alberi, e che sono commercializzati come talismani e trofei. Infine, i cuccioli possono essere venduti come pet. Il mercato illegale ha un amplissimo spazio di azione, perché si sta ormai spostando sempre più sulle piattaforme virtuali. Uno studio, condotto nel 2018 e 2019 in Indonesia, ha rilevato la presenza di 158 post Facebook per il commercio relativo all’orso malese in Idonesia. I prodotti maggiormente venduti erano gli artigli e i canini (sotto forma di bracciali o collane), seguiti da cuccioli vivi. Un'analisi delle confische effettuate sempre in Indonesia dal 2011 al 2018 dimostra il commercio di almeno 245 esemplari, anche in questo caso il mercato principale è dato dai trofei e dai cuccioli vivi. Non va meglio in Malesia, dove un recente report della Ong Traffic, che si occupa di commercio illegale di fauna, ha rilevato il sequestro di almeno 100 esemplari uccisi, e un costante aumento dal 2012 al 2018 di vendite di prodotti medicinali a base di bile di orso (principalmente sotto forma di pastiglie), illegali nel Paese, dove l’orso malese è una specie strettamente protetta.

«In Myanmar le principali minacce per l’orso sono la deforestazione e il bracconaggio. Il Paese esce da una lunghissima dittatura militare, le aree rurali sono molto povere e arretrate», racconta Bisi. «Nella maggior parte dei casi le uccisioni di orso sono accidentali. Infatti il principale motivo per il prelievo illegale di fauna è procurarsi la carne per la sussistenza. Usano lacci, balestre, o anche fionde, mezzi rudimentali, e gli obiettivi del prelievo sono principalmente il cinghiale e i cervidi. Però capita che venga catturato l’orso, la cui carne ha in realtà lo stesso valore economico di quello del cinghiale. Però è chiaro che chi sa che può ricavare un guadagno dalla vendita dell’animale o parti di esso ne approfitta».

Come riportato nel report prodotto da Oikos, la cistifellea di orso vale dai 50 ai 200 dollari statunitensi, a seconda della dimensione. Le zampe, invece, valgono dai 1500 ai 3000 dollari. Ma, come spiega Bisi, nella maggior parte dei casi alle comunità locali vengono dati molti meno soldi, e sono i trafficanti quelli che beneficiano in pieno della commercializzazione dell’orso. 

«Durante il secondo anno di progetto, è stato contattato lo staff di Oikos perché era stato trovato un orsetto, che è stato recuperato da uno dei collaboratori birmani. Dopo circa due settimane però l’orsetto è stato rubato. In tutto durante tutto il progetto sono stati riportati quattro casi di cuccioli ritrovati, molto probabilmente in seguito all’uccisione della madre». Bisi riferisce inoltre che sono stati riscontrati nel corso del progetto casi di bracconaggio compiuti da cacciatori organizzati e provenienti principalmente dall’estero. In Myanmar la cultura rispetto all’uso medicinale dell’orso non è diffusa, ed è quindi l’esportazione verso Paesi terzi il principale canale di guadagno.

Coinvolgimento e partecipazione: parole d’ordine per conservare

«La maggior parte del progetto di Oikos è stata incentrata sul coinvolgimento delle comunità locali, perché non puoi ottenere gli obiettivi di conservazione se prima di tutto non informi le persone. Abbiamo lavorato con interviste che hanno mostrato come molti abitanti delle comunità rurali non fossero a conoscenza del fatto che esistono due specie di orso in Myanmar, e non sapevano nemmeno che fosse tutelato dalle leggi», afferma Bisi. Il progetto ha quindi lavorato moltissimo con campagne informative e di educazione, sia nelle scuole che attraverso eventi divulgativi nei villaggi. Ma soprattutto è stato favorito un effettivo coinvolgimento e responsabilizzazione delle comunità locali rispetto alla tutela dell’orso. «L’orso malese è una tipica specie bandiera e la sua tutela passa attraverso la salvaguardia della foresta pluviale in cui vive. Sono stati innanzi tutto individuati dei villaggi in cui è stato spiegato il progetto in dettaglio. Per la tutela della foresta è stato scelto l’approccio delle community forest: ovvero è stato favorito un approccio partecipato alla gestione delle foreste. Sono stati stipulati dei contratti tra il Ministero delle foreste e le comunità locali, che sono quindi diventate responsabili della cura del bosco. Questo si è tradotto in aree perimetrate protette e controllate, piantumazione di nuovi alberi, gestione sostenibile delle risorse».

Il progetto ha supportato la creazione e la gestione di 13 community forests nell’area di Rachine, cui si aggiungeranno altre 12 nel Sagaing. Per la prevenzione delle uccisioni illegali l’approccio è stato quello di coinvolgere le comunità locali per il controllo del territorio: «Sono stati creati dei gruppi di community guardians, cui sono stati assegnati dei transetti da fare almeno una volta al mese con lo scopo di registrare la presenza di lacci o di ingressi non autorizzati di persone e comunicarle al Dipartimento forestale», aggiunge il ricercatore.

Un impegno futuro

Il progetto di Oikos è giunto al termine questo anno, anche se le attività con le comunità locali proseguiranno almeno per tutto il 2021. Nel frattempo, le energie sono incentrate nel reperimento di ulteriori fondi per proseguire con le attività, e magari per ampliare il raggio delle azioni di tutela: «Il monitoraggio con le fototrappole ci ha permesso di verificare la presenza di molte specie di elevato interesse per la conservazione, come il pangolino, la tigre, il leopardo nebuloso, il cuon, e questo consente in alcuni casi di sviluppare modelli e perfezionare piani di conservazione», spiega Bisi. Uno dei principali prodotti del progetto è un piano di azione per i prossimi dieci anni, che si basa sulle informazioni acquisite per migliorare la salvaguardia dell’orso malese in Myanmar. Lo scorso anno la IUCN ha pubblicato delle linee guida relative all’intero areale dell’orso malese.

Il lavoro sulle comunità locali, contemporaneamente a un rinforzato controllo e messa in atto delle norme a contrasto del bracconaggio risultano fondamentali per la tutela dei rari orsi del sole. Resta necessario un forte coinvolgimento nonché coordinamento internazionale per un effettivo contrasto ai traffici illegali di fauna. La pandemia di Covid-19 ha aperto la discussione a una platea più ampia, mostrando le conseguenze sulla salute umana del commercio di animali selvatici. Ma è necessario portare la riflessione su una scala di più ampio respiro: per esempio, non ha senso chiudere mercati alimentari per poi incentivare l’utilizzo di prodotti medicinali. E poiché non c’è mercato se non c’è domanda, la sfida sta nel cercare di cambiare il comportamento delle persone, su scala globale, lavorando sulle motivazioni e le attitudini.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Una correlazione tra l’accumulo di plastica e il rischio cardiovascolare

Uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine evidenzia per la prima volta la presenza di micro- e nanoplastiche nelle placche aterosclerotiche di pazienti sottoposti a intervento chirurgico. Seguendo i pazienti per i 34 mesi successivi, il gruppo di ricerca ha potuto rilevare anche un maggior rischio di malattia cardiovascolare nei pazienti in cui erano state rilevate le microplastiche rispetto a coloro che invece non le avevano accumulate, e l’aumento di alcune molecole associate all’infiammazione

Che la plastica costituisca un enorme problema ambientale è ormai del tutto riconosciuto; così come sono riconosciuti i danni che causa a molte specie, soprattutto marine, che finiscono intrappolate da frammenti di reti, o i cui stomaci sono così pieni di rifiuti da impedire loro di alimentarsi.