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I danni da cambiamento climatico

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Nella foto Saúl Luciano Lliuya, il contadino peruviano che vive a Huaraz, sotto un ghiacciaio che con il surriscaldamento si sta sciogliendo e rischia di travolgere la cittadina. Ha portato a giudizio Rwe, il colosso tedesco dell'energia, uno dei massimi produttori mondiali di anidride carbonica, perché paghi le spese per proteggere i suoi 120 mila abitanti. Credit: Agence France-Press.

I danni da cambiamento climatico

I fenomeni climatici istantanei e di breve durata - uragani e tifoni, trombe d’aria, inondazioni - sono divenuti, negli ultimi anni, sempre più frequenti e sempre più intensi. L’ammontare dei danni verificatisi nel 2017, considerando solo quelli economicamente valutabili, è stato stimato in 306 miliardi di dollari: il doppio dell’ammontare dell’anno precedente e assai superiore alla media degli ultimi dieci anni, pari a 190 miliardi di dollari.

Nello stesso tempo, si accentuano inesorabilmente i fenomeni climatici di lunga durata (i cosiddetti slow onset events) i cui effetti dannosi si accumulano nel tempo: di anno in anno si accresce l’acidificazione e il livello degli oceani, aumentano le temperature medie, si riducono i ghiacciai, progrediscono il degrado delle foreste e la perdita della biodiversità, si riduce e si modifica il patrimonio ittico, si estende la desertificazione.

Con modalità, impatti e tempi diversi, entrambi questi fenomeni sono la causa di danni alle persone, alle cose e all’ambiente: sono danni di diretta o indiretta rilevanza economica (per i quali, come si è visto, sono possibili delle stime) ma sono anche danni non economici o con impatto economico difficilmente valutabile, che tuttavia possono avere conseguenze assai gravi e irreversibili nell’assetto sociale degli stati colpiti (si pensi all’effetto delle forzate migrazioni da luoghi che non consentono più la sopravvivenza nelle località colpite).

Tra le cause di tutti questi fenomeni c’è il cambiamento climatico, in misura diversa per i vari fenomeni, non sempre facile, e talvolta impossibile, da determinare.

Due gruppi di Stati sono particolarmente vulnerabili e sono destinati a subirne le conseguenze dannose in misura consistente. Il primo è costituito dagli Stati che per la loro collocazione geografica sono particolarmente esposti agli effetti del cambiamento climatico: è il caso degli Stati il cui territorio è costituito da piccole isole, riunitisi, insieme agli Stati le cui coste sono esposte all’aumento del livello degli oceani, in un’associazione denominata AOSIS (Alliance of Small Island States). Il secondo gruppo è formato da quelli che, per le loro condizioni economiche e sociali, non sono in grado di porre in essere opere di prevenzione o di reagire: sono gli Stati che appartengono al gruppo degli Stati meno sviluppati (Least Developed Countries) nell’ambito della generale categoria degli Stati non sviluppati o in via di sviluppo. 

I danni conseguenti al cambiamento climatico, seppur noti da tempo, solo da pochi anni sono divenuti uno degli argomenti più importanti nell’ormai consistente corpo di normative che costituisce la climate law e sono noti con l’espressione loss and damage.

In questo articolo descrivo come si sia affermato il tema dei danni da cambiamento climatico.

I due pilastri per il contenimento del cambiamento climatico: mitigazione e adattamento

Il cambiamento climatico può essere affrontato con due diverse strategie. La mitigazione interviene sulle cause del cambiamento climatico e consiste in interventi idonei a contenere e ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall͛’attività dell͛’uomo fino al raggiungimento di livelli di emissioni sostenibili.  L͛’adattamento consiste nel predisporre e attuare interventi idonei a ridurre gli effetti negativi del cambiamento climatico e, ove possibile, a sfruttare le conseguenze positive.

La mitigazione è stata considerata inizialmente la strategia prioritaria; solo in seguito, allorché si è dovuto constatare che essa non sarebbe riuscita a contenere il cambiamento climatico e le sue conseguenze, l͛’adattamento è divenuto una componente essenziale di una politica onnicomprensiva per il contenimento del cambiamento climatico. Ma ci si è presto resi conto che ci sono limiti anche alle possibilità di adattamento.

Quando mitigazione e adattamento sono inutili: i danni da cambiamento climatico

Secondo il 5° Rapporto dell’IPCC ci possono essere “constraints and limits to adaptation”: la realizzazione delle strategie di adattamento può incontrare difficoltà di ordine tecnico o economico, oppure vere e proprie barriere.

Più specificatamente, le difficoltà sono fattori che rendono più problematico realizzare le iniziative di adattamento, restringendo la gamma e l’efficacia delle opzioni disponibili o, in caso di ecosistemi, restringendo le possibilità di mantenerli produttivi e funzionanti.

Le difficoltà generalmente sono costituite dalla mancanza di risorse economiche o tecnologiche o da caratteristiche istituzionali o sociali del luogo dove è necessario intervenire. Con limiti all’adattamento si intende che, in una determinata realtà, non ci sono strategie di adattamento utilizzabili oppure che le opzioni disponibili non sono compatibili con i vincoli posti dall’assetto sociale o naturale.

Si è così formata una categoria, collocata all’interno delle strategie di adattamento: i danni da cambiamento climatico. Poiché il danno costituisce un’entità oggetto di disparate definizioni e ricostruzioni nei vari ordinamenti giuridici ed è strettamente connesso all’accertamento di responsabilità e a conseguenze risarcitorie, è stata utilizzata un’espressione generica, onnicomprensiva ma volutamente ambigua, loss and damage, al fine di individuare tutte le ipotesi nelle quali le politiche di adattamento sarebbero state inutili o troppo difficoltose: il primo termine indica una perdita definitiva (per esempio vite umane o irreparabile distruzione di ecosistemi con scomparsa delle specie vegetali o animali), il secondo indica il verificarsi di danni più o meno gravi, suscettibili però di essere eliminati (per esempio, la ricostruzione di opere edilizie o di infrastrutture) oppure risarciti per equivalente.

Verso il terzo pilastro per affrontare il cambiamento climatico

In realtà, i danni provocati dal cambiamento climatico erano stati presi in considerazione già nel 1991 nel corso delle trattative per predisporre il testo della Convenzione quadro per il contenimento del cambiamento climatico. AOSIS aveva proposto di inserire nella Convenzione la previsione di un fondo assicurativo internazionale per risarcire le vittime dell’innalzamento del livello dell’oceano. La proposta non venne neppure presa in considerazione per l’opposizione dei paesi sviluppati, preoccupati che i costi necessari per il finanziamento del fondo per risarcire i danni dei quali era ancora inimmaginabile l’entità sarebbero stati posti a loro esclusivo carico.

Non bisogna in proposito dimenticare che, sulla base della Convenzione, i paesi sviluppati si trovavano a dover affrontare integralmente i costi delle strategie di mitigazione per contenere le emissioni prodotte al loro interno, mentre nessun obbligo al riguardo era previsto per i paesi non sviluppati; i paesi sviluppati avevano quindi pienamente condiviso la scelta sostenuta dai movimenti ambientalisti di accantonare le strategie di adattamento, ben consapevoli che anche il finanziamento di queste strategie sarebbe stato posto a loro carico (come sarebbe poi avvenuto, allorché diverrà chiaro che le strategie di mitigazione non avrebbero prodotto i risultati sperati). A maggior ragione, avevano quindi manifestato una ferma contrarietà a introdurre nella Convenzione il tema dei danni provocati dal cambiamento climatico subiti dai paesi non sviluppati, onde evitare di doversi far carico anche di questo aspetto.

Il tema dei danni rimane così accantonato per molti anni, essendo tutta l’attenzione della comunità internazionale rivolta a elaborare le modalità di attuazione della Convenzione Quadro, messe a punto solo nel 1998 con la firma del Protocollo di Kyoto e poi a ottenere che il Protocollo entrasse in vigore (dopo il rifiuto di ratifica degli Stati Uniti nel 2001). È quindi solo a sedici anni di distanza, nel 2007, che esso ricompare, nella COP13 svoltasi a Bali: il cosiddetto Bali Action Plan, mentre mette in luce l’importanza delle politiche di adattamento per affrontare i bisogni urgenti dei paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili, indica la necessità di predisporre anche strategie per far fronte ai danni determinati in questi paesi dall’impatto del cambiamento climatico non evitabili con interventi di adattamento.

Così, l’anno successivo, alla COP14 di Poznan, AOSIS riformula la propria proposta, proponendo di stabilire, nell’ambito delle strategie di adattamento, le modalità per far fronte ai danni da cambiamento climatico. La proposta era articolata in tre parti: un fondo assicurativo per compensare i danni irreparabili e per quelli più gravi, un meccanismo di finanziamento per i danni reversibili, infine un meccanismo di gestione e prevenzione dei rischi idonei a provocare danni.

Un ulteriore passo avanti è compiuto nel 2010 a Cancún con l’adozione da parte della COP16 del Cancún Adaptation Framework dove si afferma per la prima volta che le politiche di adattamento devono ricevere lo stesso livello di attenzione dedicato alla mitigazione. Nella parte dedicata alla necessità di incrementare le iniziative di adattamento, si stabilisce di rafforzare la cooperazione internazionale al fine di comprendere e ridurre i loss and damage provocati dal cambiamento climatico

Per la prima volta così il tema dei danni da cambiamento climatico - ancora considerato come una componente dell’adattamento - è oggetto di specifica attenzione: è prevista l’elaborazione di un progetto, nel corso dei due successivi anni, per indicare le modalità con le quali affrontare la questione. 

Nel corso dei due anni seguenti si succedono incontri e dibattiti per definire questo progetto. I paesi sviluppati si rendono ormai conto che l’insuccesso delle strategie di mitigazione e la prevedibile insufficienza delle politiche di adattamento impone di affrontare il tema dei danni provocati dal clima nei paesi economicamente e geograficamente più svantaggiati: in questo mutato atteggiamento contano da un lato il calcolo di poter deviare su adattamento e danni una parte dei fondi che annualmente vengono versati a titolo di aiuti allo sviluppo, dall’altro la consapevolezza che solo con interventi in questo settore potranno essere limitati i costi economici, sociali e di ordine pubblico provocati dalle ondate di migrazione climatica destinate inevitabilmente a verificarsi.

Al termine dei due anni, il progetto è però ancora in fase di elaborazione: finalmente nel 2012 alla COP18 di Doha si stabilisce di creare un organismo apposito per assistere le future COP nell’affrontare il tema dei danni da cambiamento climatico in a comprehensive, integrated and coherent manner”.

Restano tuttavia vaghi i compiti che questo organismo avrebbe dovuto svolgere: dallo sviluppo di strategie di gestione del rischio anche con riferimento ai fenomeni di lunga durata, al rafforzamento del dialogo e della coordinazione tra tutti coloro interessati a prevenire i danni. L’unico compito fornito di qualche concretezza è l’ultimo dell’elenco: lo sviluppo di iniziative di sostegno, comprensivo della costruzione di meccanismi finanziari e tecnologici, per affrontare il tema del loss and damage determinati dal cambiamento climatico. È con questo progetto che si giunge l’anno seguente alla COP di Varsavia.

Il Warsaw International Mechanism for Loss and Damages - WIM

Nel 2013, 22 anni dopo la proposta di AOSIS, nel corso della COP19 svoltasi a Varsavia, il tema dei danni da cambiamento climatico diviene oggetto di una specifica disciplina: è istituito il Warsaw International Mechanism for Loss and Damages (indicato correntemente come WIM), governato da un Comitato esecutivo composto da 20 membri, 10 designati dagli stati in via di sviluppo, 10 dagli stati sviluppati. 

Anche se rimane ancora a livello di generici impegni sia l’individuazione degli specifici contenuti del loss and damage, sia l’inclusione dei danni non economici, comincia a prendere forma a Varsavia quello che di lì a poco diverrà il terzo pilastro della politica per contenere gli effetti del cambiamento climatico, insieme alla mitigazione e all’adattamento. Al WIM sono attribuiti i compiti delineati nella precedente COP di Doha: sviluppare la conoscenza dei problemi connessi con i danni da cambiamento climatico, rafforzare la coordinazione e il dialogo tra i vari organi che si occupano di clima, sviluppare azioni e sostegno, anche finanziario, per affrontare il tema dei danni. In realtà nei due anni successivi il WIM tratta pressoché esclusivamente questioni incluse nei primi due compiti, restando bloccate dall’ostruzionismo dei paesi sviluppati le iniziative operative oggetto del terzo compito. Una situazione che induce molti rappresentanti dei paesi in via di sviluppo anche a chiedere lo scioglimento del WIM e la costituzione di un nuovo organismo, dotato di maggiori poteri.

L’Accordo di Parigi: loss and damage diviene il terzo pilastro della politica climatica della comunità internazionale

È in questa situazione di incertezza in merito al contenuto del loss and damage, alla sua collocazione come componente delle politiche di adattamento oppure come elemento indipendente e alle sue modalità di gestione che si giunge nel 2015 alla COP21 di Parigi, attesa come l’ultima occasione per definire una nuova politica internazionale per il contenimento del cambiamento climatico.

Al termine di un protratto scontro tra paesi sviluppati e i paesi destinatari delle previsioni in tema di loss and damage, quest’ultimo è individuato come un elemento indipendente dall’adattamento.

Questo riconoscimento è avvenuto superando forti opposizioni da parte dei paesi ricchi e degli Stati Uniti per i quali l’introduzione del tema dei danni da cambiamento climatico nell’Accordo avrebbe potuto aprire la porta a innumerevoli richieste di risarcimento del danno da parte degli Stati più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico nei confronti di coloro che storicamente ne erano considerati responsabili o, comunque, avrebbe determinato un nuovo consistente impegno finanziario, aggiuntivo a quello, già consolidatosi, per sostenere gli interventi di adattamento. Infatti la conseguenza, non scritta ma implicita, di questo riconoscimento è che anche il finanziamento degli interventi conseguenti ai danni diviene distinto da quello riguardante gli interventi di adattamento: un nuovo e maggior onere che sarebbe prevedibilmente gravato in massima parte sui paesi sviluppati.

L’opposizione si è articolata su tre diversi livelli di resistenza.

In prima battuta è stato sostenuto che il tema dei danni era un problema di gestione e prevenzione dei rischi, non essendo chiaro né quali fossero i danni che dipendevano dal cambiamento climatico invece che da fenomeni naturali né quale fosse il contributo del cambiamento climatico. Esso non rientrava quindi negli scopi delineati dalla Convenzione quadro del 1992 e avrebbe dovuto essere affrontato nelle sedi appropriate: tra queste, il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction, un accordo al quale partecipano numerose Agenzie internazionali e molti Stati, stipulato nel 2015 a conclusione della 3° Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla riduzione dei rischi di disastri, con lo specifico scopo di ridurre i danni provocati da fenomeni naturali sviluppando strategie di prevenzione (“non ci sono disastri naturali, ci sono eventi naturali che provocano disastri”).

Fallito il tentativo di estromettere il tema dei danni dall’Accordo a fronte del rifiuto opposto dagli altri paesi partecipanti, i paesi ricchi hanno tentato di mantenerlo racchiuso all’interno delle politiche di adattamento, così come era accaduto fino a quel momento: in questo modo, “diluendo” il tema dei danni nella più generale problematica dell’adattamento, non si sarebbe creato un nuovo e autonomo carico finanziario e si sarebbero attenuati anche i profili di responsabilità.

Anche questo tentativo non ha però avuto successo: era da troppi anni che i paesi più vulnerabili attendevano di ottenere un riconoscimento preciso della loro specifica condizione all’interno della comunità internazionale. Di fronte alla minaccia di non partecipare all’Accordo se il tema dei danni non fosse stato incluso, i paesi sviluppati sono stati costretti a cedere.

L’Accordo dedica così l’intero art. 8 al tema del loss and damage. L’art. 8.1 stabilisce che Le Parti riconoscono l’importanza di evitare e ridurre al minimo le perdite e i danni collegati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, compresi eventi metereologici estremi e eventi lenti a manifestarsi, e di porvi rimedio, e riconoscono altresì l’importanza del ruolo dello sviluppo sostenibile nella riduzione del rischio di perdite e danni”.

Tuttavia, i paesi sviluppati hanno ottenuto che fossero accettate due condizioni che costituivano la loro terza barriera difensiva.

In primo luogo, hanno ottenuto che fosse espressamente esclusa la possibilità di avanzare richieste di risarcimento per i danni subiti a carico dei paesi sviluppati. L’art. 8.3 precisa infatti che Le Parti promuovono la comprensione, l’azione e il sostegno, in particolare attraverso il Meccanismo di Varsavia, ove opportuno, in modo cooperativo e semplificativo, in materia di perdite e dei danni imputabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici”: cooperazione quindi, ma non responsabilità. Inoltre, il paragrafo 51 della Decisione (un testo annesso all’Accordo, con efficacia non vincolante) stabilisce che l’art. 8 dell’Accordo non costituisce una base per richieste di responsabilità o risarcimento”.

In secondo luogo, in base al principio che ciò che non si può evitare deve essere allontanato nel tempo il più possibile, le questioni concernenti il finanziamento dei danni sono state rinviate a successive conferenze delle parti, senza includere specifiche previsioni sul tema nella sezione dell’Accordo riguardante gli aspetti finanziari.

L’art. 8.4 elenca tutti gli elementi per i quali sono previste le iniziative di cooperazione e quindi l’intervento degli Stati che sono parti della Convenzione quadro al fine di contenere o prevenire i danni.

“…le aree di cooperazione e semplificazione per migliorare la comprensione, l’azione e il sostegno riguardano in particolare: (a) sistemi di allerta precoce; (b) preparazione alle emergenze; (c) eventi lenti a manifestarsi; (d) eventi che possono comportare perdite e danni irreversibili e permanenti; (e) valutazione e gestione generale del rischio; (f) strumenti di assicurazione rischi, messa in comune dei rischi climatici e altre soluzioni assicurative; (g) perdite non economiche; (h) resilienza delle comunità, dei mezzi di sussistenza e degli ecosistemi”. Di particolare rilievo è l’inclusione, al punto g), dei danni non economici, che ha costituito uno dei temi più controversi già nelle COP precedenti: è un’altra vittoria di AOSIS e dei paesi meno sviluppati.

Nella Decisione sono poi individuate due specifiche aree di intervento per il periodo 2015-2020: la previsione di strumenti assicurativi e finanziari di trasferimento del rischio e la predisposizione di mezzi e strategie per evitare o ridurre al minimo migrazioni o spostamenti determinati dal clima.

In conclusione, l’Accordo di Parigi riconosce ufficialmente il tema dei danni provocati dal cambiamento climatico come il terzo pilastro sul quale si fonda la politica internazionale su questa materia e avvia così una serie di attività volte a predisporre interventi di sostegno ai paesi più vulnerabili. D’altro canto, il prezzo pagato è stata l’esclusione della responsabilità dei paesi sviluppati per i danni, anche se, come vedremo fra breve, si tratta di un’esclusione che non sembra porre una barriera insuperabile a future azioni in proposito.

Loss and damages: alla ricerca di una definizione

L’Accordo di Parigi, pur rendendo indipendente la categoria del loss and damage, non offre una definizione che risolva i punti di dissenso volutamente lasciati in sospeso dall’ambiguità della formulazione originaria, destinata a raccogliere il maggior numero di adesioni rinviando al futuro gli inevitabili dissidi. È rimasto così aperto un problema non puramente teorico, tenuto conto che solo gli eventi che saranno inclusi in questa categoria potranno ricevere il sostegno, anche finanziario, previsto dall’Accordo. Anche in questo caso, è fondato il sospetto che l’omessa definizione sia stata il frutto di una scelta in favore del protrarsi dell’ambiguità.

La definizione tuttora più utilizzata è così quella elaborata nel 2012 dall’IPCC: “gli impatti attuali o solo potenziali associati al cambiamento climatico che si verificano nei paesi in via di sviluppo che incidono negativamente su sistemi umani e naturali, inclusi gli impatti provocati da eventi estremi (ondate di calore, inondazioni e siccità) o da eventi che progrediscono lentamente (aumento del livello degli oceani o riduzione dei ghiacciai)”. Più semplice la definizione suggerita dal Comitato esecutivo del WIM che estende la categoria anche ai danni provocati non solo dal cambiamento, ma anche dalle variazioni del clima: “gli effetti dannosi del cambiamento climatico e della variabilità climatica che si verificano nonostante la mitigazione su scala globale e l’adattamento su scala locale”. In conclusione, spiega l’autorevole World Resources Intitute, loss and damage individuano alcuni impatti del cambiamento climatico che non possono essere controllati mediante strategie di adattamento e che producono effetti dannosi permanenti o comunque importanti.

Restano tuttavia molte questioni scientifiche, etiche, politiche e giuridiche da risolvere, fermo restando che il termine loss identifica danni irreversibili (vite umane, estinzione di habitat o di specie) e damage tutto ciò che può essere reintegrato, ricostruito o comunque può essere oggetto di riparazioni che eliminano gli effetti del danno.

Ecco alcuni esempi più dibattuti nella letteratura.

Non è chiaro dove sia il confine tra interventi di adattamento per evitare i danni e interventi posti in essere per riparare a danni già provocati. È una zona grigia, particolarmente rilevante per danni provocati da fenomeni a formazione progressiva: nel caso dell’aumento del livello degli oceani, gli interventi per fornire assistenza alle popolazioni colpite rientrano nell’adattamento o nell’attività di contenimento dei danni?

Non è stato chiarito se rientrino in questa categoria solo i danni provocati esclusivamente o prevalentemente dal cambiamento climatico, oppure anche quelli imputabili a fattori naturali, nei quali però il cambiamento climatico ha avuto un’incidenza.

Poi, non è stato chiarito se siano inclusi anche i danni che comunque si sarebbero verificati, relativamente ai quali il cambiamento climatico ha solo accelerato il verificarsi.

Infine, non è stato chiarito se debba essere attribuito rilievo alla diligenza posta in essere dagli Stati interessati nel predisporre opere di adattamento per evitare i danni o il loro aggravarsi (a questo proposito, è stato osservato che possono esservi tre tipi di loss and damage: quelli che con opportune attività di adattamento possono essere evitati, quelli che invece non vengono evitati pur essendovene la possibilità tecnica o economica mediante opportuni interventi di adattamento, infine i danni inevitabili).

Dopo l’Accordo di Parigi

Il tema dei danni è stato oggetto di approfondite discussioni nelle COP successive, soprattutto per ciò che attiene agli aspetti finanziari, l’aspetto più conflittuale.

Così, nel corso della COP22 di Marrakesh, è approvato lo schema di un piano quinquennale per dare progressiva esecuzione a quanto previsto dall’Accordo di Parigi. Il piano prevede cinque punti di attenzione: gli eventi a formazione progressiva, i danni non economici, la gestione del rischio, i problemi migratori delle popolazioni interessate e le connesse questioni finanziarie.

Un anno dopo, nella COP 23, svoltasi nell’ottobre 2017 a Bonn, è stabilito, superando l’opposizione dell’Unione europea secondo la quale non c’erano sufficienti dati statistici per comprovare che uragani e tifoni fossero provocati dal cambiamento climatico, di istituire una camera di compensazione (clearing house) per organizzare strategie per la gestione dei rischi e le informazioni necessarie per la predisposizione di strumenti assicurativi: un’iniziativa denominata InsuResilience Global Partnership che è, in buona sostanza, lo sviluppo di un’iniziativa già oggetto di una proposta del gruppo dei G7 alla COP21 di Parigi. Si ritorna così, a 25 anni distanza, alla proposta formulata da AOSIS nel 1991. Obiettivo dell’iniziativa è di garantire una copertura assicurativa a 400 milioni di soggetti residenti negli Stati più vulnerabili entro il 2020.

Considerazioni conclusive: saranno risarciti dai responsabili i danni da cambiamento climatico?

La precisazione fortemente voluta dai paesi sviluppati con la quale la previsione del loss and damage come categoria autonoma non avrebbe comportato il riconoscimento di responsabilità né avrebbe costituito la base per ottenere risarcimenti invece di chiudere una questione che fino a quel momento si agitava nello sfondo degli innumerevoli problemi posti dal cambiamento climatico l’ha portata in superficie trasformandola in un tema di attualità.

In realtà, il disposto dell’art. 51 della Decisione annessa all’Accordo di Parigi non sembra avere efficacia generale, se non limitatamente alle previsioni contenute nell’Accordo (tra l’altro, essendo inserito in un atto della Conferenza delle Parti, e non, come detto, nell’Accordo, potrà essere in futuro modificato dalla stessa Conferenza delle parti).

Non va neppure trascurato il fatto che c’è una disposizione simmetrica e opposta, inserita negli atti allegati alla Convenzione quadro del 1992 su iniziativa di quattro stati formati da piccole isole: Figi, Kiribati, Nauru e Tuvalu. La disposizione precisa che la sottoscrizione della Convenzione non comporta in alcun modo la rinuncia a diritti riconosciuti dal diritto internazionale concernenti la responsabilità degli Stati e che le previsioni contenute nella Convenzione non derogano ai principi del diritto internazionale.

A ciò va aggiunto che la disposizione dell’art. 51 della Decisione non pare idonea a superare specifici principi del diritto internazionale, quali l’obbligo degli Stati di non provocare danni (no harm rule) e la responsabilità dell’inquinatore (polluter pays principle).

È facile prevedere che la questione della responsabilità per i danni derivanti dal cambiamento climatico si svilupperà nei prossimi anni, via via che l’impatto del cambiamento climatico produrrà danni consistenti e irreversibili negli Stati più vulnerabili.

Molti sono già gli studi e le ricerche che individuano i responsabili, a partire da quando le emissioni di gas serra sono divenute un fattore consistente dello sviluppo industriale.

Così, nel periodo tra il 1800 e il 2005 il 63% delle emissioni totali risultano provenienti da sette paesi: Stati Uniti, Cina, Russia, Brasile, India, Germania e Regno Unito, mentre l’82% delle emissioni è imputabile a 20 società pubbliche o private.

Deve tuttavia osservarsi che, se si richiede quale presupposto per la responsabilità la consapevolezza di porre in essere un comportamento ingiusto e dannoso, fino ad alcuni decenni questa consapevolezza era inesistente: questa considerazione potrebbe spostare il peso della responsabilità dai responsabili “storici” ai responsabili attuali (Cina, India e altri paesi emergenti) che hanno avviato e incrementato le attività di emissioni di gas serra quando già questa consapevolezza esisteva.

Sulla base di queste considerazioni, non solo gli Stati che subiscono i danni del cambiamento climatico, ma anche singoli soggetti, pubblici o privati, potrebbero richiedere un risarcimento sia nei confronti degli Stati che nei confronti delle società responsabili, in misura commisurata alle differenti responsabilità.

È quanto è successo nel novembre del 2015: un contadino peruviano, Saúl Luciano Lliuya, ha promosso un giudizio in Germania contro RWE, una delle maggiori compagnie di produzione di elettricità tedesca, chiedendo il risarcimento pro quota (lo 0,47%, la percentuale delle emissioni di gas serra annualmente prodotte da RWE su scala globale) dei costi necessari per la costruzione di una diga resasi necessaria per impedire che lo scioglimento dei ghiacciai provochi l’esondazione del lago Huaraz e distrugga le aree coltivate di sua proprietà e l’intero villaggio. Le domande di Lluya sono state rigettate in primo grado, pur riconoscendo il tribunale che vi era una causalità scientifica tra le emissioni della società e lo scioglimento del ghiacciaio peruviano. L’appello è pendente.

Del resto, le controversie giudiziarie in materia di cambiamento climatico hanno avuto un consistente incremento negli ultimi anni e sono in continuo aumento: è sufficiente consultare il Sabin Center for Climate Change Law, organizzato e aggiornato dalla Columbia University per avere un quadro completo. È quindi prevedibile che presto potremo assistere all’affermazione dello specifico settore delle cause volte a ottenere forme di risarcimento dei danni subiti.


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