Immagine da Max Pixel (Public Domain).
Il primo ciclo del farmaco antivirale Paxlovid, sviluppato dalla multinazionale statunitense Pfizer contro Covid-19, è stato somministrato la scorsa settimana all’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma a un uomo di 54 anni con patologie cardiovascolari che lo esponevano a un rischio aumentato di andare incontro alle forme più gravi dell’infezione. Il trattamento per essere efficace deve cominciare entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi e prevede l’assunzione di tre pillole due volte al giorno per cinque giorni. Delle tre pillole, due contengono il principio attivo nirmatrelvir, una molecola capace di inibire il processo di replicazione del SARS-CoV-2 all’interno della cellula ospite. La terza pillola contiene invece il ritonavir, un agente antivirale inizialmente formulato per trattare l’infezione con HIV, il virus che causa l’AIDS, e che serve a mantenere alta la concentrazione del nirmatrelvir nel sangue per un tempo sufficientemente lungo ad avere l’effetto desiderato.
L’EMA ha autorizzato a fine gennaio l’uso di Paxlovid in persone a rischio di Covid-19 grave, seguendo la decisione già presa dall’FDA prima di Natale e dal Regno Unito alla fine di dicembre. In uno studio clinico che ha coinvolto circa 2 000 persone con almeno una condizione clinica che aumenta il rischio di sviluppare forme gravi della malattia, 1 100 partecipanti hanno ricevuto Paxlovid e gli altri un placebo. Nel primo gruppo, solo 8 persone sono state ricoverate e nessuna è morta nel mese successivo all’inizio del trattamento, mentre nel secondo gruppo i ricoveri sono stati 66, 12 dei quali si sono conclusi con la morte del paziente. Il farmaco ha dunque dimostrato di ridurre il rischio di ospedalizzazione o morte dell’88%.
Il farmaco è quindi estremamente promettente, ma per ora è disponibile in quantità limitate.
La struttura commissariale diretta da Francesco Paolo Figliuolo ha firmato un contratto con la causa farmaceutica statunitense per la fornitura di 600 mila cicli per il 2022, di cui 11 200 già consegnati e in distribuzione alle Regioni. La Germania ne ha ordinati un milione, gli Stati Uniti inizialmente 10 milioni, raddoppiando poi l’ordine all’inizio di gennaio. L’Europa sta valutando se avviare una contrattazione comunitaria come è già avvenuto per i vaccini.
All’inizio di gennaio negli Stati Uniti, al momento del picco di contagi dell’ondata guidata da Omicron, il farmaco era introvabile: le scorte delle farmacie e dei diversi fornitori di servizi sanitari si esaurivano rapidamente. I dati dello US Department of Health and Human Services indicano che al 9 febbraio erano disponibili circa 30 cicli ogni 100 000 abitanti.
«È solo questione di organizzazione», commenta Vincenzo Summa, professore di chimica farmaceutica all’Università Federico II di Napoli con alle spalle oltre venti anni di esperienza nello sviluppo di farmaci prima alla Merck e poi alla IRBM a Pomezia. «Probabilmente si ripeterà quanto abbiamo visto accadere con i vaccini, almeno nei paesi occidentali: una disponibilità inizialmente limitata e poi più ampia e capace di soddisfare la domanda.»
Molnupiravir e remdesivir
L’altro antivirale contro Covid-19 che può essere assunto per via orale è il molnupiravir, commercializzato con il nome di Lagevrio e sviluppato da Ridgeback Biotherapeutics insieme a Merck. Un trattamento, che deve iniziare entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi, prevede l’assunzione di quattro compresse al giorno due volte al giorno per cinque giorni. Il principio attivo di molnupiravir era stato sviluppato alla Emory University contro il virus che causa l’encefalite equina venezuelana e si basa su un meccanismo di inibizione della replicazione virale diverso da quello di Paxlovid. Agisce infatti sulla polimerasi del virus, integrandosi nella catena dell’RNA virale e introducendo una serie di errori che pur non inibendone la replicazione danno luogo a copie non funzionanti e incapaci di riprodursi ancora. Molnupiravir non è indicato per le donne incinte e alle donne in età fertile è raccomandato l’uso di un anticoncezionale efficace durante il trattamento e per i quattro giorni successivi. È anche consigliato sospendere l’allattamento nello stesso periodo. I test in vitro hanno infatti suggerito che ci potrebbe essere il rischio che la molecola crei mutazioni nel DNA umano, specialmente nelle cellule che si riproducono rapidamente, ma i test sugli animali hanno indicato che questo rischio è basso.
Molnupiravir non è ancora stato autorizzato da EMA, ma a novembre il suo comitato per i medicinali per uso umano ha espresso una serie di raccomandazioni per i paesi che ne volessero usufruire prima della decisione ufficiale dell’agenzia europea. Il primo paese ad autorizzare il farmaco è stato il Regno Unito, dove verrà somministrato ai diecimila partecipanti a uno studio clinico guidato dalla Oxford University, seguito poi dai Paesi Bassi. La Francia, invece, ha cancellato il suo ordine poco prima di Natale.
La decisione della Francia è motivata dai risultati deludenti dello studio clinico che ne ha valutato l’efficacia. Merck ha coinvolto 1400 persone circa, tutte non vaccinate contro Covid-19 e selezionate dai gruppi a maggior rischio di andare incontro a forme gravi dell’infezione (sopra i 60 anni, con malattie croniche dei reni o polmonare ostruttiva, un tumore attivo, obesi, con gravi problemi cardiaci o diabete mellito). Nell’analisi preliminare su circa 700 pazienti, il farmaco aveva ridotto l’incidenza di ospedalizzazione e morte nel mese successivo dal 14% al 7%, dimostrando un’efficacia del 50%. Ma quando, a fine novembre, i ricercatori hanno analizzato i dati relativi a tutti i 1400 partecipanti, il farmaco si è mostrato meno efficace: il rischio di essere ricoverati o di morire entro un mese dall’inizio dei sintomi si è ridotto dal 10% al 7%, un’efficacia del 30% circa.
Negli Stati Uniti, l’FDA ha riconosciuto a molnupiravir l’autorizzazione per l’uso in condizioni di emergenza, ma senza troppa convinzione: 13 voti a favore e 10 contrari. Da allora l’azienda ne ha consegnate in quantità sufficiente a garantire in media 150 trattamenti ogni 100 000 abitanti, ma sembra che le scorte si accumulino nelle farmacie: molnupiravir è considerata l’ultima scelta per i pazienti statunitensi. In altri paesi, come il Bangladesh e le Filippine, la versione generica del farmaco di Merck prodotta localmente viene prescritta ampiamente.
L’AIFA ha dato il via libera al molnupiravir il 22 dicembre scorso, autorizzando nella stessa seduta anche l’uso dell’antivirale remdesivir, commercializzato col nome Velkury e prodotto dalla Gilead Sciences, per pazienti non ospedalizzati ma con condizioni cliniche e fattori di rischio per lo sviluppo di Covid-19 grave, seguendo il parere di EMA del 16 dicembre. Fino a quel momento il remdesivr, che viene somministrato per via endovenosa, era autorizzato solo per il trattamento dei pazienti ospedalizzati e con bisogno di ossigeno. Si tratta del primo antivirale autorizzato contro Covid-19 già nel 2020, un farmaco inizialmente sviluppato contro il virus Ebola nel 2015 e risultato però inefficace per il trattamento di quell’infezione.
Stando agli ultimi dati di monitoraggio pubblicati dall’AIFA l’11 febbraio, se nella prima settimana di gennaio il remdesivir era stato prescritto a 1776 persone ricoverate per Covid-19 e in ossigenoterapia supplementare, nella prima settimana di febbraio le prescrizione sono scese a 1154. Mentre il remdesivir come trattamento precoce dell’infezione è andato a 356 contagiati nella prima settimana di gennaio e a 527 nella prima di febbraio. Il molnupiravir è stato prescritto a 650 persone all’inizio di gennaio, e poi si è stabilizzato intorno ai 1100-1300 trattamenti prescritti a settimana. Su Paxlovid, il monitoraggio è cominciato solo il sei febbraio e da allora le prescrizioni sono state in tutto 41.
Come hanno scoperto Paxlovid
Mentre molnupiravir e remdesivir sono due farmaci riposizionati, cioè i composti esistevano già prima della pandemia ed erano già stati testati in ambito clinico, Paxlovid, o meglio il suo principio attivo contro SARS-CoV-2 cioè il nirmatrelvir è una molecola nuova, sviluppata nell’arco di sei mesi da Pfizer.
I chimici della multinazionale statunitense avevano un enorme vantaggio: un punto di partenza. La società aveva infatti sviluppato nel 2003 un composto attivo contro la proteasi, un enzima che svolge un ruolo fondamentale nel ciclo replicativo del virus, del SARS-CoV, il primo coronavirus umano a causare una pandemia in tempi moderni che però si spense nel giro di pochi mesi senza fare troppi danni. SARS-CoV e SARS-CoV-2, il virus che causa la Covid-19, hanno una proteasi quasi identica. Il composto, noto come PF-00835231, era stato però concepito per essere somministrato via endovena.
«I chimici della Pfizer erano davanti a due sfide: rendere la molecola efficace per via orale e migliorare la sua affinità con SARS-CoV-2», spiega Summa. Per affrontare queste due sfide hanno sfruttato tutta la conoscenza scientifica a disposizione sugli inibitori della proteasi. «Per esempio hanno fatto un ibrido tra il loro composto di partenza e una parte del boceprevir, un agente antivirale formulato dalla farmaceutica Schering-Plough alla fine degli anni Novanta contro il virus dell’epatite C», continua Summa, che ha partecipato al processo di scoperta e sviluppo di un altro farmaco contro l’epatite C chiamato Zapatier quando lavorava alla Merck.
«Incorporare nella molecola in fase di sviluppo parti di strutture di farmaci già noti è estremamente vantaggioso durante un processo di drug discovery che ha vincoli temporali così stringenti, perché già se ne conosce il profilo di metabolismo e tossicità negli esseri umani». Questa scelta ha aumentato la capacità del composto di permeare la barriera intestinale e quindi lo ha reso disponibile oralmente. Ha anche aumentato la capacità dell’intera molecola di legarsi con la proteasi del SARS-CoV-2 rispetto alla molecola di partenza.
Paxlovid fa parte della prima generazione di antivirali, scoperti a tempo di record. Ne arriveranno altri, versioni migliorate dei primi o molecole del tutto diverse.
«Per quanto riguarda Paxlovid, ritengo che il limite principale sia la necessità di assumere, insieme alla molecola attiva contro SARS-CoV-2 anche una seconda molecola, il ritonavir, per rallentare la degradazione della prima da parte del nostro organismo» spiega Summa. Il ritonavir inibisce il metabolismo ossidativo che il nostro organismo usa per degradare ed eliminare una serie di molecole riconosciute come estranee, come i farmaci. «Per questo è necessario valutare l’interazione di Paxlovid con altri trattamenti farmacologici in corso magari per curare patologie croniche, per evitare effetti di tossicità. Il ritonavir mantiene alta nel sangue la concentrazione sia della molecola contro SARS-CoV-2 che di quelle contenute in altri farmaci e questo potrebbe causare tossicità. La fortuna è che l’infezione con cui abbiamo a che fare è acuta e non cronica, come per esempio accade col virus dell’HIV, e dunque il trattamento dura solo cinque giorni. Sospendere le altre terapie in corso per cinque giorni dovrebbe essere fattibile nella maggior parte dei casi.»
Secondo Summa il primo miglioramento a cui i chimici medici lavoreranno sarà quindi quello di eliminare il ritonavir e ridurre il numero di pillole da assumere, migliorando ancora la farmacocinetica del composto. Questo è fondamentale anche per garantire che tutti rispettino il piano terapeutico, oltre a ridurre i costi di produzione.
Affinché Paxlovid rappresenti davvero una svolta nella nostra lotta contro Covid-19 è anche necessario che le persone a rischio lo prendano entro pochi giorni dall’insorgenza dei sintomi. Questo richiede ampia disponibilità del farmaco ma anche possibilità di eseguire test diagnostici in tempi brevi.
«Pensando al futuro, ritengo che la possibilità che tutti abbiano accesso a un farmaco simile ma con un profilo di sicurezza e una facilità di somministrazione tali da poter essere assunto anche in senso profilattico, ovvero appena si sa di essere stati a contatto con una persona contagiata, possa fare una grande differenza. Conosciamo ancora poco delle conseguenze a lungo termine dell’infezione, anche di quelle asintomatiche, e limitare la replicazione del virus può proteggerci da effetti negativi che ancora non conosciamo.»
Più robusti degli anticorpi monoclonali rispetto alle varianti
Per alcune persone questi antivirali rappresentano già una grande speranza. Coloro che hanno sistemi immunitari che non reagiscono bene o per niente alla vaccinazione, per età, perché prendono farmaci immunosoppressori o perché soffrono di malattie congenite, hanno finalmente un’opzione terapeutica che non richiede il ricovero in ospedale, e scusate se è poco.
Finora la loro unica opzione erano gli anticorpi monoclonali o cocktail di essi, che possono essere somministrati solo per via endovenosa in ospedale e che si sono dimostrati meno robusti rispetto alle nuove varianti del virus, in particolare Omicron.
Due settimane fa, la FDA ha rivisto il suo parere su tre degli anticorpi monoclonali che aveva autorizzato, bamlanivimab ed etesevimab di Eli Lilly e REGEN-COV di Regeneron. L’uso di questi anticorpi è ora consigliato solo per coloro che sono contagiati con una variante diversa da Omicron, che però oggi causa sostanzialmente il 100% delle infezioni negli Stati Uniti. L’unico anticorpo monoclonale che si è dimostrato efficace anche contro Omicron è il sotrovimab prodotto da GlaxoSmithKline, ma questa settimana è stato pubblicato un preprint che indicherebbe che in esperimenti di laboratorio sotrovimab non è stato in grado di neutralizzare la “sorella” di Omicron, la variante BA.2 più trasmissibile e già dominante in alcuni paesi del mondo. Vir Biotechnology, che ha sviluppato sotrovimab con GlaxoSmithKline, ha però dichiarato che gli esperimenti condotti indicano che BA.2 non è resistente alla terapia.
Discutiamo spesso di coloro che scelgono di non vaccinarsi, per le ragioni più diverse. Quanto sarebbe rivoluzionario, per quel dibattito, considerare il punto di vista di chi, pur essendosi vaccinato più volte, non ha sviluppato una risposta immunitaria protettiva e continua a essere esposto alle conseguenze più gravi dell’infezione?
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