Lo scorso giugno un team internazionale ha navigato per due settimane nel’Oceano Pacifico raccogliendo campioni d’acqua e di organismi marini. Lo scopo era quello di valutare l’impatto dell’evento-Fukushima: ora sono stati pubblicati i primi risultati.
L’intento di Ken Buesseler (Wood Hole Oceanographic Institution) e della dozzina di altri ricercatori che hanno collaborato al progetto era quello di ottenere una valutazione indipendente del livello di radioattività oceanica imputabile al disastro giapponese del marzo 2011. Uno degli isotopi rilasciati in quell’occasione fu il Cesio-134 che, per il ridotto tempo di dimezzamento (poco più di due anni), è stato impiegato dai ricercatori come marker sicuramente riconducibile a Fukushima. Dal suo confronto con il cesio-137, riconducibile agli esperimenti nucleari degli anni Cinquanta e Sessanta, è stato possibile quantificare l’entità dell’emissione dei reattori giapponesi.
Nel lavoro, pubblicato sulle pagine di PNAS, Buesseler e collaboratori sottolineano che i livelli di radiazione sono 1000 volte superiori rispetto a quelli presenti prima dell’incidente, anche se restano comunque al di sotto dei livelli d’allarme per l’uomo e gli organismi marini. I valori registrati, infatti, risultano circa un sesto di quelli imputabili a radionuclidi naturali, quali ad esempio il potassio-40. Secondo i ricercatori la fuoruscita di materiale radioattivo da Fukushima costituisce la più grande immissione accidentale di radiazioni nell’oceano mai avvenuta prima d’ora.