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Scienza e Letteratura, discipline in equilibrio dinamico

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Scienza e letteratura sono mondi contrapposti, facce di una stessa medaglia oppure entità che interagiscono dinamicamente, trovando equilibri diversi a seconda dei momenti storici e dei protagonisti? L’ipotesi della contrapposizione è basata, spesso, su una presunta dicotomia di strutture linguistiche: il linguaggio scientifico sarebbe meno ridondante e ambiguo e, contemporaneamente, più strutturato e rigido, con il suo punto di convergenza all’infinito rappresentato dai linguaggi artificiali (Giuseppe O. Longo). Il linguaggio letterario sarebbe, invece, più teso alla comunicazione di emozioni, retorico, libero e basato più su analogie e giustapposizioni che su deduzioni.

Questa lettura, anche se prevalente al giorno d’oggi, non lo è sempre stata. Ha osservato, infatti, Armando Ginesi che la lingua italiana è nata anche come strumento di comunicazione scientifica. Un esempio illustre l’ha fornito nientemeno che Dante Alighieri nel suo Convivio, un “banchetto di scienza e sapienza”. Un’opera che, per quanto incompiuta ha rappresentato un importante “manifesto di diffusione e democratizzazione della cultura” e un “trattato di scienza laica del mondo moderno” (Aldo Vallone). Nel Convivio il poeta fiorentino ha spiegato, intanto, che l’uso della lingua volgare era funzionale soprattutto alla diffusione del sapere, ribaltando l’allora comune paradigma dell’uso del latino e della divulgazione delle idee solo per pochi studiosi. Ha chiarito, inoltre, che l’oggetto dell’opera era la filosofia, intesa, in coerenza con la Scolastica di Tommaso d’Aquino, come disciplina attinente la fisica, la metafisica, l’etica e la teologia contemporaneamente.

Questa situazione, in cui espressione scientifica e letteraria sono andate di pari passo, è proseguita almeno fino al periodo dell’Illuminismo. E’ stato rilevato, infatti, che anche in Galileo Galilei non erano presenti importanti fratture, pur essendo rilevabili in nuce alcuni loro elementi. Andrea Battistini, a tal proposito, ha evidenziato la “determinazione galileiana nell’eliminare dalla sua terminologia scientifica parole di ascendenza aristotelica come simpatia, antipatia, talento” a causa della loro ambiguità. Tale frattura si consolidò, comunque, solo con le Accademie, in cui finì per formarsi una lingua scientifica ad hoc con la conseguente nascita dell’idea dicotomica in seguito entrata nel senso comune.

Un’argomentazione forte per chi sostiene la tesi della contrapposizione è, poi, la supposta differenza di scopo. La letteratura sarebbe diversa proprio per la sua tensione a negare e trascendere le rigidità e le limitazioni del ragionamento scientifico. Giacomo Leopardi è considerato uno degli autori principali a supporto, sulla base di affermazioni del poeta di Recanati tipo “Il cuore rifà la vita che l’intelletto distrugge”.

E’ proprio vero, però, che Leopardi è stato solo un grande cantore delle emozioni? Forse no. Come ha osservato Gianni Zanarini (commentando il testo Leopardi e le ragioni della verità di Gaspare Polizzi), infatti, si potrebbero individuare due periodi nella vita e nella produzione artistica del nostro molto diversi fra loro. Al primo Leopardi – quello anteriore alla lettera a Pietro Giordani in cui il poeta dichiarò di voler mettere da parte i propri interessi scientifici per dedicarsi alle “lettere belle” (1815) – si potrebbe attribuire una visione della scienza assolutamente positiva, in quanto, illuministicamente, il mezzo per antonomasia di far prevalere la verità sull’errore e vincere la sofferenza. Una posizione, questa, collegabile allo studio sui testi scientifici dell’immensa biblioteca paterna, all’amicizia con Giovan Pietro Viesseux e al contatto col suo gabinetto scientifico letterario. Principale risultato tangibile di questa fase potrebbe essere il saggio Storia dell’astronomia, centrato sulle figure di Galileo, Copernico, Newton, eroi nella battaglia del genere umano contro le sue pericolose illusioni e superstizioni. Al secondo Leopardi si potrebbe associare, invece, il noto“pessimismo cosmico” e la sfiducia nei confronti della scienza delle Operette Morali e dello Zibaldone. Il punto di vista, in questa fase, sarebbe ancora fiducioso nelle scienze e nella loro capacità di raggiungere “il vero” ma non più sulla possibilità per l’individuo di raggiungere felicità e consolazione attraverso queste. Il poeta avrebbe cominciato a considerare, in pratica, non solo la potenza del sapere scientifico ma anche la sua incapacità di fornire tutte le risposte: sarebbe esistito, quindi, sempre un limite alla conoscenza, un “infinito”, intangibile e precluso, protetto da una siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sembrerebbe difficile poter individuare in questo secondo Leopardi qualche elemento a sostegno del ruolo di scienza o progresso ma è proprio quel che ha fatto Polizzi. La tesi è “sicuramente ardita” (Zanarini) ma ci sarebbero comunque elementi sufficienti per interpretare la disillusione di Leopardi non come una frattura con la scienza in generale ma solo con un certo modo di fare scienza (il razionalismo meccanicistico di alcuni interpreti minori dell’Illuminismo). Non sarebbe vero, quindi, che nel secondo Leopardi non c’è scienza: ci sarebbero altresì ante litteram alcune intuizioni di incompletezza dell’approccio tradizionale collegabili alla nascita delle successive “scienze della complessità”, come la meccanica quantistica o la teoria dei sistemi lontani dall’equilibrio di Ilya Prigogine.

A supporto della tesi della corrispondenza si può trovare, d’altronde, un momento relativamente recente in cui scienza e letteratura sono tornate ad avvicinarsi quasi come nelle epoche pre-illuministiche. Si tratta della prima metà del ‘900, con il fiorire di fondamentali scoperte scientifiche e, contemporaneamente, di varie avanguardie in ambito letterario. Come valido rappresentante di questa fase si può scegliere Italo Calvino, un autore che ha utilizzato la scienza come motore principale della narrazione e che, dualmente, ha pensato anche a un’ipotesi di “calcolabilità” della letteratura.

La critica (si vedano ad esempio Claudio Milanini con L’utopia discontinua e Massimo Bucciantini in Italo Calvino e la scienza) ha individuato nella sua produzione alcuni filoni fondamentali, fra cui quello “fantastico” (anni ‘50 -’60) e quello “combinatorio” (principalmente dal 1960 in poi), ciascuno caratterizzato da una propria modalità di dialogo fra scienza e letteratura. Una delle opere considerate più importanti per il primo periodo sono state Le Cosmicomiche: una raccolta di racconti in cui, partendo sempre da fatti scientifici l’autore è arrivato, spingendo al limite le situazioni, a conclusioni inaspettate, spesso assurde e divertenti. Eugenio Montale ha individuato nelle Cosmicomiche una “fantascienza alla rovescia”: la scienza è stata utilizzata non per immaginare possibili futuri (come nelle comuni opere di science fiction) bensì per recuperare la dimensione del mito, esiliata dalla società tecnocratica. E’ interessante notare che la commistione scienza-letteratura nelle Cosmicomiche non ha riguardato solo i contenuti ma anche il linguaggio. Sono stati individuati contemporaneamente, infatti, tecnicismi e colloquialità, forte strutturazione linguistica e geometrie formali, ansia del distinguere, riformulare, spiegare per analogia, affermare ipoteticamente e rettificare (Sergio Blazina).

Se tutte queste considerazioni non fossero sufficienti per capire quanto Calvino risulti vicino alla letteratura quanto alla scienza si può portare anche un altro testo a supporto, la riflessione Cibernetica e fantasmi del 1967. Qui oltre alle tematiche precedentemente evidenziate (la fiaba, il mito, l’ironia, la scienza come punto di partenza), a dare ulteriore sostanza al legame scienza-letteratura, si possono riconoscere anche elementi di teoria dei sistemi (Wiener, Shannon, Von Neumann) intrecciati con le tesi delle avanguardie letterarie del periodo (Oulipo, Scritturalismo, Neo Formalismo russo) in un mix assolutamente innovativo. In Cibernetica e fantasmi Calvino ha mostrato, infatti, che, fin dalla scoperta del linguaggio, l’uomo ha sempre composto le sue storie principalmente con permutazioni di parole, per esprimere con pochi simboli un numero quasi infinito di concetti. Portando all’estremo questo ragionamento l’autore si è domandato allora, se, viste le riflessioni del periodo sulla struttura delle opere letterarie e le contemporanee scoperte in ambito di intelligenza artificiale, non fosse concepibile una “macchina letteraria” per scrivere i racconti al posto dei consueti autori umani. Egli, fra l’altro, ha raggiunto la conclusione positiva senza accompagnarla con i “lagrimosi lamenti” che visioni di questo tipo provocano solitamente fra i letterati. L’ha considerata, invece, lo spunto per interrogarsi sul meccanismo di innesco dell’inconscio umano e per chiedersi se la creatività umana risultasse, per far ciò, un requisito indispensabile. La tesi finale è risultata decisamente forte, riconoscendo il primato del significato dato all’opera dai lettori sul talento dell’autore; poteva esserci, sostanzialmente, anche una macchina dietro un capolavoro, bastava che questo fosse riconosciuto tale dal pubblico. Una visione in linea, del resto, non solo con la cibernetica ma anche con le teorie sulla comunicazione di Roman Jakobson secondo cui l’emittente e il destinatario concorrono entrambi ad assegnare significato al messaggio recepito.

Tutto risolto, dunque? Ci aspetta un futuro di macchine letterarie in cui le opere saranno per definizione sia letteratura che scienza? Potremmo affermare senza indugi che scienza e letteratura sono sempre state “sorelle” (Ginesi) ispirate dagli stessi ideali di bellezza, ordine, armonia?

Forse no. Intanto, a oggi, sono stati inventati traduttori, correttori sintattici e interpreti di query in linguaggio naturale, ma nessuno ha ancora realizzato una macchina in grado di scrivere veri romanzi nonostante la profezia di Calvino. Anche sulla validità del suo periodo combinatorio, poi, ci sono state alcune voci dissonanti (Carla Benedetti in Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura e Francesco Varanini nell’articolo Di Calvino per me tra cent’anni non si ricorda nessuno).

Non ci resta che concludere, all’opposto, che le due discipline sono ormai irrimediabilmente in contrapposizione l’una con l’altra? Anche questo non è possibile: sono molte delle argomentazioni precedenti a impedircelo.

Una tesi intermedia abbastanza convincente è stata proposta da Battistini nell’articolo Nuovi licei: l’avventura della conoscenza ed è con questa che riterremmo di poter risolvere la questione.

Lo studioso ha osservato, infatti, la presenza sia di validi casi a sostegno della teoria della compenetrazione sia di esempi favorevoli alla tesi dicotomica. A supporto della prima ci sarebbero i momenti in cui l’arte si è incentrata sull’esaltazione della scienza (tipo Illuminismo e Futurismo) e quelli in cui gli scienziati hanno utilizzato immagini e linguaggi evocativi per sostenere i propri ragionamenti (ad esempio per strumenti formali non ancora adeguatamente implementati). A supporto della seconda, invece, ci sarebbero i periodi normali (in cui, cioè, non sono avvenute particolari rivoluzioni in ambito scientifico e di senso comune), in cui le due discipline hanno avuto interessi centrali e linguaggi in parte divergenti. A causa di tutto questo non sarebbe corretto né parlare di sola compenetrazione né di sola contrapposizione. Potrebbe esserlo, però, pensare a un rapporto che sia un mix fra i due casi limite, influenzato col contesto e variabile nel tempo. Tutti gli esempi che abbiamo portato, a ben vedere, non fanno altro che confermarlo: l’interazione è indubbia, ma è altrettanto evidente che forme e intensità con cui si esplica variano.

Possiamo dire, dunque, con un’immagine, che scienza e letteratura si possono vedere come due pianeti che ruotano attorno allo stesso sole. Oggetti sempre in equilibrio, che si avvicinano in certi momenti e si allontanano in altri. Ognuno con le proprie specificità, tuttavia, perché, come osserva Battistini, se “è deformante ignorare i tratti comuni, quasi che l’uomo proceda nel suo sapere per compartimenti stagni, altrettanto deformante è credere che si possano cancellare tutte le differenze, rendendole banali o, peggio, facendo finta che non esistano”.

di Ludovico Ristori


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