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L'impero dei chip di luce

immagine di intelligenza artificiale

La Cina ha avviato la produzione industriale di chip fotonici: una mossa strategica per ridurre la dipendenza dalle tecnologie occidentali e conquistare nuovi primati nell’era dell’intelligenza artificiale.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Prisma, numero 76, novembre 2025

Tempo di lettura: 5 mins

Se la prima rivoluzione industriale si è basata su materie prime come il carbone e la seconda si è caratterizzata per l'uso dell'elettricità, la terza rivoluzione industriale punta tutto sull’informazione. Così, dopo le miniere e le centrali elettriche, siamo diventati noi la principale risorsa da sfruttare.

Quando ticchettiamo sulla tastiera del computer o dello smartphone, o ancora quando mettiamo un like oppure un commento sui social, inconsapevolmente offriamo alle aziende Big Tech una quantità di dati preziosissimi dai quali ricavare enormi profitti. Per elaborare in modo continuo e massivo la mole di informazioni che produciamo, occorre una potenza di calcolo smisurata, la quale a sua volta richiede energia e materie prime (a riprova che le tre rivoluzioni industriali non si sono passate la staffetta, ma corrono in parallelo). I server che effettuano tutti questi calcoli hanno bisogno d’energia elettrica per funzionare, d’acqua per essere raffreddati e soprattutto di materie prime per i loro pezzi di ricambio. I chip, le unità elettroniche integrate che costituiscono il mattone fondamentale di ogni server, sono poi sempre più potenti e usati in modo così intensivo da richiedere una sostituzione frequente. Sappiamo che i “cervelli elettronici” costituiti da questi chip non sono basati sulla chimica del carbonio, ma su quella del silicio. Inoltre, la produzione di questi chip richiede tutta una serie di materiali anche molto preziosi, come l’oro, il rame, il cobalto e le terre rare.

Per superare le difficoltà legate all’approvvigionamento, la Cina (il Paese che attualmente ha forse più “fame” di circuiti integrati) sta tentando strade alternative al silicio e pare che questa estate abbia messo a terra il primo progetto industriale di chip fotonico. Di cosa si tratta?

Come dice la parola stessa, un chip “fotonico” usa la luce per immagazzinare e trasmettere informazioni. Semplificando un po’, potremmo dire che se i chip usuali impiegano gli elettroni, i chip fotonici usano i fotoni o, per meglio dire, la luce e quindi le sue caratteristiche come la lunghezza d’onda ecc. Ma non si tratta di un semplice cambio di una particella con un’altra, bensì di una vera e propria rivoluzione tecnologica (in parte cominciata, dato che dispositivi come le fibre ottiche funzionano già sulla base di questi principi). I vantaggi della fotonica rispetto all’elettronica sono molteplici: in primo luogo, la luce è la cosa più veloce che ci sia, quindi trasmette le informazioni nel modo più rapido possibile. Inoltre, mentre il flusso di elettroni in un conduttore deve comunque vincere una resistenza, e questa frizione dissipa calore (per accorgersene basta posare la mano su un computer o uno smartphone in funzione), nel caso della luce questa notevole dispersione energetica non c’è: si tratta quindi di una fonte meno energivora e più efficiente in termini di consumi. Un tema non trascurabile, se ogni volta che un’intelligenza artificiale come ChatGPT viene addestrata, la rete elettrica e quella idrica subiscono uno scossone (e non si tratta di una battuta, come gli abitanti del Texas possono testimoniare).

Anche la possibilità di miniaturizzare un circuito è più ampia nel caso dei chip fotonici. Uno dei problemi di surriscaldamento delle componenti integrate è infatti l’affollamento di transistor nel chip al silicio: i sistemi moderni richiedono di miniaturizzare in pochi centimetri quadrati dei componenti di calcolo e di memoria che un tempo richiedevano decine di metri cubi; inoltre, l’effetto di dissipazione del calore pone un limite fisico macroscopico alla miniaturizzazione, limite molto più blando nel caso dei chip fotonici. Ovviamente non ci sono solo dei pro ma anche dei contro: primo fra tutti la difficile interoperabilità con dispositivi elettronici e non fotonici, che rende difficile immaginare di rimpiazzare in breve tempo i chip al silicio con quelli basati sulla
luce.

Eppure, nell’ambito dell’intelligenza artificiale, il gioco vale la candela. Per funzionare, l’IA generativa ha bisogno di infrastrutture di calcolo parallelo che comportano l’uso di migliaia e migliaia di chip. La loro potenza viene sfruttata in pieno durante le costose fasi di addestramento, sebbene anche l’inferenza (cioè l’uso che centinaia di milioni di persone fanno quotidianamente di ChatGPT e dei suoi simili) necessiti di grandi risorse per via del numero sempre crescente di richieste.

La Cina ha cavalcato la rivoluzione tecnologica dell’IA, giungendo a definire nuovi modelli, come il celebre DeepSeek, e investendo moltissimo nelle componenti di base necessarie alle infrastrutture informatiche per l’IA. Il tessuto industriale cinese annovera alcune Big Tech affermate sui mercati internazionali, come Alibaba e ByteDance (proprietaria di TikTok), che ovviamente necessitano di tutta l’intelligenza artificiale possibile per mantenersi sul mercato e sfruttare al meglio i dati offerti dagli utenti.

L’idea di dover dipendere dalla produzione della multinazionale statunitense Nvidia, principale produttore di Gpu (i chip di calcolo nati per la grafica ma ormai standard nei conti necessari alle IA generative) non piace alle autorità cinesi, specie dopo che la guerra commerciale con gli Stati Uniti si è intensificata a seguito dell’insediamento di Donald Trump. Recentemente, il governo cinese ha proibito alle sue Big Tech di importare chip da Nvidia, sebbene quest’ultima avesse introdotto espressamente per il mercato cinese una scheda con chip integrati chiamata Blackwell, la cui esportazione non è proibita dal governo Usa. Resta da capire se il Dragone detterà condizioni per la commercializzazione di queste schede, o se la via autarchica al chip al silicio sarà perseguita fino all’indipendenza dalle componenti importate dall’estero. Non sembra un caso che proprio questa estate la Cina abbia lanciato la produzione industriale di chip fotonici, dalle prestazioni apparentemente ottime: si tratta dello sforzo di tre anni di ricerca e sviluppo che hanno visto coinvolte non solo le aziende del tech cinese, ma anche la batteria di università e ricercatori sui quali il Paese ha molto investito nei decenni passati.

Difficile dire se nei prossimi anni la via fotonica all’intelligenza artificiale (ma anche alle comunicazioni 6G e altro) riuscirà a far tramontare l’epoca del silicio: certo è che, sebbene queste ricerche siano state intraprese anche negli Stati Uniti e in Europa in tempi non sospetti, ora è la Cina a poter vantare la prima linea produttiva di questi chip che, forse, introdurranno la prossima rivoluzione nel calcolo digitale e non solo.


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