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CNR: il paradigma italiano della ricerca

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Il Consiglio Nazionale delle Ricerche è il più grande ente di ricerca pubblico nazionale, ossia è la più importante organizzazione di ricerca del Paese.
Rappresenta il massimo sforzo di concentrazione che l’Italia esprime nello sviluppo di nuova conoscenza:
– per numero di personale (con i suoi circa 8.000 dipendenti e con oltre 4.000 unità in formazione o fattivamente operanti anche se in situazioni contrattuali instabili);
– per distribuzione sul territorio (il CNR è presente in tutte le regioni italiane, esclusa la Val d’Aosta);
– per ampiezza del campo d’indagine (ente cosiddetto generalista in quanto, per missione, orientato sull’intero spettro della conoscenza);
– per intensità di ruoli e relazioni nel settore ricerca a livello nazionale, europeo e internazionale;
– per impatto di produzione scientifica (diciottesima nel 2011 per produttività tra tutte le istituzioni di ricerca e Università nel mondo).

Le origini

Il CNR nasce il 18 novembre del 1923 grazie al lavoro di promozione e intuito di Vito Volterra che ne assumerà la prima presidenza.
Lavoro che innestandosi nella dimensione riorganizzativa delle istituzioni scientifiche internazionali di quell’epoca, determina per l’Italia un’opportunità di straordinario valore. Siamo nel periodo in cui si guarda alla scienza e ai suoi obiettivi di ricaduta tecnologica come a una risorsa essenziale per lo sviluppo industriale e per il supporto agli eventi bellici (come si era già verificato in altre nazioni nel precedente conflitto del 1915-18).
Si opera quindi per una razionalizzazione dell’impresa scientifica anche attraverso strumenti organizzativi nuovi e, almeno in Italia, non ancora significativamente esperiti.
L’impronta che il CNR assume è da subito di ente aperto verso tutte le aree di ricerca allora proficuamente attive, anticipando quella natura generalista che ne caratterizza attualmente il senso scientifico profondo. Evidenziando, inoltre, quelle tendenze verso la ricerca interdisciplinare oggi considerata come una delle maggiori opportunità per l’indagine scientifica più avanzata e per l’esplorazione più efficace delle frontiere della ricerca. Questa caratteristica della interdisciplinarità può in qualche misura essere considerata eredità dello stesso Volterra che già per proprio conto, come studioso, praticava la contaminazione disciplinare affrontando in modo originale alcune problematiche della Biologia e delle scienze sociali attraverso il metodo scientifico-matematico.
Identità storica e prospettiva futura del CNR, massima istituzione italiana di ricerca pubblica, rappresentano elementi chiave per comprendere il ruolo della ricerca nel nostro Paese. Per capire come la società e la politica si confrontino con l’esplorazione della conoscenza, dei suoi protagonisti, delle istituzioni preposte. Per valutare le modalità, le politiche impiegate, gli sforzi di investimento in questo settore. In poche parole, è possibile assimilare gli interventi sul CNR con le politiche della ricerca in Italia.
Proveremo in questo contributo a comprendere queste politiche, ripercorrendo le varie riforme del CNR, le ragioni che le hanno indirizzate, gli sviluppi che hanno prodotto e provando a riflettere sulle tendenze che sembrano definirsi per questo settore con uno sguardo particolare alla dimensione futura del CNR. Non può essere oggetto di questo breve articolo un’analisi approfondita dello sviluppo normativo che ha regolato la storia del CNR (si veda Simili R., Paoloni G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Laterza 2001); proveremo piuttosto a individuare alcuni punti di svolta e questioni essenziali che ne hanno caratterizzato la vicenda.

Missione e attività del CNR

Partendo dalla missione dell’ente, possiamo sostenere come essa sia rimasta sostanzialmente immutata nel corso di questi novanta anni conservando l’obiettivo di generare valore attraverso le conoscenze prodotte dal lavoro di ricerca. Che cosa invece si sono almeno parzialmente modificate nel tempo, sono le attività conseguenti al raggiungimento di quest’obiettivo: in particolare va distinto il CNR come organo di consulenza per il governo e al tempo stesso di orientamento, promozione, valorizzazione e coordinamento della comunità scientifica nazionale, dal CNR come esecutore di attività di ricerca attraverso la propria rete di istituti e centri specializzati. Per la prima fase della sua storia il CNR ha svolto essenzialmente la sola funzione di Consiglio. È solo a partire dalla fine degli anni Trenta che si è anche consolidata nel CNR una rete di istituti direttamente gestiti dall’ente.
Andando quindi a specificare più precisamente, oltre alla diretta attività di ricerca, le altre azioni che possono essere individuate, sono:
– la promozione dell’innovazione e della competitività del sistema produttivo nazionale;
– l’individuazione di soluzioni per i bisogni individuali e collettivi dei cittadini;
– la promozione dell’internazionalizzazione del sistema nazionale della ricerca scientifica e tecnologica;
– la possibilità di fornire consulenze altamente qualificate agli organi dello Stato, della pubblica amministrazione, degli enti locali;
– la capacità di contribuire significativamente alla qualificazione e valorizzazione delle risorse umane.

Ricerca fondamentale e ricerca applicata Come si vede, le attività svolte dal CNR si muovono nella prospettiva dell’impatto che le ricadute della ricerca devono avere sul sistema socio-economico del Paese, sul suo sviluppo culturale at large e sulla qualificazione dei suoi strumenti conoscitivi. Questa impostazione non deve però essere ritenuta di condizionamento rispetto alla natura della ricerca che si sviluppa nel CNR. Non si può per esempio sostenere che, dati gli obiettivi appena indicati, sia necessario orientarsi su una ricerca di natura applicata piuttosto che su quella di natura fondamentale.
È sempre più chiaramente dimostrato come la natura della ricerca sia relativamente influente sulla capacità di ricaduta e d’impatto dei suoi risultati, tanto nella dimensione temporale di raccolta di questi effetti quanto nella loro intensità ed efficacia. Inoltre, questa rigida divisione si riferisce a un modello astratto e sempre meno rispondente a ciò che succede nella realtà, dove esistono forme intermedie tra i due estremi sopra indicati. In particolare una modalità di indagine che può avere significative ricadute, senza essere assimilabile al puro trasferimento o applicazione, è quella che parte dai problemi pratici della realtà e da questi muove orientata a sviluppare, in un determinato ambito, nuova conoscenza che potrà risultare fondamentale alla soluzione di quegli stessi problemi: la cosiddetta ricerca finalizzata o orientata. Proprio questa ricerca viene svolta, in molti casi, al CNR.
Quella appena descritta (la ricerca CNR deve essere di base o applicata?) è una questione che è tornata più volte al centro del dibattito sul CNR, del ruolo che gli andava affidato, delle modalità in cui andava orientato. Ovviamente è stata una delle questioni chiave nelle fasi di riforma dell’ente. Si sono aperti dibattiti anche molto accesi con richiami legittimi, da parte dei ricercatori, alla Carta Costituzionale e alla tutela della libertà di ricerca, rispetto al fatto che il CNR dovesse essere considerato un ente strumentale oppure no, contestando come una troppo diretta funzionalità di servizio potesse aprire spazi inopportuni all’intrusione direttiva nell’ambito della ricerca, a scapito di una virtuosa autonomia, tutelata dalla stessa Costituzione. Spesso l’aggressione al CNR si è manifestata con argomenti del tutto falsi e comunque aprioristici e non fondati sui fatti: come nel caso dell’accusa di essere una sorta di “carrozzone” burocratico e inefficiente.
I dati sulla produttività del CNR (vedi Scimago), hanno sempre smentito clamorosamente queste accuse, tanto in termini di prodotti scientifici e di risultati acquisiti quanto di finanziamento recuperato nel mercato della ricerca sia pubblico che privato, sia nazionale che europeo (dove il CNR risulta l’istituzione italiana più efficiente nel procacciarsi risorse). In effetti, l’attacco aveva come obiettivo l’indebolimento dell’immagine dell’ente così da poter più facilmente affermare una sua trasformazione in ente di servizio per le aziende.
Protagonista di prima fila di questa alquanto semplificatoria e miope proposizione, seppur legittima nelle aspirazioni finali (individuare forme di utilizzazione più efficaci della ricerca pubblica), è stato il mondo privato delle aziende e industrie nazionali attraverso le sue variegate espressioni rappresentative (Confindustria in primis).
Sappiamo bene come il settore privato italiano sia gravemente deficitario rispetto agli investimenti in ricerca che in tutto il mondo sviluppato vedono i due terzi del totale a carico delle imprese e solo un terzo a carico del pubblico. In Italia, invece, i rapporti d’investimento sono di fatto invertiti e quasi i due terzi del finanziamento totale, tra l’altro ben al di sotto del valore medio di analoghi paesi sviluppati, sono a carico del pubblico. Ritenere che questo deficit possa essere colmato attraverso uno stravolgimento della funzione del CNR è allo stesso tempo illusorio e dannoso.
L’illusione consiste nell’ipotizzare che si possa piegare una struttura articolata e complessa con un’importante tradizione di attività e competenze ad ampio spettro, innestata nel sistema di ricerca internazionale ed europeo, orientandola in modo forzoso su un segmento ristretto di applicazione. Il danno può essere prodotto dallo stravolgimento di gruppi e attività di eccellenza in ambiti e settori che resterebbero esclusi o fortemente marginalizzati da questa visione estremamente ristretta. Una proficua azione da parte del CNR sul sistema dell’innovazione nazionale non solo è auspicabile ma persino doverosa, come indicato nella lista delle attività sopra riportate, a compimento della missione dell’Ente. E d’altra parte nessuna delle parti in gioco l’ha mai messa in discussione.
Il ricco patrimonio di accordi e collaborazioni con realtà produttive e associative nazionali (Confcommercio, Finmeccanica, Federchimica, Confartigianato ecc.), con enti locali e con un ruolo anche nella partecipazione societaria, ne sono testimonianza. Il punto di contesa riguarda semmai le modalità da perseguire per l’adempimento di questo compito e come la natura della ricerca che si sviluppa al CNR e le stesse regole con cui lo si organizza possano essere di vantaggio o di ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo.

Le riforme: un processo senza fine

Negli ultimi quindici anni circa, anche per le ragioni appena affrontate, il CNR ha visto il varo di ben tre leggi di riforma: il decreto legislativo n. 19 del 1999 (ministro Berlinguer), il decreto legislativo n. 127 del 2003 (ministro Moratti) e infine il combinato disposto della legge delega n. 165 del 2007 (ministro Mussi) e il conseguente decreto legislativo n. 213 del 2009 (ministro Gelmini). Non c’è stato ministro della Ricerca degli ultimi venti anni che si sia astenuto dal riformare questo ente! E sempre, senza innalzare le risorse da mettere a disposizione del sistema, tra i meno finanziati nel novero dei Paesi sviluppati.
Prima della legge Berlinguer il CNR era sostanzialmente organizzato in un Comitato Direttivo, guidato da un presidente con poteri molto ampi, e da una rete di ricerca (l’insieme degli Istituti e dei Centri) mediata attraverso dei Comitati Nazionali di Consulenza, espressione della comunità scientifica nazionale dei vari settori, con una netta prevalenza delle componenti extra-CNR (per lo più universitarie).
A ciascuno di questi Comitati, oltre all’indirizzo della rete scientifica del CNR di competenza, veniva anche assegnato il compito di svolgere il ruolo di agenzia per l’intera comunità nazionale del settore disciplinare con l’allocazione delle risorse individuate dal Ministero o dal CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, per esempio con la messa a punto dei cosiddetti progetti finalizzati). Con la riforma Berlinguer scompaiono i Comitati, viene riordinata la rete scientifica attraverso una razionalizzazione che vede ridurre da oltre trecento a poco più di cento il numero degli Istituti a cui viene attribuita autonomia scientifica, amministrativa e contabile, dando così seguito a un vero e proprio decentramento amministrativo e gestionale.
Tra gli organi dell’ente oltre al presidente e al Consiglio Direttivo (CD) viene inserito anche un Comitato di Consulenza Scientifica con compiti consultivi, per la metà costituito da componenti eletti dai ricercatori del CNR. Il presidente del CNR e metà del CD del CNR risultano invece di nomina del ministro mentre l’altra metà del CD avrebbe dovuto essere di designazione dell’Assemblea della scienza e della tecnologia, organismo previsto dalla legge n. 204 del 1998 ma mai realizzato.
Proprio la legge 204, sempre pensata da Berlinguer, ridisegna il quadro normativo e strategico dell’intero settore della ricerca pubblica introducendo organismi e strumenti del tutto nuovi. In particolare, viene individuato uno strumento di programmazione, il Programma Nazionale della Ricerca (PNR) che, sulla base dei riferimenti europei e internazionali e tenendo conto delle iniziative regionali, definisce gli obiettivi generali e le modalità di attuazione degli interventi per un triennio (da aggiornare annualmente). Vengono inoltre introdotti i Consigli scientifici nazionali e l’Assemblea della scienza e della tecnologia come organi rappresentativi della comunità scientifica nazionale sia delle Università che degli enti di ricerca.
Come detto, tanto i Consigli che l’Assemblea non verranno mai realizzati. La riforma Berlinguer del CNR (e ancor prima la 204 sopra citata) si determina in un clima in cui sta emergendo con prepotenza il ruolo di rappresentanza dei ricercatori nelle strutture organizzative dell’ente. Questo clima è il frutto della crescente consapevolezza che l’impresa di ricerca, per raggiungere la massima efficacia, deve vedere la partecipazione attiva dell’intera comunità. Le decisioni, anche ai più alti livelli di responsabilità e di valenza pienamente sistemica, devono comunque essere attentamente informate delle problematiche dei livelli più specifici, per le cui soluzioni è necessario il coinvolgimento delle relative competenze. Si rafforza l’evidenza che l’organizzazione di una struttura di ricerca non può essere assimilata a una qualsiasi impresa organizzativa. È impossibile prescindere dalla natura dell’oggetto del lavoro – l’acquisizione di nuova conoscenza – con il ruolo indispensabile che i protagonisti più prossimali a essa devono assumere.
Rispetto a queste esigenze, la riforma Berlinguer fornisce segnali contraddittori: da una parte, il rafforzamento dell’autonomia degli Istituti di ricerca rappresenta un’indicazione alquanto positiva nella direzione autonomistica (anche perché la direzione degli Istituti risulta coadiuvata da un Comitato d’Istituto di natura elettiva che ha, tra gli altri, un compito di particolare importanza: quello di approvare il bilancio d’Istituto); d’altra parte però, la rappresentanza dei ricercatori negli organi dell’ente risulta piuttosto scarsa: nessuna nel CD e parziale nel Comitato Scientifico, i cui poteri sono comunque di sola natura consultiva. La riforma Moratti, emanata dopo un lungo braccio di ferro con la comunità CNR schierata a difesa del ruolo non strumentale dell’ente e con l’opinione pubblica nazionale e la comunità scientifica internazionale coinvolte e solidali con essa, conserva al CNR (proprio grazie alla difesa intransigente della comunità scientifica interna) quegli spazi di autonomia necessari a un corretto svolgimento delle attività di ricerca. Con questa riforma, vengono introdotti un paio di elementi che rappresenteranno per l’ente dei punti di svolta del proprio modello organizzativo: da una parte viene introdotto il Consiglio di Amministrazione (che prende il posto del vecchio Consiglio Direttivo) e vengono inseriti nella macchina organizzativa i dipartimenti: le strutture organizzative delle nuove macro-aree scientifiche.
Queste ultime vengono quindi individuate attraverso la legge e questa modalità di procedere appare alquanto inopportuna dato che un tale compito, definente l’aggregazione delle aree scientifiche, essendo di natura evidentemente specialistica, andrebbe lasciato realizzare a un organismo eminentemente scientifico piuttosto che al ministro di turno.

Il ruolo dei dipartimenti: rischi per l’interdisciplinarità

L’introduzione dei dipartimenti, in particolare, modifica significativamente il modello CNR che ora si trova con una rete scientifica degli Istituti ordinata attraverso queste strutture di coordinamento. La presenza di questa mediazione, introduce elementi positivi e alcuni evidenti rischi. Un elemento potenzialmente favorevole riguarda la presenza di uno strumento di razionalizzazione della rete di ricerca. In particolare, avendo disponibilità di risorse da finalizzare rispetto a definite strategie, sarebbe possibile una programmazione scientifica efficiente e razionale per progetti top-down. La grave carenza di fondi centralizzati da investire in questa direzione ha fino a ora reso però vano questo potenziale pregio. Al contempo, elementi di intralcio verso uno sviluppo positivo del CNR hanno riguardato, da una parte, l’introduzione di questo ulteriore livello di burocrazia nella catena delle decisioni con una riduzione parziale dell’autonomia degli Istituti e con pratiche aggiuntive, oberanti su di essi per autorizzazioni e permessi certamente non favorenti la semplificazione e lo snellimento delle attività. In aggiunta, la presenza di un organismo intermedio ordinatore, costringendo gli Istituti a dover scegliere un’area scientifica cui riferirsi principalmente (il dipartimento di afferenza) per ragioni essenzialmente legate alla dimensione organizzativa, introduce elementi di potenziale indebolimento rispetto alla natura interdisciplinare di molti Istituti che nel CNR hanno sviluppato uno spazio scientifico di assoluta originalità in Italia, con il rischio di mortificare quella che rappresenta una delle caratteristiche di principale valore dell’ente. Ricordiamo che proprio nel CNR in Italia sono nate varie aree scientifiche essenzialmente interdisciplinari che solo successivamente si sono anche sviluppate nell’accademia. È il caso della Scienza cognitiva, dell’Intelligenza artificiale, della Biofisica, della Biologia molecolare e di varie altre. La presenza di un livello intermedio facente riferimento a macroaree scientifiche non rappresenta in sé un ostacolo alla ricerca interdisciplinare, anzi per certi versi potrebbe persino rappresentare un elemento di favore. È necessario però porre molta cura alle forme d’interazione tra Istituti e dipartimenti, in modo che la potenziale molteplicità di riferimento di un istituto interdisciplinare non venga penalizzata dalle forme organizzative direttivo-gerarchiche dal dipartimento verso gli Istituti.

Il salto mai avvenuto: l’autonomia statutaria

Con la legge Mussi, il tentativo che si prova a realizzare è di trasferire il CNR (e gli altri enti di ricerca vigilati dal MIUR) in un regime di autonomia statutaria così da rendere comparabile la seconda rete pubblica di ricerca, sul piano della capacità di autoregolarsi e governarsi, alle università normate dalla legge 168 del 1989. La legge delega di Mussi viene però essa stessa modificata dalla Gelmini in chiave restrittiva. Successivamente, ancora più in controtendenza rispetto all’originaria legge delega risulta il decreto delegato 213, sempre emanato dal ministro Gelmini.
Il primo statuto del CNR, realizzato nel 2010, riporta coerentemente i segni di questo condizionamento restrittivo riducendo gli spazi di partecipazione della comunità scientifica interna del CNR a una quota persino inferiore a quella che veniva prevista nella legge Moratti. La legge Mussi avrebbe potuto stabilire un salto definitivo nella storia del CNR affrancandolo, attraverso l’autonoma realizzazione del proprio statuto, da ulteriori passaggi normativi rivolti alla organizzazione interna e avviando una fase di piena responsabilità della comunità scientifica degli enti di ricerca. Il paradosso di una legge delega realizzata da una maggioranza politica, seguita da un Decreto Delegato (ossia il dispositivo normativo conseguente alla legge delega) emanato dalla maggioranza politica di segno (e intenzioni) opposte (si era nel frattempo passati per elezioni politiche anticipate), spiega uno dei paradossi delle politiche della ricerca nel nostro Paese.

Quale CNR per il futuro del Paese

Guardare al futuro della ricerca nazionale e a quello del CNR, alle loro strutture organizzative e alle articolate funzioni che devono svolgere, significa misurarsi con la crescente complessità delle società globalizzate e con il perdurante fabbisogno di evoluzione tecnologica in un circuito in cui la domanda- offerta di nuova conoscenza assume forme continuamente aggiornate.
Per ottimizzare il nostro sistema ricerca serve allora che tutti gli attori protagonisti di questa impresa si sentano coinvolti e giochino con determinazione il proprio ruolo. Sarà essenziale che il governo faccia la propria parte, riducendo gli interventi normativi e destinando piuttosto le necessarie risorse affinché il CNR possa rifinanziare decentemente le sue attività ordinarie e straordinarie. Sarà fondamentale che le strutture di ricerca e tutti i suoi attori nei differenti ruoli e responsabilità, si impegnino per rendere il settore massimamente efficiente. In primis: ripristinando il ruolo che uno statuto autonomo implica. Sarà utile infine che i media e l’opinione pubblica svolgano il proprio compito, collocando il protagonismo della ricerca di sapere nella giusta dimensione di fattore chiave per il progresso e lo sviluppo del Paese.
Molti ostacoli continueranno a frapporsi per uno sviluppo ordinato del CNR e della ricerca pubblica in Italia. È necessario per questo prevedere e anticipare soluzioni organizzative capaci di competere con complessi contesti politico-finanziari ed economici, con le problematiche sociali di natura sempre più interconnessa e reciprocamente influenti, con gli sviluppi e le tendenze scientifiche in rapidissima evoluzione, con le articolate domande di sapere e di tecnologia.

Al CNR spetterà quindi di attrezzare la propria organizzazione. Dovrà trovare il giusto equilibrio tra l’orientamento dall’alto delle sue attività, su obiettivi scelti e condivisi in ambito nazionale ed europeo, e lo sviluppo del lavoro d’indagine, nel basso, sugli specifici campi di ricerca capaci di far emergere soluzioni imprevedibili e non pianificate rispetto a problemi irrisolti di natura locale o globale. In questo equilibrio tra il top-down e il bottomup si giocherà la partita della futura ricerca. Ed è per conservare questo equilibrio che servirà selezionare le giuste strategie organizzative rafforzando il ruolo della ricerca interdisciplinare e dei settori di frontiera, valorizzando il senso delle autonomie, sviluppando attenzione alla formazione e all’internazionalizzazione e vivificando i fondamentali impatti socio-economici.

Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013


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