fbpx Come la morte sopravvive alla guerra, un rapporto sulle conseguenze letali dei conflitti US | Scienza in rete

Come la morte sopravvive alla guerra, un rapporto sulle conseguenze letali dei conflitti US

Tempo di lettura: 9 mins

Il rapporto Come la morte sopravvive alla guerra, firmato dal gruppo dall'antropologa Stephanie Savell,analizza le conseguenze letali dei conflitti iniziati dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Siria e Yemen.

Crediti immagine: Jakob Owens/Unsplash

È stato pubblicato lo scorso maggio il rapporto del progetto Costs of War, firmato dall'antropologa Stephanie Savell, Senior Researcher al Brown University’s Watson Institute for International & Public Affairs. La Brown è un'università privata fondata a Providence, Rhode Island, nel 1764, che fa parte sia dell'Ivy League sia dell'Association of American Universities, il cui prestigio è pari all'esclusività (viene ammesso circa il 6,6% delle domande con una retta annuale che supera i 50.000 dollari). Il rapporto, intitolato Come la morte sopravvive alla guerra, analizza le conseguenze letali dei conflitti iniziati dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Siria e Yemen.

Il bilancio totale delle vittime, in queste regioni, potrebbe superare i 4 milioni e mezzo: alcune sono state uccise nei combattimenti, ma molte di più (stimate in 3,6-3,7 milioni) soprattutto bambini, sono state uccise dagli effetti riverberanti della guerra. Mentre gli uomini hanno maggiori probabilità di morire per violenza diretta, infatti, donne e bambini vengono uccisi più spesso dagli effetti indiretti: come già si era visto nella guerra di Corea degli anni ’50, in cui solo il 15-20% dei 5- 6 milioni di morti era stato causato dai combattimenti, nelle aree di conflitto i bambini hanno 20 volte più probabilità di morire di malattie diarroiche che per ferita da arma.

Secondo uno studio del Segretariato della Dichiarazione di Ginevra del 2008, una stima media ragionevole e conservativa per qualsiasi conflitto contemporaneo è un rapporto di quattro morti indirette per ogni morte diretta, tenendo conto che il rapporto è tanto più alto quanto più povera è la popolazione e quanto più vicino al limite della sopravvivenza era prima del conflitto. È applicando questo rapporto alla stima dei 906.000 – 937.000 uccisi direttamente nelle guerre successive all’11 settembre che si ottengono i 3,6 – 3,7 milioni di morti indirette.

Il gruppo di Stephanie Savell ammette che il rapporto non sempre è in grado di districare i vari fattori d'intensificazione di tali effetti (quali possono essere le azioni di governi autoritari, gli sconvolgimenti politici, le sanzioni economiche globali, il cambiamento climatico, i disastri ambientali o le devastazioni accumulate in precedenti guerre); i costi umani delle guerre successive all’11 settembre sono, però, incontrovertibili.

Obiettivo del rapporto è la creazione di una maggiore consapevolezza che comporti il sostegno alle richieste rivolte agli Stati Uniti per alleviare le perdite in corso. È certamente difficile la contabilità delle morti in combattimento: i dati provenienti dalle zone coinvolte sono assenti o incompleti, inaffidabili o di difficile accesso e, comunque, sempre oggetto di contestazioni politiche. Le stime delle vittime in Iraq sono state particolarmente controverse: un articolo del 2006 su Lancet stimava che circa 600.000 iracheni fossero morti in guerra tra il 2003 e il 2006. La validità di questa stima è stata messa in dubbio da chi accusava gli autori di avere un’agenda politica contraria alla guerra in Iraq, ma questi critici furono accusati, a loro volta, di avere propri programmi politici che li portavano a voler minimizzare i danni.

Due anni dopo, nel 2008, un altro studio stimò a 151.000 il numero di morti violente avvenute nello stesso periodo, mentre Body Count, un progetto di conteggio delle morti di civili e combattenti in Iraq, ha documentato 300.000 morti violente fino a oggi.

Le dispute sui metodi di conteggio, sebbene importanti in qualsiasi attività scientifica, hanno purtroppo in questo caso l'effetto di distogliere l'attenzione dall'esistenza di un numero comunque enorme di morti e di feriti. Ancor più difficile è calcolare le morti indirette da guerra: il decesso per fame può avvenire a "spettacolo finito", mesi o anni dopo che la guerra ha interrotto l’accesso al cibo. Spesso, le persone colpite dalla guerra sono sfollate e migranti, il che rende difficile rintracciarle.

"Effetti collaterali involontari"

I percorsi causali predominanti verso la morte indiretta nelle guerre successive all’11 settembre passano per il collasso economico, con perdita di mezzi di sussistenza e insicurezza alimentare, per la distruzione dei servizi pubblici, delle infrastrutture sanitarie e dell'accesso all’acqua potabile sicura, per la contaminazione ambientale e per il riverbero di traumi e violenza. Gli ordigni inesplosi e le mine rendono la terra inaccessibile all’agricoltura e bloccano il trasporto delle merci; i coltivatori possono perdere l’accesso ai terreni agricoli anche in altri modi, per esempio a causa dell’intensificazione dei conflitti interpersonali e della perdita di documenti. Lo sfollamento forzato, soprattutto all’interno delle nazioni, aumenta la vulnerabilità delle persone a questi danni. Questi percorsi spesso si sovrappongono e s'intensificano a vicenda e, nel tempo, sono aggravati da disastri naturali, come la siccità.

Secondo la Convenzione di Ginevra, i danni ai civili dovrebbero essere solo "effetti collaterali non voluti" dei combattimenti; tuttavia, a volte le parti in guerra attaccano intenzionalmente la distribuzione del cibo (in Yemen, la coalizione degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, sostenuta dagli Stati Uniti, ha condotto attacchi aerei su fattorie, impianti idrici e pescherecci). Anche in assenza di una plateale intenzionalità, poiché il diritto internazionale obbliga le parti in guerra alla proporzionalità tra attacchi su obiettivi militari ed eventuali effetti di riverbero sui civili, il rapporto attuale ha incluso tutte le morti di guerra indirette, intenzionali o meno.

Le guerre successive all’11 settembre si sono verificate in paesi le cui popolazioni sono in gran parte non bianche e in cui l’eredità coloniale, la povertà e le discriminazioni di genere, razza, etnia costituiscono di per sé un rischio maggiore di morte e sono state combattute da paesi con storie di suprematismo bianco e islamofobia; in questi paesi, la mortalità indiretta causata dalle guerre si traduce nel peggioramento dei tassi di mortalità già elevati a causa di forze globali, locali e storiche multistrato.

L’assenza di dati prebellici affidabili rende impossibile calcolare l'eccesso di mortalità in nazioni come l’Afghanistan e l’Iraq, entrambe devastate da decenni di guerra e sanzioni prima dell’11 settembre. L’ultimo tentativo di censimento in Afghanistan risale al 1979, ma fu interrotto dall’invasione dell’Unione Sovietica e dalla conseguente guerra di lunga durata. In Iraq, le sanzioni economiche delle Nazioni Unite degli anni ’90 decimarono il sistema sanitario e influirono negativamente sulla salute della popolazione, rendendo impossibile valutare la mortalità di base prima dell'invasione americana del 2003. Anche ora, un sistema di anagrafe non esiste in Afghanistan ed è carente in Iraq.

Tuttavia, negli ultimi decenni (in particolare a partire dalle stragi bosniache del 1995) si è cominciato a valutare le perdite nelle popolazioni che vivono in aree di conflitto studiandole con tecniche demografiche innovative, tra le quali le indagini retrospettive sulla mortalità, che campionano famiglie selezionate per raccogliere informazioni sulla morte dei membri della famiglia in un periodo di tempo specificato. Tali metodi, tuttavia, richiedono finanziamenti significativi e volontà politica per essere applicati su larga scala e non sono stati ancora utilizzati nella maggior parte dei casi post-bellici.

Malnutrizione, mancanza di cure, danni ambientali...

Il rapporto mette in primo piano le decine di migliaia di bambini sotto i cinque anni che tuttora muoiono di malattie infettive, come il colera e il morbillo, di malnutrizione acuta e di complicazioni neonatali, poiché queste morti sono, senza alcun dubbio, attribuibili al deterioramento delle condizioni economiche, sociali, psicologiche e sanitarie, prodotto dalla guerra. E conteggia anche le morti derivate dalla distruzione d'infrastrutture quotidiane, come i segnali stradali (nel 2011, uno studio ha rilevato che il numero di morti per incidenti stradali in Iraq era quattro volte maggiore di quello causato da attacchi terroristici) e quelle causate da un eccesso di violenza interpersonale stabilitosi in conseguenza ai traumi psichici bellici.

In Afghanistan, 20 anni di guerra guidata dagli Stati Uniti (2001-2021) che si sono aggiunti ai precedenti 20 anni di guerre civili e guidate dai sovietici, combinati con l’attuale malgoverno dei Talebani, le sanzioni statunitensi e globali, la siccità e gli effetti della pandemia di Covid-19 e della guerra in Ucraina hanno provocato milioni di sfollati e lasciato decine di milioni di persone senza beni di prima necessità. La malnutrizione è stata prevalente durante l’occupazione statunitense, ma è salita alle stelle dopo il ritiro degli Stati Uniti nell’agosto 2021. L’economia dell’Afghanistan è crollata e oltre la metà della popolazione vive ora in estrema povertà: il 95% degli afghani non mangia abbastanza e, nelle famiglie guidate da una donna, tale percentuale è pari al 100%. Avverte l’UNICEF che l’eccesso di mortalità tra i bambini gravemente deperiti non avviene gradualmente, ma che si manifesta all’improvviso, quando la malnutrizione si combina con epidemie, come è accaduto in Somalia.

La mortalità aumenta anche per difetto di cure: in Siria, nel 2021, solo il 56% delle strutture sanitarie primarie e il 63% degli ospedali erano pienamente funzionanti. Il conflitto ha interrotto le catene di approvvigionamento di base dei farmaci e delle forniture sanitarie, ha limitato il numero di operatori sanitari e la formazione medica. I governi di Damasco, Russia e Stati Uniti hanno bombardato ospedali e strutture sanitarie; gruppi militanti come lo Stato Islamico e il Fronte al-Nusra hanno saccheggiato e distrutto ambulanze e convogli di vaccini e ucciso, arrestato e torturato operatori sanitari. Nel 2017, una campagna aerea statunitense per cacciare lo Stato Islamico dalla sua roccaforte a Raqqa ha provocato migliaia di morti in attacchi aerei su edifici pieni di civili e su almeno due dozzine di strutture sanitarie.

Nello Yemen, metà di tutte le strutture sanitarie non sono funzionanti a causa della mancanza di personale e di forniture, delle difficoltà d’accesso e dei finanziamenti inadeguati. Il governo iracheno non è riuscito a ricostruire il proprio sistema sanitario e la qualità dell'assistenza sanitaria pubblica rimane così scarsa che molti iracheni cercano assistenza privata in Libano, Iran, Giordania e Turchia. Anche gli iracheni con pochi mezzi vendono case, automobili e altri beni per procurarsi le cure all'estero. Prima della guerra, in Libia l’indice di sviluppo umano era considerato il più alto in Africa; la guerra ha interrotto l’assistenza sanitaria e ha chiuso gli ospedali in tutto il paese (nel 2016 ci fu una campagna aerea statunitense di circa 500 attacchi in soli cinque mesi sulla città di Sirte). Nel 2011, la Central Intelligence Agency (CIA) ha orchestrato una falsa campagna di vaccinazione porta a porta in Pakistan per cercare di localizzare Osama Bin Laden. La conseguenza è stata una reazione negativa contro le campagne di vaccinazione (50.000 - 150.000 famiglie hanno rifiutato le vaccinazioni) che ha portato a una recrudescenza della poliomielite.

Altra grande perdita prodotta dalla guerra è quella dell'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari. Nel 2017, l’OMS ha stimato che 15 milioni di yemeniti ne erano privi; ciò ha contribuito in modo determinante all’epidemia di colera del 2016-2018, che ha infettato da 7 a 14 milioni di persone su una popolazione di 25 milioni e ne ha uccise oltre 2.000. In Libia, nel 2021, il 50% delle famiglie faceva affidamento sull’acqua in bottiglia e solo il 22% aveva accesso a servizi igienici sicuri. La Siria nord-orientale è teatro di una cronica crisi idrica dovuta alla carenza di elettricità legata alla guerra, causata principalmente dall’insufficienza di carburante per le centrali elettriche, insieme alla ridotta portata del fiume Eufrate. Nelle aree rurali e urbane, l’elettricità è disponibile solo per poche ore al giorno e gli orari di pompaggio limitati inducono molti comuni a pompare acqua non trattata. Alcuni grandi sistemi idrici si trovano in territori controllati da diverse fazioni, quindi i conflitti a volte provocano la loro completa chiusura.

L'ambiente, infine, è tra le grandi vittime della guerra. Il Programma ambientale delle Nazioni Unite stima che in Iraq (la zona di guerra su cui si hanno maggiori dati) potrebbero essere state utilizzate 2.000 tonnellate di uranio impoverito; resti di uranio impoverito, utilizzato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per le armature dei carri armati, per le munizioni e per altri scopi militari durante la Guerra del Golfo e dopo il 2003, sono sparsi in oltre 1.000 località. Le tempeste di sabbia si verificano spesso, spostando particelle radioattive dalle discariche militari ai quartieri residenziali. Nell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, i sistemi idrici e igienico-sanitari furono distrutti e milioni di tonnellate di liquami grezzi furono scaricati nei fiumi e molti rifiuti industriali, dopo la distruzione delle fabbriche, andarono dispersi. Tra il 2014 e il 2017, i combattimenti in Iraq hanno devastato 63 città e 1.556 villaggi e la sola distruzione degli edifici residenziali ha generato oltre 55 milioni di tonnellate di detriti.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Solo il 3,5% delle città europee monitorate ha una buona qualità dell’aria

Inquinamento atmosferico cittadino

Solo 13 città europee tra quelle monitorate su 370 circa rispettano il limite OMS di 5 microgrammi per metro cubo annui di PM2,5. La svedese Uppsala è la prima. Nessuna di queste è italiana. Nonostante la qualità dell'aria e le morti associate sono in continuo calo in Europa, serve fare di più.

Immagine: Uppsala, Lithography by Alexander Nay

La maggior parte delle città europee monitorate non rispetta il nuovo limite dell’OMS del 2021 di 5 microgrammi per metro cubo all’anno di concentrazione di PM2,5. L’esposizione a particolato atmosferico causa accresce il rischio di malattie cardiovascolari, respiratorie, sviluppo di tumori, effetti sul sistema nervoso, effetti sulla gravidanza.