fbpx Cattura e rimozione dell'anidride carbonica: tecnologie, limiti e opportunità | Scienza in rete

Cattura e rimozione dell'anidride carbonica: tecnologie, limiti e opportunità

Tempo di lettura: 13 mins
CO2 Anidride carbonica

Con Carbon Dioxide Removal in inglese (CDR), ci si riferisce a tecnologie, pratiche e approcci che rimuovono l'anidride carbonica dall'atmosfera e la immagazzinano in modo duraturo. Esistono diverse soluzioni per la cattura e rimozione dell'anidride carbonica, tuttavia esse non devono essere considerate un’alternativa alla decarbonizzazione ma, come previsto da tutti gli scenari elaborati dall’IPCC, sono necessarie per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero e per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2° C entro il 2100.

Photo by Matthias Heyde on Unsplash

Con “cattura e rimozione dell'anidride carbonica”, Carbon Dioxide Removal in inglese (CDR), ci si riferisce a tecnologie, pratiche e approcci che rimuovono l'anidride carbonica dall'atmosfera e la immagazzinano in modo duraturo in “serbatoi” come la vegetazione, il suolo, le formazioni geologiche, l’oceano, o anche in appositi impianti di stoccaggio.

Esistono diverse soluzioni per la cattura e rimozione dell'anidride carbonica, ciascuna con i propri rischi e benefici, che differiscono per grado di maturità tecnologica e tempistiche di implementazione.

Imboschimento, riforestazione

L'imboschimento, afforestation in inglese, consiste nel piantare alberi su terreni precedentemente privi di copertura arborea per almeno 50 anni ed è considerato tra gli approcci da utilizzare per sequestrare il carbonio e mitigare il riscaldamento globale. Tuttavia, i fattori che determinano il tasso di sequestro del carbonio con l'imboschimento sono ancora poco conosciuti e la letteratura ha prodotto risultati contrastanti, con studi che evidenziano come tale tecnica sia un buon sistema per la cattura dell’anidride carbonica, mentre altri dimostrerebbero che possa perfino essere una fonte di emissione di CO2. L’incoerenza dei risultati potrebbe derivare dal fatto che l’assorbimento di CO2 è influenzato da molteplici fattori.

Secondo lo studio Effects of climate and forest age on the ecosystem carbon exchange of afforestation, pubblicato nel 2020, i fattori dominanti che influenzano il sequestro del carbonio sono la zona climatica e l'età dell'imboschimento. I risultati suggeriscono che l'imboschimento nelle aree subtropicali e temperate dopo 20 anni produrrebbe maggiori benefici in termini di assorbimento di carbonio rispetto all'imboschimento delle regioni boreali.

Con il termine “riforestazione” si intende invece la creazione di una nuova foresta in un’area in cui già precedentemente ne era presente una.

Negli ultimi anni sono state messe in atto diverse iniziative e programmi che sostengono principalmente il ripristino delle foreste e del paesaggio. Tuttavia, secondo lo studio Ten golden rules for reforestation to optimize carbon sequestration, biodiversity recovery and livelihood benefits, crescono le preoccupazioni sulle conseguenze negative impreviste che queste iniziative potrebbero avere, come l’alterazione della biodiversità originaria, in particolare a causa della distruzione di ecosistemi diversi dalle foreste, aumento delle specie invasive, una riduzione degli impollinatori, riduzione delle terre coltivate e quindi della produzione alimentare, un’alterazione del ciclo dell’acqua, infatti la riforestazione, così come l’imboschimento, influisce sull’evapotraspirazione, una riduzione del carbonio organico nel suolo e un abbassamento dell'albedo nelle zone boreali, causando un aumento della temperatura. Questi esiti negativi sono per lo più associati all'uso estensivo di piantagioni di monocolture esotiche, piuttosto che ad approcci di ripristino che incoraggino l’introduzione di diverse specie arboree autoctone.

Sequestro del carbonio nel suolo

Denominato in inglese come Soil carbon sequestration, è un processo in cui la CO2 atmosferica è assorbita e immagazzinata nel suolo. È principalmente mediato dalle piante attraverso la fotosintesi, con il carbonio che viene immagazzinato sotto forma di sostanza organica del terreno, cioè l'insieme della materia organica di origine animale e vegetale non completamente decomposta presente nel suolo. Nei climi aridi e semi-aridi, il sequestro del carbonio nel suolo può avvenire anche grazie alla conversione della CO2 presente nel suolo in forme inorganiche come i carbonati; tuttavia, il tasso di formazione del carbonio inorganico è relativamente basso

Dalla rivoluzione industriale, le emissioni globali di carbonio sono cresciute sia a causa dell’utilizzo dei combustibili fossili sia a causa del cambio della destinazione d’uso del suolo, dovuta alla deforestazione, alla combustione della biomassa, alla conversione di ecosistemi naturali in agricoli e al drenaggio delle zone umide. Secondo lo studio Soil carbon sequestration to mitigate climate change, alcuni suoli coltivati hanno perso da metà a due terzi del pool originariamente presente di sostanza organica del terreno, contribuendo all’aumento di carbonio in atmosfera. Una parte considerevole del pool depauperato di sostanza organica del terreno può essere recuperato attraverso il ripristino dei terreni degradati (land restoration), come i terreni marginali, e una corretta gestione dei suoli agricoli mediante l'adozione di lavorazioni conservative del terreno, che lasciano in superficie i residui vegetali e altra fitomassa, e l’uso di compost e letame. Il sequestro del carbonio nel suolo può avere impatti positivi anche sulla sicurezza alimentare, sull'agroindustria, sulla qualità dell'acqua e sull'ambiente in generale.

Biochar

Il biochar è definito come un materiale ricco di carbonio prodotto durante la pirolisi della biomassa, un processo di decomposizione termochimica che avviene a una temperatura di circa 700°C in assenza o in quantità limitata di ossigeno.

L'impiego del biochar ha un duplice vantaggio: infatti può essere utilizzato sia per il sequestro del carbonio a lungo termine sia come ammendante per il suolo. Secondo alcuni studi, il biochar è una tecnologia che potrebbe essere impiegata per la mitigazione del cambiamento climatico, implementabile su scala globale con una capacità potenziale di sequestrare fino al 12% di gas serra di origine antropica.

Tuttavia, in letteratura si riscontra una discreta incertezza circa la durata del periodo in cui il carbonio catturato dal biochar resta effettivamente immagazzinato nel suolo prima del suo ritorno in atmosfera. In più c'è qualche dibattito anche sull'effetto del biochar sugli stock di carbonio organico del suolo. Alcuni studi hanno osservato un'apparente perdita di carbonio dall'humus nelle miscele di suolo/biochar a causa della presenza proprio del carbone che promuove la crescita microbica nel suolo e, quindi, la decomposizione dell’humus. Questa perdita di carbonio potrebbe in parte annullare i benefici del sequestro di gas serra del biochar.

Bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio

La bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio, Bioenergy with carbon capture and storage BECCS, comporta la cattura e lo stoccaggio permanente di CO2 da processi in cui la biomassa viene convertita in combustibili o bruciata direttamente per generare energia. Poiché le piante assorbono CO2 man mano che crescono, questo è un modo per produrre energia e rimuovere CO2 dall'atmosfera. Poiché la bioenergia può fornire calore ad alta temperatura e combustibili che funzionano nei motori esistenti, BECCS svolge un ruolo importante nella decarbonizzazione di settori come l'industria pesante, l'aviazione e gli autotrasporti nello scenario Net Zero Emissions by 2050 (NZE).

Attualmente vengono catturati solo circa 2 milioni di tonnellate di CO2 biogenica all'anno, principalmente per la produzione di bioetanolo.

Sulla base di progetti attualmente nelle fasi iniziali e avanzate di implementazione, la rimozione del carbonio tramite BECCS potrebbe raggiungere poco meno di 50 MtCO2 all’anno entro il 2030, che è ben al di sotto delle 190 Mt di CO2 all’anno previsto nello Scenario NZE. Nonostante la crescente consapevolezza dell'importanza del BECCS per raggiungere le emissioni nette zero, questo tipo di tecnologia rimane ancora poco applicata.

Inoltre, nonostante i suoi potenziali vantaggi, la BECCS non è priva di controversie. La competizione dell’uso del suolo tra colture per la produzione alimentare e colture destinate alla produzione di energia, così come le emissioni di CO2 associate alla coltivazione, raccolta e lavorazione della biomassa mettono in dubbio la capacità generale di un impianto BECCS di determinare effettivamente una rimozione netta di CO2 dall'atmosfera.

Cattura dell'anidride carbonica direttamente dall'aria

A differenza della cattura del carbonio che viene generalmente effettuata nel punto di emissione, come le ciminiere di un'acciaieria, le tecnologie di cattura diretta dell'aria, Direct Air Capture (DAC), estraggono la CO2 direttamente dall'atmosfera. Ciò offre il vantaggio che un impianto DAC può essere realizzato ovunque.

A oggi sono stati commissionati 27 impianti DAC in tutto il mondo, catturando quasi 0,01 MtCO2/anno. Almeno altre 130 strutture DAC sono in varie fasi di sviluppo. Se tutte dovessero progredire, anche quelle solo nella fase progettuale iniziale, l'implementazione del DAC raggiungerebbe la capacità di sequestro di circa 75 MtCO2 all’anno entro il 2030, richiesto nello scenario NZE. Tuttavia, la maggior parte delle strutture annunciate fino a oggi si trova nelle primissime fasi di sviluppo e per raggiungere lo stato operativo necessitano politiche di mercato volte a creare la domanda per il servizio di rimozione di CO2 che dovrebbero fornire.

Sono state proposte varie tecniche per l’estrazione diretta della CO2 dall’aria ma la stragrande maggioranza dello sviluppo di questa tecnologia si basa su processi di assorbimento. Nella DAC ad assorbimento, l'aria proveniente dall’ambiente scorre su un sorbente che rimuove selettivamente la CO2, che viene poi rilasciata come flusso concentrato per un successivo utilizzo, mentre i sorbenti vengono rigenerati e l'aria povera di CO2 viene reimmessa nell'atmosfera.

Le principali criticità di questa tecnologia sono da una parte il deterioramento degli adsorbenti e delle prestazioni di assorbimento dopo migliaia di cicli di lavoro esposti a grandi quantità di aria; dall'altra la bassa concentrazione di CO2 nell'atmosfera (400 ppm), che richiede una grande quantità di adsorbenti e un elevato consumo di energia per la loro rigenerazione. Questo fa della DAC una delle tecnologie di cattura della CO2 più costose.

La CO2 catturata dall’aria può essere utilizzata per diversi impieghi industriali, come nell’industria alimentare, chimica e petrolchimica, così da contribuire alla riduzione del costo del processo di estrazione.

Se la CO2 catturata viene immagazzinata in modo permanente, si parla invece di DACCS, Direct Air Carbon Capture and Storage. Formazioni geologiche come giacimenti di petrolio e gas esauriti o falde acquifere saline possono fungere da deposito di CO2 a lungo termine. Anche questa soluzione, tuttavia, non è immune da rischi, come le fughe di CO2 dagli stoccaggi. Inoltre, essendo una tecnologia che richiede grandi quantità di energia, affinché possa avere un impatto realmente positivo, questa domanda di energia dovrebbe essere accompagnata da un’ulteriore espansione della produzione di energia rinnovabile e potrebbe competere con altre strategie di elettrificazione. Per dare un’idea della dimensione, la cattura annuale del 5% delle emissioni europee del 1990 con un sistema DACCS completamente alimentato da energia elettrica rinnovabile, richiederebbe un aumento delle capacità dell'eolico onshore di 80-119 GW e del fotovoltaico di 85-126 GW.

Enhanced rock weathering

L'Enhanced rock weathering (ERW) è una tecnica che mira ad accelerare il naturale processo di rimozione della CO2, spargendo rocce di silicio ricche di calcio e magnesio, come il basalto, finemente macinate, sul suolo; qui, la roccia di silicato frantumata reagisce con la CO2 dell'atmosfera formando ioni bicarbonato che, tramite deflusso, vengono infine trasferiti negli oceani per lo stoccaggio a lungo termine. L’applicazione di queste rocce frantumate sui terreni agricoli comporta potenziali co-benefici per la salute dei suoli, la sicurezza alimentare e mitigazione dell'acidificazione degli oceani.

Trattandosi di una tecnica recente la conoscenza del possibile impatto ambientale e della sua reale efficacia è piuttosto limitata. Uno studio condotto su 12 Paesi (Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Messico, Polonia, Spagna e USA) avrebbe dimostrato che il principale costo energetico è dovuto alla frantumazione delle rocce per ottenere il materiale fine da spargere sul terreno. L’impiego di energia prodotta da fonti rinnovabili per frantumare le rocce in particelle più piccole può ridurre l’emissione di CO2 dovuta a questo processo. In generale, secondo lo studio, i requisiti energetici, idrici e il consumo di suolo dell’ERW sarebbe competitivo in termini di sostenibilità con altri metodi di cattura e sequestro della CO2. ERW richiede la metà della domanda di energia di DACCS, ha bisogno di più terra rispetto ad altre tecnologie come il BECCS o il biochar, ma evita la concorrenza nell'uso del suolo. ERW ha anche una domanda di acqua 10-100 volte inferiore rispetto ad altre strategie di cattura e stoccaggio della CO2.

Un altro studio evidenzia che la capacità di sequestrare anidride carbonica della ERW dipende anche dalle condizioni ambientali del suolo; dunque, l’impiego di questa tecnica deve tenere in considerazioni le specifiche del terreno su cui viene impiegata.

Questa tecnica, inoltre, si presta anche a ridurre le emissioni del settore minerario, infatti alcuni rifiuti minerari possono essere utilizzati come materie prime per la mineralizzazione della CO2.

Blue carbon management

Gli ecosistemi costieri come le foreste di mangrovie, le paludi salmastre e le praterie di posidonia, immagazzinano quantità significative di carbonio organico. Nonostante occupino meno dell'1% del fondo oceanico, questi ecosistemi, collettivamente indicati come blue carbon ecosystem (BCE), immagazzinano circa il 50% di tutto il carbonio organico presente in mare. Inoltre, pur occupando solo il 3% dell'area delle foreste terrestri, i BCE sequestrano una quantità comparabile di carbonio, poiché i tassi di stoccaggio del carbonio dei BCE sono circa 40 volte superiori rispetto ai suoli forestali.

Mentre il carbonio blu viene sempre più preso in considerazione dagli enti che si occupano di gestione delle coste, rimangono limitati i dati su quanto una gestione efficace possa influenzare la capacità di immagazzinare carbonio. Gli studi condotti sui casi di risanamento di ambienti costieri suggeriscono che tali progetti abbiamo effettivamente migliorato la capacità di immagazzinamento di CO2, ma per stimare correttamente la capacità di stoccaggio di CO2 occorrono periodi di osservazione di lungo termine, tendenzialmente oltre i 10 anni.

Gli studiosi evidenziano che i progetti di blue carbon management più efficienti sono quelli che puntano alla preservazione degli ecosistemi, piuttosto che al risanamento ambientale di ecosistemi degradati, infatti, in quest’ultimo caso il miglioramento dello stoccaggio del carbonio si osserva nel lungo termine. La riduzione della deforestazione degli ambienti costieri è importante perché, il maggior rilascio di CO2 non è solo legato alla perdita della biomassa, ma anche a un maggior rilascio della CO2 presente nei sedimenti.

Alcalinizzazione artificiale degli oceani

Di questa tecnica già ne aveva parlato Jacopo Mengarelli in questo articolo. Essa sfrutta un processo già in atto, infatti, parte della CO2 naturalmente assorbita dagli oceani reagisce con l’acqua formando acido carbonico (H2CO3). Tale processo prende il nome di acidificazione. L’alcalinizzazione, dunque, non è altro che il processo inverso. Disciogliendo in acqua minerali a base di silicato, come l’olivina, o di derivati del carbonato di calcio, come la calce viva o la calce spenta, accelera il naturale processo di alcalinizzazione dovuto all’invecchiamento delle rocce, aumentando l’assorbimento di CO2.

Per valutare i rischi ambientali derivanti da un impiego su larga scala occorrono ancora ulteriori studi. Se da una parte l’aumento dell’alcalinità oceanica può rappresentare una fonte di nutrienti, come il ferro e il magnesio, dall’altra parte può manifestarsi l’effetto tossico di metalli come il nichel, rilasciato dall’olivina. Inoltre, occorre approfondire anche le emissioni di CO2 derivanti dalla produzione delle sostanze da sversare per abbassare l’alcalinità.

Fertilizzazione dell'oceano

La fertilizzazione dell'oceano, ocean fertilisation, è una tecnica che consiste nell’aumentare la produzione biologica dell’oceano attraverso l'aggiunta di nutrienti alle acque oceaniche superiori.

Aumentando la disponibilità di nutrienti, l'assorbimento di CO2 viene stimolato attraverso la fotosintesi del fitoplancton che produce materia organica. Per la fertilizzazione l’elemento più utilizzato è il ferro, uno dei tre elementi limitanti insieme all’azoto e al fosforo. Quando si ricorre a questa tecnica, è necessario considerare le differenze regionali, la disponibilità di nutrienti e le condizioni di luce e temperatura.

Nel complesso, ci sono diversi studi che suffragano la fattibilità di questa tecnica, ma ci sono incertezze sia sulla percentuale di carbonio che viene effettivamente stoccato nelle profondità oceaniche grazie all’impiego di questa tecnica, sia sulla durata dello stoccaggio. Inoltre, ci sono alcune incertezze per quanto riguarda l’impatto sugli ecosistemi oceanici. In primo luogo, l'eccesso di nutrienti può portare all’eutrofizzazione, che può ridurre i livelli di ossigeno, modificare le specie di fitoplancton, con lo sviluppo di fioriture algali indesiderate, e ridurre la biodiversità. In secondo luogo, la fertilizzazione può diminuire in piccola parte il pH nelle zone più profonde, quindi contribuendo all’acidificazione, processo che, come abbiamo visto, si cerca di combattere proprio per migliorare l’assorbimento di carbonio degli oceani. Infine, la fertilizzazione degli oceani può influenzare la distribuzione globale dei nutrienti, dove alcune aree possono sperimentare una riduzione dell'approvvigionamento di nutrienti, influenzando la produttività biologica, che alla fine può avere effetti sulle attività economiche, come per esempio la pesca.

Le tecnologie CDR non sono un’alternativa alla riduzione delle emissioni ma, secondo tutti gli scenari previsti dai modelli elaborati dall’IPCC, sono necessarie per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero e per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2° C entro il 2100.

Inoltre, uno studio del 2021 ridimensionerebbe gli effetti positivi sul clima della cattura della CO2. Secondo lo studio, emettere CO2 per poi sequestrarla o non emetterla affatto, non sarebbero due opzioni equivalenti. Nel primo caso, infatti, la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera aumenterebbe lo stesso. Ciò sarebbe dovuto al fatto che, quando assorbiamo CO2 atmosferica con sistemi simili alla DACCS, la concentrazione diminuisce rapidamente per poi rialzarsi. Questo rimbalzo sarebbe dovuto al rilascio di CO2 da parte della biosfera terrestre e dell'oceano in risposta al repentino calo dei livelli di CO2 atmosferici.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Nobel per la fisica (e la chimica) alle reti neurali

Quest'anno l'Intelligenza Artificiale ha fatto la parte del leone nei Nobel per la fisica e la chimica. Meglio sarebbe dire machine learning e reti neurali, grazie al cui sviluppo si devono sistemi che vanno dal riconoscimento di immagini alla IA generativa come Chat-GPT. In questo articolo Chiara Sabelli racconta la storia della ricerca che ha portato il fisico e biologo John J. Hopfield e l'informatico e neuroscienzato Geoffrey Hinton a porre le basi dell'attuale machine learning.

Immagine modificata a partire dall'articolo "Biohybrid and Bioinspired Magnetic Microswimmers" https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1002/smll.201704374

Il premio Nobel per la fisica 2024 è stato assegnato a John J. Hopfield, fisico e biologo statunitense dell’università di Princeton, e a Geoffrey Hinton, informatico e neuroscienziato britannico dell’Università di Toronto per aver sfruttato strumenti della fisica statistica nello sviluppo dei metodi alla base delle potenti tecnologie di machine learning di oggi.