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Creazione di una cellula batterica

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«Creazione di una cellula batterica sotto il controllo di un genoma sintetizzato chimicamente», questo è il titolo del lavoro di Craig Venter, Hamilton Smith, Clyde Hutchinson e una ventina di colleghi apparso il 20 maggio 2010 su Sciencexpress, l’edizione on-line del prestigioso Science magazine, subito diventato oggetto di un’attenzione mediatica eccezionale e quindi di appassionati e in alcuni casi allucinanti dibattiti. Gli autori hanno una loro non piccola parte di responsabilità: il titolo doveva essere più appropriato (su queste riviste i titoli riscelgono gli autori, non i direttori) e poteva recitare ad esempio «Sintesi chimica di un genoma batterico e trapianto funzionale in una cellula vivente». Un sottotitolo, se fosse usato in queste pubblicazioni, poteva essere del tutto legittimamente «Un altro passo avanti verso la sintesi della vita in laboratorio». Vale quindi la pena vedere in breve dettagli, prospettive e limiti di questo ennesimo exploit del gruppo che ha guadagnato notorietà internazionale nella corsa al genoma umano.

Questa loro nota è insolitamente concisa: 4 pagine, 5 figure e una tabella, ma, a giudicare dal tenore di molti dei commenti che ha suscitato, ciò non ne ha garantito la doverosa lettura. Vi si riportano i risultati di un complesso lavoro durato 15 anni, costato 40 milioni di dollari, forniti da una società controllata da Venter, e l’impegno di circa 20 ricercatori, per la maggior parte affiliati ad un istituto di ricerca non accademica, creato dallo stesso Venter e a lui intitolato. Il risultato è una cellula (naturale) che si autoreplica grazie alle istruzioni fornitele da un genoma artificiale: questo è stato sintetizzato secondo l’ordine, o sequenza, delle basi come risultanti dall’analisi del DNA di un micoplasma naturale, il Mycoplasma mycoides, sequenziato anni fa dallo stesso gruppo. All’immaginario collettivo questo esperimento suggerisce la possibilità di creare in laboratorio nuove forme di vita assemblando genomi a sequenza arbitrariamente decisa dal ricercatore e trapiantandoli in apposite cellule, che li adotteranno come propri e si metteranno quindi a funzionare secondo il loro messaggio genetico sintetico.

Il problema è ovviamente piuttosto complesso e cercheremo di semplificarlo al massimo. Occorre però fare un paio di passi indietro.

In omaggio a un vecchio canone della chimica analitica, che indica nella sintesi la miglior conferma di un’analisi, il gruppo di Venter s’era attivato per creare una copia sintetica del genoma sequenziato: ha quindi prodotto un DNA della rispettabile lunghezza di poco oltre un milione di basi, capace di codificare per poco meno di 500 proteine. Il motivo principale della scelta era la dimensione minimale del suo genoma, uno dei più piccoli noti: il famoso batterio E. coli, per decenni cavallo di battaglia della genetica molecolare, ha un genoma circa 5 volte più grande; un mammifero come l’uomo l’ha tremila volte più grande, e arriva a oltre tre miliardi di basi. Completata la sintesi chimica, il genoma è stato trapiantato in una cellula di micoplasma svuotato del suo DNA: è stato possibile dimostrare che il genoma trapiantato s’è comportato esattamente come il modello naturale. Inoltre, particolare molto significativo, ha permesso di correggere un piccolo ma serio errore a suo tempo infilatosi nella sequenza, confermando così il valore della sintesi come controllo dell’analisi. Il genoma sintetico è quindi in grado di replicarsi e di esprimere le funzioni che il batterio svolge in natura (non gran che: parassitizza ruminanti). Nel corso della sintesi al genoma artificiale sono stati aggiunti alcuni geni estranei: uno è di origine batterica, conferisce una colorazione blu delle colonie e ne facilita l’identificazione; poi c’è una serie di marcatori che lo distinguono dal modello naturale e portano in filigrana un’appropriata citazione di James Joyce («Vivere, errare, fallire, trionfare, ricreare la vita dalla vita»), i nomi degli autori e le loro e-mail (marchio d’origine e al tempo stesso un elegante vezzo di crittografia genetica!). Per i non addetti ai lavori, grazie al codice genetico è possibile trasformare ciascuna delle lettere dell’alfabeto, delle interpunzioni e di qualche altra decina di segni alfanumerici in una delle 64 combinazioni di tre delle quattro basi del DNA (in gergo, in triplette). Al lettore il compito di scoprirle e decifrarle, «codice di Venter» alla mano!

Piuttosto che associarci alle tante discussioni etiche, legali, fantascientifiche, eccetera, scatenate dal lavoro e dalla sua esagerata copertura massmediatica, esaminiamone il tasso di scientificità: uno straordinario tour de force come impegno sperimentale, un piccolo capolavoro come protocollo di ingegneria genetica (qui intesa soprattutto come ingegnosità), ma per quel che riguarda le ricadute della genomica sintetica di cui vuol esser autorevole testimonial, occorre osservare che le previsioni dei commentatori sono spesso state più audaci di quelle degli stessi autori, abili ricercatori non meno che accorti imprenditori.

Un secondo passo indietro ci permette una migliore prospettiva: di eventi annunciati come «creazione della vita in laboratorio» ce ne sono parecchi nella storia delle bioscienze. Se n’era parlato per la prima volta nel 1828, quando il tedesco Friedrich Wöhler produsse urea (una molecola organica) da cianato d’ammonio (una molecola inorganica): così facendo archiviò la teoria della vis vitalis sin allora ritenuta distintiva del vivente rispetto al non-vivente e sdoganò il concetto di trasformazione, che se valeva per la chimica doveva valere per la biologia e quindi per l’evoluzione. Poco più d’un secolo dopo, gli americani Harold Urey e Stanley Miller riuscirono a condensare semplici composti come ammoniaca, anidride carbonica, acqua, in diversi aminoacidi naturali, i mattoni della vita: ma certo nessuno pensò di ricorrere ai loro alambicchi e alle loro scariche elettriche etc per creare una nuova vita, né richiese brevetti.

Replicazioni in vitro di genomi virali ad opera di enzimi naturali vennero pochi anni dopo riportate da Arthur Kornberg. Ma il richiamo forse più pertinente è la sintesi totale di geni ottenuta dal gruppo di Gobind Khorana e colleghi tra il 1968 e il 1972. I motivi di questa maggiore preferenza sono diversi e in parte personali: a Khorana è andato un Nobel nel 1968 (in riconoscimento del suo lavoro sul codice genetico) e quanto a me non posso non ricordare con piacere la mia collaborazione col suo gruppo proprio in quei fantastici anni. Fummo i primi a creare dei geni sintetici, pezzi di DNA lunghi solo un paio di centinaia di basi, e dimostrammo che la loro attività biologica era identica a quella dei DNA modello. A chi ci chiedeva perché mai, vista l’abbondanza di DNA in natura, una decina di cervelli si fossero impegnati per una anni ad assemblare pezzetti di DNA, spiegavamo che il nostro approccio ci permetteva di creare qualunque sequenza genica, indipendentemente da modelli naturali: potevamo non solo riprodurre, ma anche inventare nuove forme di vita, creandone i putativi geni e quindi loro insiemi (o genomi), nel rispetto di solide conoscenze genetiche, oppure in risposta a fantasiose estrapolazioni. In una parola, potevamo creare nuovi organismi, almeno in teoria. A Khorana non diedero un secondo Nobel solo perché ne aveva appena vinto uno: e non richiese brevetti.

Successivamente tra i numerosi eventi che sono stati salutati (o esecrati) come tentativi di riprodurre la vita in laboratorio occorre citare la sintesi totale del genoma a RNA del virus della poliomielite (oltre 7.000 basi) avvenuta nel 2002 ad opera di Cello, Paul e Wimmer. Poi una lunga serie di progress report dell’efficientissimo gruppo di Venter; infine il lavoro di questi giorni.

Due considerazioni si impongono sopra le altre. La prima riguarda la nostra capacità di immaginare nuove informazioni genetiche, e quindi nuove forme di vita. A oggi è limitata: certo possiamo sintetizzare qualunque sequenza di DNA, da un semplice gene ad un complesso genoma, usando DNA naturali come stampi o modelli, e molecole pure naturali, come i nucleotidi o precursori del DNA, come materiale di partenza. Ma il problema è che non abbiamo ancora né la conoscenza, né la fantasia necessarie per creare sequenze completamente nuove e associare loro una funzione genetica (o, nel caso, genomica). Siffatte sequenze dovrebbero codificare un prodotto genico (o un organismo) capace di svolgere una funzione originale, in quanto tale diversa da quella di geni (o genomi) evolutivamente convalidati. Oggi possiamo sempre più facilmente copiare la genetica del vivente e mutagenizzarne i geni (o i genomi) naturali e inattivarli, al massimo indurli a fare qualcosa di leggermente diverso da quello che l’evoluzione è stata capace di fargli produrre dopo milioni o miliardi d’anni di bricolage. Sappiamo ancora troppo poco di genetica molecolare per creare forme di vita interamente nuove, come vorrebbe la nuova biologia sintetica: abbiamo miglior successo se sfruttiamo le tradizionali tecniche di incrocio, basate su principi divinati niente meno che dai biotecnologi del neolitico. A conferma, va sottolineato che per quel che riguarda singoli geni la ricerca su nuovi enzimi artificiali non ha dato grandi risultati, almeno per ora. Per quel che poi riguarda nuovi genomi, credo che oggi nessun biologo sia in grado di inventarne uno che possa esprimersi in una forma di vita diversa da quelle note. Anche perché per farlo funzionare occorre una struttura cellulare che ad oggi non possiamo che recuperare dalla natura, in quanto deve essere coevoluta col suo genoma.

In più c’è il problema tecnico del trapianto: possiamo trapiantare i piccoli genomi mitocondriali, ma fatichiamo con gli enormi genomi nucleari. E' probabile che ad una crescita lineare delle dimensioni delle strutture da maneggiare corrisponda un aumento esponenziale delle difficoltà delle operazioni (Dolly docet!). Così l’approccio di Venter avrà futuro solo quando saremo in grado di tradurre prestazioni e strutture biologiche desiderabili in sequenze di DNA e se, almeno all’inizio limiteremo le nostre ambizioni a sistemi unicellulari dotati di genomi relativamente piccoli. Oggi se vogliamo un organismo capace, per esempio, di detossificare ambienti naturali, ci conviene mutagenizzare qualche ceppo di Pseudomonas o di altri microrganismi che si cibano di idrocarburi, o sequestrano metalli pesanti, e cercare di adeguare le loro modeste prestazioni alle nostre grandi attese: non sembra promettente inventare e sintetizzarne per intero un genoma di milioni di paia di basi quando a noi interessa un organismo evolutivamente ben rodato, innocuo, frugale, adattabile all’ambiente, e artificialmente potenziabile per le proprietà che ci interessano. E, viste la storia e le prospettive di queste tecnologie, non possiamo pensare di rifare l’evoluzione mentre vorremmo poter utilmente lavorare su genomi non ingabbiati da paralizzanti protezioni intellettuali, brevettuali o altre.

Ben diverso discorso merita la definizione di vita, quale s’è evoluta da noi, quale potrebbe essersi sviluppata su altri pianeti, quale possiamo creare noi in laboratorio: vi hanno provato in tanti, da Aristotele a Darwin, da Saffo a Schrödinger, da Lucrezio a Monod. Non è il caso di affrontarla qui.

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